di Gioacchino Toni
Al termine di un decennio che si era aperto con la pubblicazioni di libri come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz e L’io diviso (1961) di Ronald Laing, fa la sua comparsa il volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Una pubblicazione che sin dalla copertina palesa i suoi intenti di denuncia: “Alla fine di questo processo di disumanizzazione, il paziente che era stato affidato all’istituto psichiatrico perché lo curasse, non esiste più: inglobato e incorporato nelle regole che lo determinano. È un caso chiuso. Etichettato in modo irreversibile, non potrà più cancellare il segno che lo ha definito come qualcosa al di là dell’umano, senza possibilità di appello”.
Pubblicato da Einaudi con una copertina rossa come il sangue e il dolore, certo, ma anche come la ribellione, che all’epoca non mancava, privo dei numeri di pagina e di didascalie di attribuzione autoriale delle fotografie, Morire di classe si rivelò un colpo allo stomaco per una società italiana in cui, a quelle date, pur in presenza di bigottismo e conservatorismo diffusi, rivelava inedite e sorprendenti disponibilità a sperimentare cambiamenti.
Ad oltre mezzo secolo di distanza dall’uscita di un libro che, grazie alle fotografie scattate nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze tra l’aprile e l’ottobre del 1968, aveva portato alla luce, con tutta la loro violenza, le condizioni di detenzione in cui versavano tanti esseri umani sino ad allora pressoché nel disinteresse collettivo, torna in libreria in un’edizione che lo ripropone agli occhi di oggi che sono altri rispetto a quelli che lo osservarono alla sua prima uscita così come è altra la società a cui questo guardo appartiene: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).
Scrive Foot nella prefazione che a colpire nelle fotografie di quel libro uscito sul finire degli anni Sessanta erano sopratutto le modalità con cui «i corpi e i volti dei pazienti lasciavano trasparire segni della povertà e del ricovero, del tormento, della sofferenza, delle regole e delle imposizioni che vigevano all’interno della struttura» (p. 8). «In Morire di classe, il discorso si concentra in parte sull’“architettura di contenimento”, con scatti di sbarre, chiavi, porte e pazienti legati, e molte immagini di pazienti all’interno dello spazio architettonico di queste istituzioni spesso ritratti in atteggiamenti passivi e succubi» (p. 9).
Al reportage fotografico si aggiungeva uno scritto di Franco Basaglia e Franca Ongaro richiamate gli studi non solo di Foucault e di Goffman sulle istituzioni totali ma anche le riflessioni di Primo Levi da cui si evincono le analogie tra campo concentramento e manicomio e di Fanon che descrive quest’ultimo come un luogo di potere in cui l’internato ricopre il ruolo del “colonizzato”.
La scelta di titolare il libro Morire di classe palesava l’intenzione del gruppo basagliano di guardare agli internati e alle internate nei manicomi come a individui socialmente connotati a cui veniva preclusa la possibilità di opporsi alle violenze dell’istituzione e, più in generale, della società coercitiva.
Difficile dire quale ruolo abbia giocato la pubblicazione di Morire di classe nella lotta che condusse all’apertura delle porte dei manicomi italiani. Storicamente, scrive Foot,
si può comprendere l’approvazione della legge 180 nel 1978 solo inserendola in un quadro di vari fattori, eventi e prodotti culturali che crearono lo spazio politico per la divulgazione della riforma. Fattori che inclusero anche la creazione di un sistema sanitario nazionale italiano, gli oneri finanziari del sistema manicomiale, il ruolo della televisione e una nuova generazione di psichiatri con idee differenti rispetto ai loro predecessori (p. 15).
Quel che è certo, continua Foot, è che tale libro ha
cambiato la fotografia che documenta la realtà in queste strutture e, più in generale, il concetto del ruolo del fotografo in Italia. La fotografia è diventata quindi un modo di capire sia le “istituzioni totali”, operative in tutta Italia per gran parte del Ventesimo secolo, sia i riformisti, i radicali e i rivoluzionari che tentarono di cambiare e distruggere queste istituzioni dai primi anni Sessanta in avanti (p. 16).
Nell’introdurre il volume proposto da Mimesis, il suo curatore Pietro Barbetta spiega come la sostituzione del titolo originario Morire di classe di fine anni Sessanta con La classe è morta della versione ora data alle stampe intenda evidenziare il passaggio da un’epoca in cui il manicomio concentrazionario, con le sue connotazioni classiste, funzionava, insieme ad altre istituzioni, come strumento di messa a morte della classe a un’epoca, l’attuale, in cui quella classe – per come l’abbiamo consciuta – può dirsi ormai scomparsa.
Negli anni Sessanta e Settanta la classe operaia era viva e vegeta, protestava, studiava, produceva giustizia sociale e cultura. La mortificazione accadeva in forma di repressione: scuole, caserme, carceri, manicomi. Chi moriva nel 1969, o veniva portato a decadere fino alla morte, erano soprattutto le donne: operaie, disoccupate, “casalinghe”, folli, dissidenti, emarginate persino dai compagni maschi del sindacato e del partito. Oggi la classe si è estinta. […] Al suo posto c’è, per esempio, un enorme polo multifunzionale estraniante (sto pensando all’area Bicocca di Milano o al Vega, Parco Scientifico Tecnologico di Venezia. Non-luoghi che, da poli di aggregazione sociale, si sono trasformati in poli di disgregazione professionale e disciplinare).
