di Luca Baiada
Alessandra Ballerini, La vita ti sia lieve. Storie di migranti e altri esclusi, prefazione di Erri De Luca, postfazione di Fabio Geda, Zolfo Editore (2013) 2023, pp. 248, euro 17.
«Cosa pensi di fare, avvocato del cazzo, puttana, difendi quelle merde del Social forum? Allora ti ammazziamo insieme agli altri». Alessandra Ballerini è trattata così il 21 luglio 2001, a Genova, davanti alla scuola Diaz. Ne è uscita poco prima, alla fine di una giornata d’impegno politico e giuridico. Aveva bisogno di una pausa, di una doccia. Quelli rimasti dentro l’hanno avvertita subito, per telefono, della violenza che si è scatenata su di loro, inermi. È tornata ma non la fanno entrare. C’è un pestaggio atroce che per gli atti ufficiali vorrebbe essere una perquisizione, lei sente le grida, è avvocata, ha diritto e dovere di assistere gli indagati, le hanno dato un mandato fiduciario. Già: avvocato, diritto, dovere. Parole che di colpo hanno perduto ogni senso. La giovane legale sbatte subito il muso contro la realtà: i rapporti di forza la spingono giù nel vuoto, con un calcio e senza rete.
Anni dopo, presentando il suo libro, rifletterà su un cortocircuito della memoria: la Diaz era una scuola, divenne luogo di tortura, adesso c’è chi la chiama come una sede militare: caserma Diaz. La violenza ha conseguenze anche sulle cose, sui luoghi, è una macchia difficile da cancellare. È possibile anche il percorso inverso. Il Piccolo Teatro di Milano fu realizzato, dopo la guerra, dove i nazifascisti torturavano i partigiani. Certo, per recuperi così, per celebrare i misteri vittoriosi, ci vogliono le persone giuste: Giorgio Strehler, Paolo Grassi, il sindaco Antonio Greppi. Questo conferma che il tradimento degli intellettuali – giuristi compresi – è un danno amaro, un veleno a lungo termine. Al tossico si aggiunge il furto delle medicine. Anzi, il furto con contrabbando al nemico.
Bene, allora, che La vita ti sia lieve apra su Genova, per affacciarsi su violenze e indagini, soprusi e tentativi di rimedio, disperazioni e nuovi cammini. Storie accomunate dall’impegno in uno studio legale che all’occorrenza diventa rifugio, tetto provvisorio per les épaves che le onde vogliono trascinare via, far scomparire.
Disarmante, la domanda di un bambino, in una scuola, perché non l’ha mai vista in televisione: sei sicura di essere un avvocato? Lei si aggrappa alle carte – è un costume tipico dei giuristi, in quelli di tradizione continentale scatta con speciale pignoleria – e si fruga le tasche come se fosse davanti alle guardie, per mostrare il tesserino. L’interrogativo del piccolo sfuma ma il tema no, evidentemente: eccola, rimasta sola nella pagina, che si ritrova a guardarselo, il suo tesserino. Non si sa mai.
Quella perplessità sul ruolo è un pungolo di coscienza. Chi attraversa davvero questi dubbi non corre il rischio di difendere gli alti papaveri, insomma di far la cresta sui crimini dei colletti bianchi. Qualcuno nell’avvocatura l’ha scelto per mestiere, sapendo bene che i colletti bianchi programmano una parte del bottino per le spese di difesa, in un circuito maligno. Un po’ come i compensi stellari degli alti dirigenti d’azienda hanno il sottinteso, all’occorrenza, del carochimica per gli stimoli sintetici, legali e no. Che l’autrice abbia scelto i colletti sporchi? Forse ha scelto anche le persone senza colletto, quelle come il mediano Abdul nella canzone di Paolo Rossi, che quando giocava nel Gabul portava la maglia nera con le righe nere («niente, giocavo a torso nudo, e allora?»).
Nella scuola, il bambino dubita che lei sia un avvocato; a Genova, chi bastona in divisa ne è certo ma insulta e minaccia. Due negazioni diverse, ovvio, solo una colpevole. Entrambe, però, ci dicono quanti ostacoli ci sono fra da un lato uomini e donne della giustizia, dall’altro la prepotenza, lo spettacolo e i loro servi. Un sunto di questo è nella storia di Kamel, ex poliziotto algerino. In Italia, dopo mille mestieri e disavventure, si ritrova a fare l’informatore per la polizia, con un ma: gli chiedono di infiltrarsi nei centri sociali e si rifiuta. Il motto è che quando non si riesce ad avere giustizia, intanto è bene cercarla in proprio.
