Fabio Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, pp. 320, euro 22,00 stampa.
Un libro utile e pieno di informazioni quello che Fabio Malagnini ha appena pubblicato per Odoya: non soltanto di cinema e sul cinema, ma testo che usa il cinema per parlare, con competenza e profondità, di molte altre cose: della realtà che abbiamo intorno, di un mondo che sempre più ci si rivela alieno. Per questo le categorie dell’horror e del weird sono le più indicate a cartografarlo. Se leggiamo con attenzione le note in fondo al volume, possiamo constatare quanto vasta e approfondita sia la bibliografia e la messe di riferimenti cui Malagnini ha attinto per definire i contorni del suo percorso. La nozione di Antropocene – l’attuale epoca geologica in cui le attività dell’Homo sapiens hanno drasticamente modificato la struttura, il territorio, il clima del Sistema Terra, terremotando l’Olocene, la cronozona interglaciale, successiva alla Glaciazione Würm, iniziata convenzionalmente 11.700 anni fa, cioè dall’era Mesolitica per quanto riguarda noi sapiens – accostata a quella di horror, rivela una biogeografia perturbante in cui gli ecosistemi per come li conosciamo, o crediamo di conoscerli, e il tradizionale (prospetticamente già difettoso in sé) rapporto uomo-natura, sono ormai sconvolti, alterati, terrificati: il risultato di questi cambiamenti catastrofici non può essere necessariamente (e darwinianamente) che l’estinzione del genere umano o il suo adattamento alle nuove condizioni attraverso la mutazione (e quindi l’avvento del transumano e del postumano).
Malagnini individua una serie di tematiche e di sottogeneri cardinali ad esprimere questa visione decisamente non consolatoria e ogni capitolo ne traccia una singola linea interpretativa sulla base della dettagliata filmografia specifica che viene ricondotta poi al problema complessivo attraverso una parallela disamina di testi critici, saggi scientifici, analisi filosofiche e materiali ben articolati di molteplice provenienza. Dopo aver delineato una mappa generale dell’immaginario dell’Antropocene, i nuclei narrativi principali, gli “incubi ricorrenti”, che ne compongono le traiettorie di speculazione perturbante vengono ordinati in una precisa tassonomia.
Si parte dall’Apocalisse zombie, sottogenere pandemico quanto mai longevo e multistratificato che promana dagli anni ’60 con i Living Dead di Romero, e ancora prima con The Last Man on Earth di Ragona/Salkow, iniziale trasposizione dal romanzo seminale di Richard Matheson, I am a Legend, per arrivare fino ad oggi in un florilegio di titoli: dai videogame divenuti serie, come Resident Evil o The Last of Us, alle trasposizione dai fumetti come The Walking Dead, alle versioni comico-demenziali come Zombieland di Fleischer o The Dead Don’t Die di Jarmush, a quelle survivaliste come It Comes at Night di Shults o sovrannaturaliste come The Harbinger di Mitton, e così via. Come scrive Malagnini è un cinema dello stress pre-traumatico, in cui “Un futuro disfunzionale […] retroagisce sul nostro presente e […] porta a ripensare il rapporto incrinato istituito con l’ambiente e le altre specie”.
Si prosegue con il folk-horror, che, partendo da The Wicker Man di Robin Hardy, traccia una evidente continuità – mascherata da contrapposizione – tra riti e folklore rurale da una parte e realtà capitalistica della modernità industriale: il sacrificio umano rituale celebra la fiducia nello “sviluppo sostenibile”, nell’economia green, illusoria via di mitigazione della catastrofe ecologica, mito dell’eterno ritorno di un Neolitico “accelerazionista” e paleocapitalista, rivisto in film come Midsommar di Aster, The Ritual di Bruckner o, in termini più sociologistici, Eden Lake di Watkins, o ancora nelle varianti delle “famiglie maledette” come in Moloch di van den Brink, dei “culti suicidi” come in The Sacrament di Ti West, o della metaforizzazione della lotta di classe come in Kill List di Wheatley.
