di Diego Gabutti
Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.
È a Cambridge, prestigiosa fucina della classe dirigente britannica, che Mclean e i suoi amici (Burgess, Philby, il consigliere artistico della Regina Sir Anthony Blunt) vengono reclutati da un misterioso arruolatore sovietico. È costui il vero eroe della storia: ingaggia esclusivamente gentlemen, la grande aristocrazia del tradimento, e semina talpe che potranno raccogliere informazioni utili, sempre che la fortuna e il talento li assistano, soltanto molti anni più tardi. Costui insinua un gruppo di sabotatori, tra cui Maclean, nel cuore stesso del sistema nemico, poi rientra nell’ombra.
Figlio d’un baronetto scozzese, morto nel 1932, che ha dedicato tutta la vita alla comunità presbiteriana e al partito liberale, la futura spia cresce in un ambiente nutrito di puritanesimo e buone maniere. Vive la sua omosessualità con vergogna e senso di colpa, a differenza di Guy Burgess, che invece l’ostenta, e buona parte del suo odio contro l’Occidente è forse dovuto al fatto che i suoi compagni di college, tra i quali gli omosessuali suicidi erano stati parecchi, lo chiamavano «Lady Maclean», cosa effettivamente poco simpatica.
Il gruppo dei marxisti segreti di Cambridge, dopo l’università, si separa con una strizzatina d’occhi e, ciascuno secondo la propria vocazione, comincia ad aprirsi una strada verso le casseforti che custodiscono i segreti della nazione. Kim Philby passa al Times e si guadagna un’onorificenza franchista come corrispondente durante la guerra civile spagnola, Anthony Blunt si rende indispensabile presso i curatori delle collezioni d’arte della Real Casa e Guy Burgess infiltra per primo l’Intelligence grazie alle sue entrature omosex con alcuni politici francesi.
Maclean, che tutti giudicano un perfetto tipo fisico da Foreign Office per via dei capelli biondi e dei gelidi occhi azzurri, abbraccia la carriera diplomatica a Parigi dove si segnala, in breve tempo, come una delle speranze diplomatiche del Regno. Il Grande Gioco è cominciato: gli assi truccati sono stati introdotti nel mazzo. Gli anni della guerra, per Maclean, sono operosi e silenziosi. Si sposa (un diplomatico dev’essere sposato, specie se la gente mormora). Come un alpinista che punta alla cima del monte, scala le pareti del Foreign Office fino a raggiungere la suprema vetta del Dipartimento di Stato americano a Washington: esattamente dove i russi pregano di poter infiltrare un loro uomo. Di lassù il suo sguardo spazia tranquillo sulla valle misteriosa della ricerca atomica americana.
Ma è un alcolista, soffre di depressione, e gli cedono d’un tratto i nervi. Maltratta la moglie in pubblico, fa aperta professione d’antiamericanismo senza lacrime per la sua copertura e passa le giornate a sbronzarsi. Washington è irritata dal suo comportamento e la Cia comincia a tenerlo d’occhio. Alla fine, il Foreign Office lo trasferisce al Cairo affinché smaltisca la sbornia e si curi le paturnie. Al Cairo Maclean s’immerge in un’atmosfera di scandalo e una volta tenta persino di strozzare la moglie durante una gita sul Nilo. Sa il cielo perché, in queste condizioni, abbia ancora accesso alle carte segrete.
È proprio allora, quando sbraita e ulula al Cairo, che Maclean prende visione del foglio ultrariservato, da tenersi a tutti i costi lontano da occhi indiscreti, col quale gli americani comunicano agli alleati la loro decisione di non allargare il conflitto coreano neppure in caso di sconfinamento delle truppe cinesi. Proprio l’idea che il conflitto potesse essere allargato ha tenuto a freno, fino a quel momento, l’esercito maoista. Maclean rifischia il documento al suo controllo sovietico e, non appena i cinesi sono informati, subito si lanciano al salvataggio dei fratelli coreani. Tutta l’Asia, ahinoi, sta ancora piangendo lacrime di sangue.
Alla fine, inevitabilmente, c’è il punto di rottura. Ubriaco fradicio, reduce da una rissa, senza scarpe e con gli abiti stracciati, Maclean viene arrestato dalla polizia egiziana. Un paio di giorni più tardi, appena scarcerato, lo caricano su un aereo per Londra. Melinda, sua moglie, s’invola con un principe egiziano e lui, sotto inchiesta da parte dell’Intelligence, si mette in cura da una psicoanalista che, dopo averlo ascoltato per una mezz’ora, gli consiglia d’accettare la sua omosessualità senza scalmanarsi tanto. Dice a tutti di lavorare per Baffone e i più ormai gli credono senz’altro. Melinda, finito l’idillio col bel principe, lo raggiunge in Inghilterra mentre il cerchio degli inquisitori gli si stringe intorno.
A quel punto, ridotto com’è, anche se le prove a suo carico sono solo indiziarie, Maclean sta mettendo a rischio l’intera rete sovietica in Inghilterra. Così deve sparire. Non si capisce bene perché anche Guy Burgess, la cui copertura regge ancora, decide di espatriare con lui. I mastini del Mi5, per ragioni sindacali, smantellano le guardie durante i week end e le due talpe, la sera del 25 maggio 1951, prendono il volo da Southampton per ricomparire a Mosca tre giorni dopo. Philby ammette d’aver messo sull’avviso Maclean «perché, maledizione, dopotutto siamo stati compagni d’università». Poco ci manca che la sua correttezza venga premiata con una medaglia.
