di Giovanni Iozzoli
Che pena. Che desolazione. L’oppressione interiore dell’impotenza; il senso di inutilità della riflessione, della parola. Eppure pensare si deve, e continuare a parlare anche, essendo tra le poche cose che ancora ci distinguono dagli altri regni di natura. Da dove possiamo re-iniziare una discussione sulla condizione giovanile, senza rimasticare i luoghi comuni più triti, stanchi e inutili – mentre le tracce del cadavere del giovane musicista Giovanbattista Cutolo sono ancora sul selciato di p.zza Municipio, a Napoli, e l’orrore di Caivano è diventato palestra di ogni retorica sulle periferie nemiche da ricolonizzare?
I giovani e la violenza. Non c’è un punto di vista di classe o antagonista, su questa merda. Non c’è perché si fermerebbe alle enunciazioni di principio più eteree: la società capitalista produce mostri e devianza, ergo noi anticapitalisti abbiamo la coscienza a posto, non c’entriamo. Nel mondo ideale che sta nelle nostre teste, patriarcato, classismo, sessismo, machismo e tutto il Male del mondo, non esisteranno più, il giorno in cui avremo abbattuto l’idra imperialista. Come ogni corrente religiosa, guardiamo con scettica amarezza verso i samsara quotidiani che siamo costretti ad attraversare; e rimandiamo ad un mondo a venire il riscatto dei torti, delle brutture e delle nostre confuse ragioni.
Ma qui e ora, oggi, nel presente, questi esercizi retorici non bastano; dobbiamo andare più a fondo col nostro sguardo – imitando la spietatezza degli assassini -, se non vogliamo ridurci a giaculatorie ed esorcismi di segno opposto a quelli reazionari. I quali sognano un mondo in cui una divisa e un fucile sorveglino ogni angolo di strada, ogni condominio; mentre noi ci culliamo nella speranza di un mondo in cui la violenza si estingua per magia, per consunzione, e il lupo e l’agnello vivano in pace nello stesso prato. Utopie reazionarie ed utopie umanitarie.
La violenza dei giovani, la violenza del mondo che li accudisce. Da dove si parte, per fissare qualche paletto, in una discussione così inafferrabile? Forse dalle Lettere luterane, la raccolta di testi profetici di Pier Paolo Pasolini – bollati già alla loro pubblicazione come inattuali, moralistici, destrorsi e sentimentali – in cui lo scrittore costruisce una cronaca diretta e coraggiosa, della degenerazione violenta, amorale, squallida, a cui la modernizzazione accelerata del paese sta sottoponendo i più giovani. Pasolini ne ha orrore quasi fisiognomicamente, di quei ragazzi: sono mostri, infinitamente più pericolosi dei mostri ufficiali – i “vecchi” sottoproletari brutti sporchi e cattivi e i devianti -, ma la loro mostruosità, la loro disponibilità alla violenza più cieca e più stolida, è solo l’espressione dell’omologazione maligna attraverso cui il nuovo fascismo televisivo e consumistico sta livellando linguaggi, culture, estetiche e valori della società italiana. Quei giovani – siamo all’inizio degli anni 70 – sono le prime vittime di tale omologazione: il prodotto del loro squallore sarà una violenza atona, sadica; come se, avendo smarrito la pluralità dei linguaggi, delle storie e dei modi di vivere della vecchia società contadina e operaia, la violenza diventasse l’unico alfabeto comune ad una fetta di gioventù italiana.
In quel periodo persistono contrappesi alla deriva della malamodernizzazione italiana. La sopravvivenza delle culture rurali, che nel 1971 sono ancora precariamente vive; la grande comunità operaia e popolare, che con le etiche costituzionali e i miti resistenziali rappresenta ancora una bolla di salvezza; la sinistra rivoluzionaria, che “razionalizza” e incanala (non incentiva) dentro un progetto politico la marea montante della violenza giovanile.
Nei decenni a seguire, tutti gli studi empirici dello scienziato Pasolini, troveranno conferma dentro una lettura di accelerazione esponenziale dei suoi presupposti: prima l’avvento della tv commerciale, della vacuità e dell’eroina come dinamica di formattazione di massa; poi la stagione dell’iperconnessione globale che esalta e moltiplica esponenzialmente, in una trama interclassista e intragenerazionale, la feroce omologazione delle anime.
