di Franco Pezzini
Guy Boothby, Il Dottor Nikola. Romanzo d’avventura fantastica, ed. orig. 1896, trad. di Marina Pirulli, prefaz. di Marco Steiner, con otto illustrazioni di Nora, pp. 312, Cliquot, Roma 2021.
Per un orizzonte geografico sconfinato – potremmo dire a tutto tondo planetario – come quello dell’impero vittoriano, il concetto di bordo, limite o confine presenta qualcosa di paradossale: non è strano che tanto spesso l’avventura e il fantastico (come del resto tradizionalmente in precedenza, con i mostri sui bordi di un cosmo come summa e armonia) passino proprio per tale paradosso.
È il caso della wilderness australiana dove si conclude A Strange Story di Edward Bulwer-Lytton, 1861-1862 (che tratterò in uno dei prossimi Victoriana) e si consuma Picnic at Hanging Rock di Peter Weir, 1975 (sulla sopravvivenza di un perturbante passato pronto a inghiottire il Nuovo Mondo, una terra ancora vergine per la pericolosa iniziazione delle vergini inglesi). È il caso dell’Oriente centroasiatico del cosiddetto Grande gioco (termine coniato nel 1829 da Arthur Conolly, ma popolarizzato col Kim di Rudyard Kipling, 1900-1901), delle fantasie teosofiche di Madame Blavatsky (1831-1891) e di quelle mistico-pittoriche di Nikolaj Rerich (1874-1947), ma poi ancora celebrato da Ferdynand Ossendowski nel febbricitante Beasts, Men and Gods, 1921, e trasfigurato in certi luoghi fantastici lovecraftiani (come l’onirico altipiano di Leng). È il caso di Cina, Indocina e Giappone, con le loro suggestioni di esotismo e crudeltà fantasiose (dai romanzi di Salgari a Le Jardin des supplices di Octave Mirbeau, 1899 e ovviamente al terribile cinese Fu Manchu) o molto realistiche, si pensi solo alla rivolta dei Boxer in Cina, 1899-1901, e alla ferocia con cui le potenze occidentali – Italia compresa – la soffocarono. Film come 55 giorni a Pechino, 1963, diretto da Nicholas Ray, Andrew Marton e Guy Green ne offrono una lettura educatamente edulcorata.
E su queste vie del Far Far East un autore nato proprio in Australia da una famiglia importante, Guy Boothby (1867-1905), articola in un romanzo da poco riproposto in Italia un’avventura godibilissima fortemente impregnata di fantastico. Partito col narrare storie di vita locale, Boothby – attivo prima nell’amministrazione coloniale e poi datosi avventurosamente a vagabondaggi tra sud-est asiatico e Oceania, praticando le attività più varie – passa ad articolare un’imponente produzione di genere, 53 romanzi e dozzine di racconti e opere teatrali. Nelle sue storie avventurosissime spiccano elementi fantastici, fantascientifici, gotici (notevole il suo Pharos, the Egyptian, 1899, epopea di mummie e maledizioni nilotiche), ma anche polizieschi e sentimentali. E un ruolo particolare in questo grande bacino va riconosciuto alla saga del Dottor Nikola, cinque romanzi tra il 1895 e il 1901: la storia di un geniale, affascinante avventuriero occidentale a capo di un’intera organizzazione, insieme eroe e vilain, scienziato e occultista, che salda idealmente Holmes (dal 1887) e Moriarty (dal 1893) con un quid di Rocambole (dal 1857), e prefigura gli exploit di Fantômas (dal 1911) e Fu Manchu (dal 1912).
Per quanto pubblicate in Italia a inizio novecento, le avventure di Nikola sono state dimenticate per lungo tempo: la casa Cliquot – come sempre con operazioni editoriali molto eleganti anche sul piano del formato – offre ora il secondo romanzo sul personaggio, Il Dottor Nikola (Doctor Nikola, apparso anche come Dr Nikola Returns, 1896), una storia godibilissima di avventura esotica dove il narrante Wilfred Bruce, un inglese che dopo mille avventure si trova spiantato in Cina, accetta un’offerta che lo renderebbe ricco. Lavorerà con l’incredibile Nikola che lo strega fin dai primissimi incontri: assieme rischieranno la vita di continuo, attraverso il Celeste Impero e poi tra le montagne del Tibet, per strappare a una favolosa organizzazione segreta – monaci detentori di arcanissimi segreti – quei misteri a beneficio di Nikola ma anche dell’umanità.
Il ritmo scatenato (agguati inattesi, fughe precipitose, mascheramenti continui) e il tono lieve rendono la lettura estremamente piacevole, e l’insieme riesce ancora a “prendere” chi decida di accostarvisi. Anche di fronte alla morte, Nikola riesce sempre a cavare una soluzione dal cappello, ma ciò non banalizza l’insieme: e le descrizioni sono di grande fascino. In particolare l’avventura nel monastero labirintico su montagne che sembrano uscite dal dipinti di Rerich – e potrebbero aver ispirato Il mandala di Sherlock Holmes di Jamyang Norbu (Instar Libri, 2001) –, dove i Nostri dovranno giocare la partita finale, fa ben comprendere come questo autore abbia conosciuto tanto apprezzamento di pubblico, venendo letto con gusto dallo stesso Orwell. Ovvio trovare in queste pagine luoghi comuni d’epoca e connotazioni che flirtano col razzismo (in particolare sui cinesi: rinvio allo studio di Fabio Giovannini, Musi gialli. Cinesi, giapponesi, coreani, vietnamiti e cambogiani: i nuovi mostri del nostro immaginario, Stampa Alternativa, 2011, che su questo filone di miti e pregiudizi articola un’interessante indagine), ma senza insistenze spiacevoli: si tratta ovviamente di ascrivere a un contesto d’epoca un romanzo popolare d’avventure con forti polarizzazioni. Dove il ruolo stesso di un carismatico conquistatore come Nikola mantiene un’affascinante ambiguità. La Cina, almeno al tempo, non è così vicina.