Morire di classe dovrebbe essere re-intitolato La classe è morta. […] Oggi che la classe è morta, che l’operazione di capovolgimento della modernità si è compiuta, nessuno passa più la domenica nel salotto a mangiare pastarelle maledicendo il comunismo. Le casalinghe con il Tavor o con quel goccio di amaro Montenegro sembrano svanire nel nulla. Oggi ingoiano stabilizzatori dell’umore per sopportare la frustrazione e frequentano terapie comportamentali per imparare a “gestire” la loro sottomissione; nessuno va in piazza e fa i picchetti. Le dinamiche della relazione sociale si sono trasformate. Ai muri manicomiali si sono sostituiti i ricoveri coatti, i sovradosaggi e i multipli dosaggi farmacologici, le piccole fasce di contenzione, indistruttibili, tecnologicamente affidabili, impossibili da strappare, minimaliste. Le fascette vanno a sostituire le vecchie apparecchiature in mostra nei musei manicomiali: bluse a righe, spazi malsani, coma insulinici, iniezioni malariche, camicie di forza, docce scozzesi, apparecchi chirurgici, elettrici e altri armamentari che costituivano l’usuale mobilio manicomiale. A quel tempo, però, la protesta era collettiva. Ora esistono solo disturbi maniacali individuali. Là, nei lettini con le fascette “funzionali”, vengono contenute quelle che, al tempo della classe, erano rivendicazioni collettive per ottenere giustizia sociale, cose che si potevano fotografare, disegnare, raccontare. Come fotografare oggi le molecole che stanno nella borsetta o nelle tasche per curare depressioni, psicosi e manie? (p. 38).
Al manicomio, a quella macchina di contenimento, di espropriazione e repressione classista, seppe opporsi un movimento collettivo risoluto nel mettere in discussione le istituzioni coercitive nella loro globalità. Contestualmente al dissolversi della classe, incapace ormai di individuarsi e di agire (conflittualmente) come tale, il manicomio concentrazionario ha assunto la forma del trattamento sanitario obbligatorio nei reparti di diagnosi e cura degli ospedali o si è fatto diffuso, sempre più individuale e in balia dei farmaci.
Forse, di questi tempi, Carla Cerati andrebbe a fotografare i ragazzi che inforcano la bicicletta e il monopattino con lo zaino pieno di pizze a domicilio, oppure i call center pieni di laureati in filosofia, gli stagisti minorenni delle scuole professionali, che si feriscono, si ammalano e muoiono di incidenti sul lavoro, i luoghi d’insediamento dei richiedenti asilo, ma anche, se potesse avere accesso, quei servizi psichiatrici di diagnosi e “cura” e le fascette appese ai lettini.
Perché oggi il capitalismo, tanto contestato, è morto insieme al suo antagonista. Oggi siamo in pieno regime schiavista e il manicomio è territorializzato: centri nomadi, guerre, invasioni, nuovi virus mortali, oligarchi senza dignità, capi di stato sociopatici e la massa – indica Elias Canetti con tono amaro – aderisce sempre all’ideologia del potere: massa e potere sono consustanziali.
Eppure, oggi questa riflessione non ci basta. Di fronte alla morte della classe, dobbiamo chiederci come mai, nel cuore della civilizzazione, riesploda il desiderio di oppressione, il desiderio di ingiustizia a livello di massa. Come mai la massa vuole un capo che la guidi, qualunque cosa dica, purché venga detto con veemenza (p. 39).
La classe quale soggetto collettivo capace di farsi soggetto politico per cambiare il mondo, scrive Barbetta, «è stata sconfitta dalla massa, che nella sua esistenza informe desidera essere oppressa, comandata da chi rappresenta un’ideologia perfetta, mortifera» (p. 39). Oltre alla classe operaia a svanire è anche quella classe borghese efficacemente descritta da letterati e registi del calibro di Pasolini, Antonioni e Bianciardi e di questa sono scomparsi persino i figli ribelli.
La morte della classe ha colpito anche questi ceti. Oggi nessuno produce più rampolli che scrivono romanzi o fondano case editrici; nessuno pensa di creare nuovi centri studi. L’università da luogo di pensiero si è trasformata in luogo di computazione elettronica. Oggi non si può più morire di classe perché la classe è già morta, anche quella dominante e, insieme alla classe, è morta anche la sua coscienza: quella del proletariato – consapevolezza di classe – quella della borghesia – coscienza morale […].