Stiamo vivendo tempi nuovi o semplicemente ci sfugge la naturale ciclicità dei fenomeni, della giovinezza e della sua irruzione nella storia? C’è stata una fase storica, negli ultimi 40/50 anni in cui le nuove generazioni non sono state accusate di rappresentare una deriva sadica, violenta e inumana? No. In ogni epoca, il copione si è ripetuto. I cinquantenni di oggi sono gli efferati barbari degli anni 80. Eppure qualcosa ci dice che siamo dentro una irreversibile precipitazione. Qualcosa ci spinge a pensare che alla continuità naturale della contesa generazionale, si è sostituito il salto quantico.
La sensazione è che qualcosa si sia spezzato – un qualche meccanismo di recupero o di argine che aveva funzionato nei decenni precedenti: la violenza politica o quella puramente criminale, a loro modo esprimevano una razionalità e, se vogliamo, una prevedibilità dei fenomeni, una lettura analitica, un inquadramento di classe. Oggi non riusciamo più a “interpretare” il male, a leggerlo, e quindi a darcene una spiegazione sociologica plausibile. La Napoli della guerra tra clan era più sicura di oggi? La Milano di Epaminonda e Turatello? No, di certo. Ma quando parlavi di camorra o di mala o di narco-dipendenza, sapevi di cosa stavi parlando. La peste conclamata era più gestibile di questo “male oscuro” che cresce nei cuori dei nostri figli e li rende sfingi rancorose, isteriche, aggressive.
È come se i freni inibitori collettivi fossero saltati e l’emozione che nasce dall’impeto del momento, si determinasse immediatamente – cioè senza mediazioni – come atto. È la dittatura dell’attimo presente. Ogni cosa nasce e muore senza radici e senza futuro. L’impulso a colpire. L’arcaicissimo istinto della lotta, persino della cannibalizzazione del nemico. La costruzione di una altra story. Come se l’individuo nascesse ogni istante a nuova vita, nudo, privo di codici e remore, pronto a “reagire” rispetto all’ambiente, senza che un vissuto supporti, giustifichi o dia senso al suo agire. Marcuse, Lacan, Derrida, Foucault, chi chiamiamo a sostegno di questa evidenza? Boh. In tutti potremo trovare qualcosa, per raccontare il tempo schizoide e malato che stiamo vivendo. I social, la realtà parallela che diventa l’unica possibile? Il destino come videogioco, la morte come opzione? Ma certo, quante volte lo abbiamo sentito? Ma ancora non abbiamo detto nulla, mi rendo conto. Qualcuno si chiederà: ma questi sono ancora fermi a Pasolini? Si, direi; si parte da PPP e non si arriva da nessuna parte, come su un binario morto. Ci si perde nel deserto dell’insignificanza.
È il primo settembre. La mamma di Giovanbattista Cutolo è già in video. Per molti è un mistero quest’ansia di comunicazione in prossimità dello strappo più traumatizzante che un genitore possa subire. Ma probabilmente è anche l’unico modo per non impazzire: recriminare, inveire, la maledizione civile, l’invocazione a condividere il dolore – riti antichi e legittimi di elaborazione del lutto. Ancora una donna, che si mette avanti, prende la parola, come già in tante occasioni: la morte di un figlio è l’amputazione di una parte del corpo femminile che l’ha generato; un padre può permettersi di chiudersi nel suo bozzolo, la madre no, perché il corpo biologico duole per il taglio senza anestesia e la costringe a urlare. La madre parla a più microfoni. Dice che suo figlio era un ragazzo speciale, talentuoso; che la sua morte è la soppressione di qualcuno che avrebbe lasciato un segno; auspica una pena esemplare (che altro potrebbe chiedere?), per quell’individuo che “non è un ragazzo” ma un uomo pericoloso e assassino. Mi pare di cogliere un sottinteso: Giovanbattista era destinato ad una vita di eccellenza, mentre il suo killer occasionale è una nullità anonima. E probabilmente è così, a leggere i rispettivi curriculum di vittima e carnefice. L’uno sarebbe finito a creare musica, l’altro a rubare Rolex. Ma questa è un’epoca in cui le nullità reclamano visibilità disperate, appropriazione di spazi, conquista di territorio sociale, egemonia – e attraverso i social riscuotono anche un illusorio acconto di questo sforzo. È un’epoca in cui i mondi dei virtuosi e dei reietti si interpenetrano nei rituali metropolitani di massa; e i corpi si confondono, si urtano, si scontrano. E i nietzschianamente mal-nati tirano fendenti e pistolettate, perché questa è l’epoca in cui ci si illude di capovolgere il destino individualmente, con la forza, la determinazione, l’astuzia, l’ardimento e tutte le altre non-qualità su cui si fondano le epiche di sempre.