A Mosca Maclean è nominato redattore capo d’una rivista scientifica e ogni tanto, in compagnia di Burgess, tiene qualche conferenza stampa per le gazzette occidentali. Melinda lo raggiunse a Mosca: dal che si deduce che l’utopia sovietica ha contagiato anche lei. Philby la scampa fino al 1963 e Anthony Blunt viene individuato solo nel 1979 (ma può darsi che sia stato smascherato insieme a Philby e che in seguito l’Mi5 lo abbia usato come agente doppio). Maclean muore a settant’anni, trenta dei quali trascorsi in un appartamento del centro di Mosca, lontano dai clubs eleganti di Regent’s Park, a un’infinita distanza da Berkeley Square e dal bel mondo londinese.
Trent’anni così, trascorsi a fissare dalla finestra le cupole del Cremlino, senza un amico al mondo. Burgess era morto di cirrosi epatica verso il 1960. Quanto a Philby, col quale avrebbe almeno potuto commentare i risultati del cricket vuotando una bottiglia ogni tanto, gli aveva soffiato la moglie non appena era giunto a Mosca nel 1963, anche lui braccato dagli antichi colleghi, e così non erano più molto amici.
C’era probabilmente un quinto uomo nella banda dei «Cambridge Four», i quattro agenti segreti usciti dalla prestigiosa università inglese, che negli anni Cinquanta fuggirono in Unione Sovietica dopo avere fatto a lungo il «doppio gioco» per Mosca. Come complice o perlomeno «compagno di strada» ebbero uno dei più grandi poeti del Regno Unito: Wystan Hugh Auden, caposcuola di una generazione di scrittori accomunati dall’ impegno politico e dall’interesse per le dottrine di Marx.
Documenti resi noti per la prima volta dagli Archivi di Stato di Kew Gardens, a Londra, rivelano i frequenti contatti che Auden ebbe con Guy Burgess e Donald McLean, due dei «quattro di Cambridge», in particolare nei giorni precedenti la loro defezione in Urss; e descrivono i febbrili tentativi dell’ MI5, il servizio di controspionaggio britannico, e dell’Fbi, suo equivalente americano, per pedinare, intercettare, interrogare il poeta. È un thriller che si conclude senza una soluzione chiara: alla fine il caso viene chiuso, senza che Auden riveli nulla e che i sospetti nei suoi confronti vengano suffragati da fatti.
Ma il dossier ora reso pubblico aggiunge un’altra pagina al romanzo della «Guerra Fredda». Una pagina, va precisato, più nello stile ironico dei libri di Evelyn Waugh che in quello dei thriller di Graham Greene o Le Carrè. Lo interpretano, certo, alcuni dei protagonisti del conflitto a colpi di spionaggio tra Occidente e blocco comunista: Kim Philby, Anthony Blunt e gli altri succitati membri dei «Cambridge Four». Ma sullo sfondo c’è il jet set degli artisti e degli intellettuali di sinistra: salotti letterari, circoli accademici, fino alla villa che Auden aveva a Ischia, dove a un certo punto il poeta va in vacanza, per ritrovarsi assediato dai giornalisti e seguito dalla polizia, anche quella italiana, che lo interroga, alla fine di giugno del 1951, apparentemente su richiesta di Londra.
Un colpo di scena lascia intravedere una sorta di «tradimento», volontario o involontario, da parte di un altro scrittore, Stephen Spender, grande amico di Auden: sarebbe stato proprio Spender a confidare a un giornalista le telefonate intercorse tra Auden e Burgess, uno dei «quattro di Cambridge», pochi giorni prima della defezione in Urss. Omosessuale dichiarato ma sposato con la figlia di Thomas Mann, volontario con le forze repubblicane nella guerra civile spagnola, Auden si trasferì poi negli Stati Uniti e prese la cittadinanza americana. Con Philby e gli altri non si rivide più. «Un intellettuale comunista fortemente idealista», lo descriveva un dispaccio dello spionaggio britannico. Morì a Vienna nel 1973. (Enrico Franceschini, la Repubblica, 2007).
Sentimentalismo progressista
Si potrebbe scrivere un pezzo interessante sul mutamento delle mode e sull’autenticità del sentimentalismo progressista della classe media. Negli anni Trenta abbiamo avuto Mister W.H. Auden, l’idolo dei giovani, che inneggiava alla gloria dei lavoratori per rovesciare il capitalismo con la forza. […] Nonostante il colore politico dominante nelle opere di Spender, Auden e Cecil Day Lewis, va detto che non vi era alcuna profondità politica in esse. Perfino in un lavoro relativamente banale come The Dog Beneath the Skin di Auden e Christopher Isherwood il contenuto politico effettivo, perfino il significato antifascista, è risibile. Il desiderio di fondo di Auden & Co. pare quello di denunciare e ridicolizzare la borghesia di Flaubert più che quella di Marx, dal cui vocabolario si limitano a mimare qualche termine, qualche vago concetto. In un certo senso, questi scrittori conducono in pubblico una vendetta personale contro i propri genitori – vedi The Ascent of F6 [da noi L’ascesa dell’F6, Tararà 2004] del duo Auden-Isherwood – o contro le autorità che stanno loro antipatiche. Questa nozione di scrittura politica, dunque, è una specie di terapia per superare alcune difficoltà personali più che un contributo alla riforma della società: una chiave importante per capire l’intero approccio intellettuale alla politica, non solo negli anni Trenta. In effetti, a volte penso che l’intero ceto medio britannico prediliga la politica per una questione, diciamo così, di temperamento. Chi ama la consuetudine e la regola è attratto a destra; chi la odia opta per la sinistra. Lo stesso accade con la famiglia: ad alcuni pare un caldo nido, ad altri, come Isherwood, «l’enorme pipistrello sulla casa», qualcosa da cui fuggire. (Kingsley Amis, Socialism and the Intellectuals).
(Fine seconda parte – continua)