I soccorsi non sono solo materiali. Ai giovanissimi che assiste, Alessandra Ballerini regala libri. Primeggia un testo di formazione col sottinteso del combattimento: Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Scrittore e artista, esteta raffinato, caduto pilotando un caccia nella guerra contro la Germania nazista. Sono parentele misteriose, quelle fra l’arte e un eroe, e La vita ti sia lieve non è sordo a legami nascosti, come quelli creati dalla tecnica degli orti sinergici, insegnata ai detenuti. Sembra che la rosa e il carciofo crescano bene insieme; eppure hanno modi così diversi, di farsi perdonare le spine. La storia del fiore e dell’ortaggio corazzato ha il buon sapore – possiamo dire antico, classico come il più caloroso Novecento – di ciò che è stato chiamato «il pane e le rose».
Col pane e con le rose si affaccia qualcosa, un timbro personale che smaglia la toga. La mossa furtiva di una donna, fra un controllo e l’altro, in un luogo di sbarre, di grigiore metallico, di suoni ostili. Labbra avide e grate ricevono un tocco di rossetto, e in un attimo l’attrazione e il piacere si prendono la loro parte di vita, il loro spazio.
È l’eroismo del bello, una seduzione inconsapevole che fa pensare a certe scene di Kapo di Gillo Pontecorvo, ma in trasparenza – scendendo ancor più la scala del dolore e dell’impossibile – anche alle parole estreme del Settimo pozzo con cui Fred Wander, per una suprema rivincita sugli aguzzini, tratteggia la bellezza insopprimibile dei corpi sfigurati dal Lager. La donna senza nome, la furtiva che si trucca in La vita ti sia lieve, sembra essere una compagna di militanza e di lavoro, ma il chiaroscuro della pagina ne fa una sagoma, un altro volto delle migranti, delle prigioniere e sotto sotto – lo diciamo a bassa voce – dell’autrice.
Serba forse lei stessa, qualcosa da parte? Chissà. A ogni cancello, a ogni confine, la realtà l’ha costretta a imparare come non volgere più indietro la testa. Deve superare i «gironi», e l’eco è dantesca. Ci sono dentro i divieti di guardare, di voltarsi, lo sguardo di Medusa: «Nulla sarebbe di tornar mai suso».
Di più non si deve pretendere, almeno per ora. L’autrice resta sempre una giurista, malgrado la toga diradata. I giuristi, a parte quelli irrimediabilmente pietrificati, sono persone che hanno qualcosa da dire, che sanno la lingua, sì, ma hanno come ancora davanti a sé la conquista di un linguaggio:
Trovarsi o sentirsi «diversi»: i peggio vestiti, i più spettinati, i più timidi, i più soli, in luoghi dove tutti sembrano disinvolti, interessanti e sicuri, in feste o riunioni alle quali non abbiamo saputo sottrarci e da dove, poi, si vorrebbe fuggire, o almeno scomparire. […] Patire in quasi ogni luogo, insofferenti, insoddisfatti delle nostre scelte, della spendita del tempo, delle occasioni perse per raggiungerne altre che mai riescono a ridurre l’ansia di andare. […] Sentirsi scomodi, seppure, a volte, inconfessabilmente fieri del posto conquistato in questa nicchia per pochi ultimi, sul banco degli imputati o tra vite di scarto, in luoghi, anche mentali, di gratuito disprezzo e immeritate accuse.
Durante un incontro professionale mostra ai profughi una sua cicatrice, per farsi raccontare le loro e tradurle in argomenti di difesa. Dopo che ci ha confessato questa mossa compromettente, consegnandola alla pagina stampata, commetteremo l’indelicatezza di esigere i dettagli che la riguardano, di sbirciare le piaghe? I cercatori di piaghe a tutti i costi hanno pronta la monetina dell’elemosina. «L’empatia a volte è una condanna», scrive, e non è il caso di essere né i suoi complici né i suoi giudici. Magari l’aspettiamo al prossimo libro.
Un seguito, allora? «Mi è negato il senno di poi, perché non so il seguito di queste vite». Il prima, appunto, spinge altre vite più avanti, come le strette di un parto, ma questo non toglie valore al dono. Giorgio Gaber, nell’album Anche per oggi non si vola: «E non ho visto mai nessuno buttare lì qualcosa e andare via».