Immagino la madre del killer. Me la vedo che difende stancamente il figlio. Potrebbe avere una quarantina d’anni e sembrare già vecchia. O essere uscita da poco da un estetista ai Quartieri, abbronzata e tirata a lucido. Non capisce perché il suo ragazzo sia finito improvvisamente additato a simbolo del Male: lui è uguale a tutti gli altri vuaglioni che conosce – tutti con le medesime mortificanti carriere scolastiche, tutti figli di padri assenti o violenti, tutti appartenenti a famiglie in cui penuria e consumismo bulimico si intrecciano irrazionalmente. Tutti potenziali oggetti di osservazione dello sguardo morboso di Chi l’ha visto e reality pacchiani, che scrutano i mondi “di sotto” a beneficio del gentile pubblico piccolo borghese – che non sospetta le contiguità e la pericolosa vicinanza di quei pianeti esotici…
Bonificare Napoli da quei ragazzi? E poi dopo? Cominceremo a bonificare anche la gioventù padana? Si, perché è in atto una deriva uguale nei grandi e piccoli centri del Nord; con qualche connotazione etnica, con qualche suggestione “banlieuenista”: ma sempre della medesima inafferrabile questione giovanile, si tratta. Pensate che i giovani della Barriera di Torino, di San Siro Milano, o dei quartieri (eufemisticamente definiti difficili) di Modena, Bologna o Piacenza, siano poi così diversi, da quelli di Napoli? È proprio quello che ci spiegava Pasolini 50 anni fa: l’onda si allunga e ricopre tutti dello stesso color merda. Nord e Sud uniti nella merda. Con queste dimensioni del “problema”, la parola d’ordine della militarizzazione dei centri storici è l’equivalente del “blocco navale” che prometteva la Meloni: una cosa che non solo è ripugnante ma anche impossibile, e quindi truffaldina.
Allora che facciamo: più centri sociali? O più assistenti sociali? O più palestre sociali? O più reddito sociale? Il sociale si invoca furiosamente nell’epoca della sua eclissi. Più le condizioni di vita, di relazione, di lavoro e di consumo si socializzano, più prevale la dimensione privatistica dei destini. E questo è un altro elemento di confusione cronica, soprattutto per gli individui più giovani: come dare un ordine contraddittorio ad un cane e gettarlo in confusione. Tutto è sociale e tutto è privato (tant’è vero che abbiamo inventato anche il privato-sociale). Non posso neanche respirare al di fuori di una sfera relazionale totalmente socializzata, ma l’appropriazione della ricchezza è privatissima. Come la si spiega ad un adolescente questa contorta dialettica?
Quando a Manduria, in provincia di Taranto, nel 2018 si scoprì che un gruppo di normali ragazzini di paese aveva perseguitato e ridotto alla morte un povero individuo solitario e indifeso, scrissi qualcosa che mi sembrava banale. Vidi in quell’atto – soprattutto perché maturato in un paese dell’entroterra meridionale – uno scenario inedito e pericoloso: gli adulti – gli adulti normali di una realtà paesana del sud – , il nerbo comunitario, avevano fatto finta per mesi di non vedere le gesta del piccolo branco domestico; una cosa inconcepibile in un contesto in cui tutti controllano tutto. Gli adulti si erano sottratti, si erano resi invisibili, erano morti come il Padre lacaniano; gli adulti, che tutti noi, da ragazzini, temevamo proprio per il loro ruolo di controllo e sanzione; gli adulti che certe volte insegnavano il bene e certe volte il male, stavolta avevano scelto di non insegnare nulla. Si erano ritirati in qualche caverna platonica e nessuno aveva provato a dire a quei ragazzi – con le buone o con le cattive –, che quella che stavano facendo era una vigliaccata infame. Ci avrebbe pensato un giudice, qualche anno dopo. Un amico lesse la bozza dell’articolo e mi sconsigliò di farlo uscire: si prestava a troppi equivoci, sembrava che rievocasse l’autorità della comunità, del conformismo paesano, quell’autorità diffusa che vegliava soprattutto sulle etiche sessuali e decretava chi era dentro e chi era fuori, cosa era giusto e cosa sbagliato, quella legge non scritta che da ragazzi aveva soffocato le nostre giovani vite.