Oggi il titolo da usare potrebbe essere Morire di razza e forse Carla Cerati, come accade alle fotografe che seguono le sue orme, produrrebbe sequenze visive di volti di donne venute in Europa per proteggersi dalle lapidazioni, dai soprusi familiari, dai maltrattamenti e dalle conseguenze della guerra. Viseità altrettanto incredule per quanto accaduto loro prima e durante il viaggio, ma anche per quel che accade nella democratica Europa dei respingimenti, dei maltrattamenti, delle discriminazioni razziali […].
Il rito vudù, le persecuzioni subite in Libia, l’arrivo attraverso i canali della criminalità organizzata, come prostitute cui è stato promesso un lavoro da parrucchiera, oppure, con i figli, navigando sui gommoni, raccolte dalle navi onlus, donne costrette ad affogare con i loro bambini di fronte alla competizione per la sopravvivenza nel Mediterraneo con i maschi, più forti sul piano fisico. Morire di genere, la morte delle madri coi bambini, la verità del darwinismo sociale neoliberista: legge del più forte. Queste donne, quando le incontri nel contesto della cura, mostrano rabbia, non disagio psichico. I nuovi manicomi territoriali, i centri di accoglienza, le istituzioni sanitarie, i giudici, privi di strumenti di lettura del fenomeno antropologico, provvedono alla “protezione del fanciullo” spesso separandolo dalla madre, come accadeva presso i campi, come accaduto durante l’amministrazione Trump alle famiglie messicane che cercavano di varcare il confine (pp. 40-41).
In un’epoca in cui si dedicano fotografie a quanto si è ordinato al ristorante o alle scarpe appena arrivate con il corriere, in cui si producono selfie divertiti mentre si passeggia per Auschwitz come si fosse a Disneyland, le fotografie di Morire di classe possono continuare a colpire chi le osserva. Lo possono fare se solo si ha il coraggio di non distogliere vigliaccamente lo sguardo per evitare di fare i conti con esse, con gli esseri umani che vi compaiono e con la propria coscienza, se si è capaci di guardarle diversamente da come si osservano le pubblicità di profumi e di smartphone, se si è disposti a concedere a quelle fotografie un po’ più di attenzione rispetto a quella che normalmente si dedica alle tante immagini con cui distrattamente si viene a contatto – e si producono – tutti i giorni.
Insomma, come nella teoria degli affetti di Spinoza, l’incontro con l’alterità – nell’immagine fotografica – affeziona l’osservatore e produce variazioni di potenza, cambiamenti di soggettivazione, ma il soggetto necessita di guardare l’abisso. Ognuno di noi si soggettiva a partire da un’impressione che si mostra con un’espressione, ma ciò richiede la nostra responsabilità. Il mondo sarà finito, per l’homo sapiens/demens, non quando la specie si estinguerà sul piano biologico, ma quando tutti distoglieremo lo sguardo. Quando l’espressione, che può essere fotografata, non produrrà nuove impressioni, in un circolo che non finisce mai, come canta Tom Waits. Quel giorno, oltre alla classe, si spegnerà anche la specie (p. 42).
La postfazione a La classe è morta scritta da Silvia Mazzucchelli è dedicata a Carla Cerati, anima inquieta che sul finire degli anni Sessanta non manca di rapportarsi con le ingiustizie del mondo in cui vive. Cerati, scrive Mazzucchelli,
non si pone dentro gli eventi, come fanno Tano D’Amico, Uliano Lucas, Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, e tanti altri ancora, interpreti coscienti di una militanza di classe. Per lei il reportage è una scelta di partecipazione politica, e fotografare significa credere al cambiamento sia riguardo alla trasformazione individuale che collettiva. Tuttavia, il suo sguardo si colloca al di fuori, come fosse ai lati della scena. La distanza non è indifferenza, bensì il suo modo di lambire la storia da un punto di vista eccentrico (p. 130).
Venuta a contatto con Franco Basaglia e Franca Ongaro, Cerati entra nei manicomi con la macchina fotografica insieme all’amico Gianni Berengo Gardin per realizzare il reportage fotografico da cui prenderà vita Morire di classe.
Sfogliarne le pagine, osservare le fotografie che compongono questo lungo flusso di corpi e volti senza identità, è cercare di fermare qualcosa che scivola via come una Narrenschiff di carta, un flusso composto di immagini sino allora inimmaginabili, persino per chi era rinchiuso. Come accade a una giovane paziente che si trova all’aperto e guarda all’interno dell’edificio attraverso le sbarre di una finestra. Il suo stare sospesa tra un fuori impossibile e un dentro desolato, rispecchia in parte quello della fotografa. Mai, come nelle foto di Morire di classe, si percepisce una vicinanza che va oltre la semplice solidarietà o la pura indignazione per le condizioni disumanizzanti in cui vivono gli internati (pp. 131-132) .
Forse, è meglio evitare di riportare tra queste righe alcuni di quegli scatti affinché li si possa osservare nel contesto dalle pagine del libro, evitando loro di galleggiare tra le tante immagini che, decontestualizzate, infestano il mare di internet. Sarebbe bene avere tra le mani una copia di questo libro dedicando alle fotografie, e a chi è stato ritratto, il tempo e il contesto che meritano.