Ad un passo troviamo il gotico cannibale, in cui il ritorno alla natura è visto, nella dialettica con l’identità urbana-civilizzata, come revivalismo di impulsi belluini, i capostipiti sono ovviamente Deliverance di Boorman e Southern Comfort di Hill, da lì l’epopea di Wrong Turn e di Wolf Creek, per slittare poi nel contiguo slasher, da Non aprite quella porta di Hooper ad Halloween di Carpenter, e alla subumanizzazione antropofaga di Le colline hanno gli occhi di Craven o di The Descent di Marshall, declinata in chiave pop come in La casa dei 100 corpi di Rob Zombie, fantapolitica come in Frontieres di Xavier Gens, femminista-gourmet-altoborghese come in Fresh di Mimi Cave, rozza come in Raw di Ducournau o sentimental-melenso-romanticheggiante-young adult come in Bones and All di Guadagnino.
Un altro nutrito gruppo di film significativi è quello dell’animal horror, che si dipana da Gli uccelli di Hitchcock, riferendosi a classici letterari come l’omonimo romanzo di Daphne Du Maurier o il racconto lungo The Terror di Arthur Machen, per rappresentare la rivolta di una fauna impazzita che mette in scacco l’umanità. Ora le rane – Frogs di McCowan – i ragni – Kingdom of the Spiders di Cardos, Aracnofobia di Marshall, e decine di altri, anche in dimensioni giganti come in Tarantula! di Jack Arnold – le formiche – giganti, Them! di Gordon Douglas e no, Phase IV di Saul Bass – le api – The Swarm di Irwin Allen – i topi – Willard di Daniel Mann – squali, cetacei e pesci – da Jaws di Spielberg, all’epopea demenziale di Sharknado o a quella più seria di Deep Blue Sea, da L’orca assassina di Michael Anderson, a Piranha di Joe Dante – orsi – Grizzly di Girdler – cinghiali – Razorback di Mulcahy – serpenti – Anaconda di Luis Llosa – cani rabbiosi – Cujo di Teague – coccodrilli – Rogue di McLean, Black Water di Traucki, Alligator di Teague, ecc. – pipistrelli – Bats di Morneau – e perfino pecore – Black Sheep di Jonathan King – si avvicendano a decostruire nell’inconoscibilità dell’”altro” alternativamente la nostra identificazione antropocentrica e/o biocentrica. La specie animale in realtà più letale per gli uomini – Malagnini ce lo mostra in una tabella – non ha ancora avuto un riconoscimento cinematografico: è la zanzara. Ovviamente al secondo posto ci sono gli uomini stessi.
Dopo gli animali le piante, il plant horror ha una lunga tradizione: la natura vegetale, vivente ma inerte e passiva, priva di movimento e riflessione – concezione ormai superata, radicalmente smentita dalle più recenti ricerche biologiche – è da tempo diventata protagonista delle inquietudini del nostro subconscio materializzate dal cinema. Siano queste incarnate da specie aliene, trifidi e ultracorpi, come nei classici dell’invasione negli anni ’50 – La cosa da un altro mondo, L’invasione degli ultracorpi, L’invasione dei mostri verdi – riprese dai classici della fantascienza di John W. Campbell, Jack Finney e John Wyndham, e dall’infinità dei loro celeberrimi sequel, o evocate in eco-horror in cui le piante terrestri per qualche ragione mutano e reagiscono violentemente all’aggressione umana, come in E venne il giorno di Shyamalan, Nell’erba alta di Natali, The Hallow di Corin Hardy, il percorso ci conduce nei pressi di una fiction climatica derivata dal disaster movie che vede nel global warming la radice del cataclisma incombente. Un climatic horror in cui lo scioglimento dei ghiacci e dell’ancestrale permafrost scatena incubi lovecraftiani come in The Thaw di Lewis, Blood Glacier di Kren, Harbinger Down di Guiles, The Last Winter di Fessenden. Un “soprannaturale” lovecraftiano quindi perchè nasce dal rifiuto del pregiudizio antropocentrico e scatena forze ctonie a contrastare l’espansione predatoria che i sapiens travestono da umanismo. Così in The Feast di Lee Haven Jones, dove un’entità folklorica si incarna per preparare un catering mortale contro la famiglia di avidi speculatori che vorrebbe usurpare i diritti minerari su una zona rurale del Galles, così per le entità fossili nate dal petrolio ispirate al Cyclonopedia di Negarestani, o le entità fungine quasi uscite da un libro del micologo Merlin Sheldrake, come in Unearth di Lyons e Swies, In the Earth di Wheatley e Gaia di Bouwer.