Quando ti muovi su certi terreni scottanti, qualsiasi cosa tu dica si presta ad equivoci e letture problematiche. Ragion per cui molto spesso si preferisce tacere. Però continuo a pensare sia tristemente incontestabile, che a quei vecchi filtri comunitari, ormai estinti, non abbiamo saputo sostituire nulla: se non un’overdose di tecnologia, di social, di ipermercati, di desolazione urbana. Tra l’altro, i ragazzotti giulivi che hanno ammazzato a calci un capretto e hanno filmato il loro gesto, durante una festa di compleanno ad Anagni (salto di palo in frasca, a caccia di nessi che non trovo), mi ricordano la medesima innocente ferocia che procede senza incontrare freni adulti: proviamo, continuiamo, saggiamo la nostra forza giovane e se nessuno ha nulla da eccepire, possiamo spostare un po’ più avanti il nostro esperimento di crescita. Ha funzionato più o meno così per tutti noi. Ma adesso nessuno ti ferma. Non c’è più nessuno, là fuori. I ragazzi sono soli.
Gog e Magog sono personaggi oscuri e misteriosi della tradizione biblica e islamica. Nel Corano sono evocati quali popoli selvaggi e distruttori che vengono trattenuti nei loro territori desolati, solo grazie ad una gigantesca barriera bronzea eretta da un re saggio dell’antichità: una barriera che chiude un valico montano e li tiene reclusi, lontani dalla civiltà. Innumerevoli sono state nei secoli le interpretazioni di questa narrazione tradizionale, provando a collegare la profezia alla storia – i vichinghi, Gengis Khan e via mostrificando i nemici di turno. Una tra queste, la più recente, identifica Gog e Magog non con un preciso gruppo umano, ma con l’insieme delle forze psichiche primordiali che la società ha faticosamente imparato nei millenni, a incanalare e governare. Secondo tale suggestione la modernità sarebbe l’epoca in cui tali forze si liberano e Gog e Magog saranno in condizione di devastare il mondo. Sono primitivi e selvaggi e riportano la terra al suo stato di natura. Quando mi sorge questa associazione mentale, mi vengono i brividi: ma davvero sto pensando che le ultime generazioni indecifrabili del nostro presente, siano mostri distruttori e avidi – e che lo siano oggettivamente, al di là delle punte di eclatante sadismo che ci raccontano al telegiornale? Davvero sono così vecchio e terrorizzato da pensare che i nostri figli rappresentino la fine del mondo – di sicuro del nostro mondo?
E fino a qui, non ci sarebbe niente da eccepire: giovani maschi che contendono il potere alle generazioni di mezzo e le mandano in crisi. È compito dei figli demolire e ricostruire. Però qua mi si inceppa la dialettica: questi non sono distruttori di un ordine simbolico che sentono ingiusto o inadeguato; questi sono propriamente gli alfieri e gli esecutori di un nuovo ordine che sta già sorgendo da questa fase storica del capitalismo digitale. Sono l’esercito del tardo liberalismo. Quindi non sovvertono, anzi: consolidano l’avvento maligno di una nuova era in cui non ci sono cavalieri mongoli alle porte, ma infinite schiere di individui obbedienti e conformi, che involontariamente, nel loro agire quotidiano, rivestono il ruolo di avanguardie dell’apocalisse – soprattutto quando danno il peggio di sé. Per la prima volta i giovani non mettono in discussione l’ordine costituito con la loro inconsapevole irruenza, la loro libido, i loro bisogni: ne accompagnano piuttosto l’evoluzione lungo binari da cui non si devia. Quello che studia alla Bocconi e quello che sparacchia per le vie di Napoli, stanno dentro lo stesso presepe, come figurine di un medesimo minacciosissimo avvento. Che situazione: argomentazioni e contro-argomentazioni che si inseguono nella testa e ti lasciano al punto di partenza. Perché mettersi a scrivere se non hai già un bel pacchetto di tesi pronte, a prova di logica e political correct? Perché scrivere, in generale, si chiedeva Philip Roth prima di morire?
