di Francisco Soriano

(Carceri di Milano, 28 ottobre 1920)

No, non son vinta. Vibra, in me, più forte,
L’ardente fede ne l’angusta cella,
E frange i ferri e batte le ritorte,
L’onda del sogno, che il mio cor flagella

Non sono vinta! è senz’altro la poesia più conosciuta di Virgilia D’Andrea. Il testo è strutturato in quartine di endecasillabi e rime alterne che ben scandiscono il ritmo e il tono attraverso i quali la poetessa ha voluto imprimere armonia alla lettura. In realtà la tensione che si avverte nelle parole d’esordio, nei contenuti soprattutto, vibra e permea la nostra sensibilità in un modo abbastanza doloroso. Né la fede ardente di Virgilia né il suo impulso combattivo riescono a mediare in noi lo slancio di repulsione nei confronti dei carcerieri che scatena questa ingiustizia. Ingiustizia perché propinata nei confronti della libertà di parola e di pensiero che l’autrice ben delinea visivamente nei ferri, nelle ritorte, nell’angusta cella. In Virgilia, spirito nobilissimo quanto indomito, la consapevolezza di non essere vinta dal satiro fascista risiede nella fede, nella libertà e nella giustizia che ogni cosa sublima. L’onda del sogno, che il mio cor flagella è verso poetico invincibile, ineluttabile, civile. La poetessa incita alla rivolta, è persuasiva, incisiva, come dimostra la sua vita errante colma di sacrifici indicibili. Si rivolge alle donne e agli uomini che della libertà fanno una bandiera:

Getta la penna, nei tumulti, i versi,

Ed essi vanno, azzurri e fascinati

Parole scagliate attraverso i miseri e i vili d’altri tempi, e dei nostri, perché rimangano scalfite nel granito: nessun vento dell’oblio le cancella, e neppure lo schianto di una rivoltella le attraversa. La solitudine della lotta fortifica l’anima che sfida insidie e frodi, legge nel fosco de l’ombra e svela, finalmente, l’agguato bieco. Ed è proprio vero quello che ci confessa Virgilia D’Andrea sullo stato della nostra anima in lotta:

E passa e lotta e resistente avanza,

Senza sgomento, verso l’alte cime,

Ed aspra più diventa la distanza,

E più le sembra il sogno suo sublime

Eppure, l’ingiustizia e la perversione degli uomini, perché questo genera il potere bieco e tristissimo nel mondo, obbliga a farsi, nel proprio petto, di granito il core, che per questo non cede, non muta e non dispera. Il canto di libertà svetta, nonostante tutto, non muore, ha la parvenza di un sogno, ma presto questo si avvera, è fonte ingemmata di bellezza vera. Nessun bisogno di clamori e onori, di medaglie e riconoscimenti, delle vostre glorie e le dorate sale: il mondo non si addice a chi, come Virgilia, nel tumulto de la vita non ha venduto o spento l’ideale. Proprio per il suo ideale, al di sopra delle facilità e superficialità del mondo, Virgilia ha cantato di cenci e ha calpestato il fior de le languenti dame. Ai difensori della libertà, ai cantori degli stanchi e dei perduti, spettano i solai e l’occulta fame, la gogna, infine, e le prigioni. Dal carcere milanese Virgilia, madre, sorella, compagna, urla ai propri carcerieri: Stringete, dunque, ancor… ferri e catene! Contro i torturatori e maramaldeschi fascisti rivivranno in eterno le armi della poesia, che nel cuore degli ultimi infiammano e lottano:

Le azzurre strofe mie battono l’ala,

Verso le lotte de le grandi arene…

Le raccoglie la teppa e le immortala

NON SONO VINTA! 

No, non son vinta. Vibra, in me, più forte,

L’ardente fede ne l’angusta cella,

E frange i ferri e batte le ritorte,

L’onda del sogno, che il mio cor flagella.

No, non son morta. Ma più puri e alati

Getta la penna, nei tumulti, i versi,

Ed essi vanno, azzurri e fascinati,

Verso il nitore di bei cieli tersi.

Quando da sola l’anima cammina,

E insidie e frodi il mondo le congiura

E nel fosco de l’ombra essa indovina

Che v’è l’agguato bieco o la sventura,

E passa e lotta e resistente avanza,

Senza sgomento, verso l’alte cime

Ed aspra più diventa la distanza

E più le sembra il sogno suo sublime;

Quando… pur triste… e fragile parvenza

Inchioda, il mondo, ad ascoltar la voce,

Che dalla cupa e turbinosa essenza

Urla il martirio de la ingiusta croce,

Allor s’è fatto di granito il core.

E non cede, non muta e non dispera:

Canto è di sogno che, giammai, non muore…

…Fonte ingemmata di bellezza vera.

Oh! ben lo so… che se cantato avessi

Le vostre glorie e le dorate sale…

Se nel tumulto de la vita avessi

Anch’io venduto o spento l’ideale,

Certo mi avreste aperto intero il mondo,

Rose m’avreste sparse sul cammino,

Rete di sogno mèmore e profondo…

Forse… l’alloro… in fondo al mio destino.

Ma ho cantato di cenci… e ho calpestato

Tenero, il fior, de le languenti dame;

Ma ho scoperto i solai… e ho profanato

L’aria col tanfo de l’occulta fame.

Ma ho cantato di stanchi e di perduti,

Di desolati nei singhiozzi proni,

Ho pianto sopra i morti ed i caduti,

E merito la gogna… e le prigioni.

Stringete, dunque, ancor… ferri e catene!

Le azzurre strofe mie battono l’ala

Verso le lotte de le grandi arene…

Le raccoglie la teppa e le immortala.

 

* Per una biografia di Virgilia D’Andrea, vedi Francisco Soriano, Virgilia D’Andrea, torce nella notte, pubblicato su Carmilla il 6 ottobre 2020

 

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