Un passo ulteriore è quello nell’uncanny valley, la “valle perturbante”, termine coniato dal ricercatore in robotica Masahiro Mori per definire lo spiazzamento cognitivo in cui l’identificazione passa bruscamente dall’empatia alla repulsione quando siamo messi di fronte ad una imitazione realistica ma non abbastanza convincente delle sembianze umane. Tutta la filmografia delle “bambole assassine”, l’eredità dell’Olympia di Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann, da The Devil Doll di Tod Browning a Megan di Gerard Johnstone, appartiene all’uncanny valley. Questa dissonanza di fronte ad un familiare alieno, un heimlich unheimlich, si può applicare però anche ad un paesaggio, uno scenario ordinario stravolto dalla riemersione di un “inconscio collettivo” e dallo scatenamento degli archetipi in esso celati: per esempio i villaggi sommersi sotto le acque di una diga in Dal profondo delle tenebre di Brian Yuzna o La casa in fondo al lago di Maury e Bustillo. Il ritorno del rimosso che percorre Fog di Carpenter o i Candyman di Bernard Rose e di Nia Da Costa, o la distorsione prospettica lovecraftiana di Colour Out of Space di Richard Stanley o de Il seme della follia di Carpenter e quella di Annientamento di Alex Garland, tratto dal primo volume della trilogia di Jeff Vandermeer. Un paesaggio perturbante in cui il mostro è il panorama stesso, l’ambiente, in genere la wilderness, come in Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir o The Blair Witch Project di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick, dove la strega non appare mai (o solo di sfuggita come nel sequel Blair Witch). Anche l’espediente del mockumentary e del found footage, materiale filmato che appare vero e si dichiara tale, divenuto moda dopo il successo di Blair Witch ma che risale a molti anni prima, al Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, procede dallo stesso meccanismo visivo, in questo caso apertamente dichiarato dall’onnipresenza esplicita della macchina da presa. Così per una numerosa serie di film, dal Diary of the Dead di Romero al ciclo molteplice di Paranormal Activity, o a quello assai più sperimentale di V/H/S di Brad Miska e David Bruckner.
Il capitolo finale riguarda il postumano e il sottogenere che lo introduce, il body horror. A questo gruppo appartengono anche quei film in cui relazioni parentali e conflitti generazionali vengono risolti impossessandosi di corpi e volontà, in genere un vampirismo dei più anziani verso i più giovani, come in The Visit di Shyamalan, The Dark and the Wicked di Bertino, Relic di James, e in qualche caso dei figli verso i genitori come in Goodnight Mommy e nel successivo The Lodge di Franz e Fiala o Hatching di Hanna Bergholm: così famiglie modello, fisicamente, vanno in frantumi come in Speak no Evil di Christian Tafdrup, Noi di Jordan Peele o Sinister di Scott Derrickson. Il body horror canonico resta però quello di David Cronenberg, in tutta la sua filmografia culminata nella surgery art di Crimes of the Future e del figlio Brandon Cronenberg con Antivirus e Infinity Pool: il rapporto tortuoso fra tecnologia e modificazioni corporee in un deflagrare di perversioni feticistiche che derivano tutte, in modo più o meno esplicito, dal Crash di James Ballard. In parallelo le degenerazioni lovecraftiane di Re-Animator e From Beyond di Stuart Gordon o Society di Brian Yuzna, e gli imbestiamenti delle numerose isole del Dottor Moreau, della licantropia da L’ululato di Joe Dante in poi, o degli scambi genetici de L’esperimento del Dottor K di Hedison fino al remake di Cronenberg, il tutto riproposto in versione anestetizzata e scompaginata nel recente e stralunato Lamb dell’islandese Johannsson.
A conclusione del suo percorso Malagnini pone tre film come baluardi annunzianti, ognuno in modo diverso, l’anelito inquietante e imperioso verso l’avvento del postumano: Jacob’s Wife di Travis Stevens, Non sarai sola di Goran Stolevski e Titane di Julia Ducournau. Come conclude l’autore: “prototipi e sperimentazioni di un immaginario in formazione, ibridazioni che alludono a una diversa, ‘mostruosa’ allenza che riguarda oggi umani e non umani […] non modelli politicamente corretti, metafore d’affezione attraverso cui possiamo già percepire una parte di noi stessi”.