Mi domando anche: ma se i ragazzi di Parco Verde godessero di un reddito universale garantito, o di un lavoro socialmente utile e dignitoso, sarebbero meno feroci? Materialisticamente non possiamo affermarlo. Certo, non dovrebbero giocarsi la fedina penale per quattro soldi, sarebbero più liberi di sottrarsi alle influenze peggiori. Ma quali altre influenze disponibili su piazza, potrebbero intercettare e soddisfare la loro fame di vita e di senso? E mi domando: se domani facessimo la rivoluzione e instaurassimo il socialismo con la bacchetta magica, permetteremmo di affidare la crescita dei nostri giovani a quelle palestre di speculazione e nichilismo che abbiamo simpaticamente definito “movida”, cresciute come una metastasi dentro ogni tessuto urbano, grande e piccolo? E penseremmo che rintronarsi di superalcolici e pasticche possa essere compatibile con “l’educazione sentimentale” socialista? È un esercizio retorico da fare, ogni tanto: se comandassimo noi, cosa vieteremmo? Nulla? Tutto va bene madama la marchesa? Abroghiamo solo l’impresa privata? Non sono sicuro, che faremmo così. Sono certo che cominceremmo a distinguere tra le libertà del capitale e le libertà del libero sviluppo umano. Il problema non è il fatto che i ragazzini si ubriachino a 13 anni: il problema è che non esiste niente nel loro immaginario e nello spazio che attraversano quotidianamente, che possa costituire un’alternativa a quella inerzia, a quella attrazione fatale; che è pedagogicamente perfetta per formare le nuove generazioni: superalcolici, aggressività, sopraffazione sessuale tutto in un’unica splendida serata autorizzata e garantita dai poteri pubblici (provate a toccare i padroni di quei locali e vedrete che succede). Una specie di riserva indiana temporanea in cui rinchiudere i giovani per vendere loro acquavite e perline colorate – e obnubilarli a sufficienza, per evitare che qualche cazzo di pensiero possa sorgere nella testa
Aggiunto questo, cosa abbiamo detto? Niente. Ancora niente. Mi rendo conto. Solo banalità. Mi sto sfogando anch’io, come la povera signora Cutolo: il web, i social, il confine tra reale e virtuale saltato, l’omologazione – tutte banali affabulazioni mille volte sentite. Argomenti che possono misurarsi con lo sconcerto di quel coglione di casa Agnelli, che in agosto ha incontrato su un treno per Foggia dei normali ragazzotti da prima classe e li ha scambiati per lanzichenecchi, cioè per una minaccia esistenziale. Spero di non “elkanizzarmi” troppo presto. Di resistere allo sconforto. Di non farmi trovare impreparato davanti a Gog e Magog (che sono tra l’altro i protettori di Londra e hanno l’onore di due grandi statue in un edificio al centro della City, perché gli inglesi hanno una certa autostima del loro imprinting colonialista e devastatore).
Gog e Magog vanno guardati in faccia, sfidati; se loro sono i portatori della fine del tempo, della fine della storia, noi dobbiamo essere alfieri di un altro tempo, di un’altra storia; non stancarci, usare tutto il patrimonio di idee che l’umanità ha costruito, non buttare via niente; non dare per scontato che il post o il transumanesimo (o come diavolo vogliono chiamare questo impasto melmoso di tecnologia, precarietà esistenziale, sorveglianza digitale e vuoto) abbiano già vinto, che resistere non serve, che bisogna solo cavalcare l’onda e capire dove ci ha trascinati. Non so da dove partire e non ho l’età per dare un gran contributo – posso solo spiegare ai ragazzini neo assunti in fabbrica che davanti al padrone si sta con la schiena dritta; ma serve di più: un approdo, qualcosa di solido a cui aggrapparci; e alture su cui costruire roccaforti che i ragazzi possano cogliere, anche da lontano, con lo sguardo, e interrogarsi; e le macerie non le ignoriamo, non le evitiamo, le usiamo per costruire il mondo nuovo, perché le grandi cattedrali sono state edificate usando i resti degli antichi templi crollati. E agire la speranza dell’umano contro le apocalissi, lo spettacolo dell’effimero e la ferocia del comando algoritmico. E mi rendo conto, mentre scrivo, maledizione: mi rendo conto che alla fine non ho detto niente.