di Gioacchino Toni
Il volume di Paulo Barone, Il bisogno di introversione. La vocazione segreta del mondo contemporaneo (Raffaello Cortina Editore 2023), prende il via proponendo una curiosa, quanto efficace, analogia tra lo sguardo con cui Yuri Gagarin guardava per la prima volta il mondo da lontano, estraniandosi da esso, e lo sguardo di chi, durante la pandemia, guardava dalla propria abitazione, attraverso gli schermi, il mondo “messo a distanza” con le sue inconsuete e inattese strade deserte, con gli animali selvatici in città e con il cielo insolitamente terso grazie al rallentamento produttivo e alla riduzione del traffico automobilistico.
Si tratta di un’immagine «che si è potuta formare soltanto perché al di là o al riparo dal nostro sguardo, un’immagine di cui siamo venuti a conoscenza solo nel chiuso delle nostre abitazioni, davanti allo schermo di un dispositivo, dinnanzi a uno scenario complessivo che nessuno ha davvero potuto osservare di persona, in presa diretta. Un’immagine nata nella remota lontananza, intravista come dall’oblò di una nave spaziale» (p. 13).
Non tanto l’immagine del mondo di sempre, intessuto di idee che lo riflettono nelle forme discrete della realtà abituale, colta ora semplicemente da una prospettiva insolita, durante una circostanza fuori dal comune. E nemmeno l’immagine del mondo di prima, che crede di assistere alla rinascita di una natura ancora intatta […]. Quanto piuttosto un’immagine che mostra il mondo di oggi sospeso al filo di un’antitesi estrema, secca, bruciante, secondo la quale le cose che lo abitano possono rendersi per un istante visibili, solo se la nostra presenza, nello stesso istante, si ritira nell’ombra e abbandona la scena. Poiché se noi respiriamo al ritmo del nostro modo di vivere usuale le cose smettono di farlo, per udire il loro respiro dobbiamo trattenere il nostro (pp. 13-14).
Un’immagine che ha saputo mettere a nudo la frenesia e la tendenza autodistruttiva del nostro modello di sviluppo la cui valenza critica negativa, sostiene Broni,
non ne esaurisce tuttavia il senso. Resta che essa si dispiega per intero proprio in virtù della sospensione di ogni attività, del rientro nel chiuso delle case, del ritiro verso l’interno degli occhi della mente. È qui, in questo punto ritratto al margine del quadro, con l’umanità messa momentaneamente in disparte, che risiede il centro dell’immagine. È qui che si concentra la sua forza d’attrazione, capace di raccogliere attorno a sé questa o quella scena, questa o quella figura del mondo. È qui, in questa disposizione d’animo, in questa postura mentale, che si genera la quiete profonda che pure pervade l’immagine (p. 15)
Difficile dire esattamente di che disposizione d’animo si tratti, ma è, secondo lo studioso, in tale postura
che si può sperare di osservare in un modo nuovo le cose di sempre, che si può saggiare la consistenza attuale del mondo, quello che è diventato […] Intesa in questo duplice modo – cupo e spettrale e, al contempo, in quiete e contemplativo – l’immagine, pur essendo sorta a seguito e durante la pandemia, non ne è il mero riflesso, la semplice copia. Essa possiede la forza magnetica di raccogliere attorno a sé, mantenendoli nell’orbita della propria figura, anche altri avvenimenti che caratterizzano oggi il mondo contemporaneo (p. 16).
Dinnanzi a una realtà esteriore contemporanea frenetica quanto evanescente, strutturata sugli imperativi della prestazione e della competitività, in cui l’improduttività è stigmatizzata come devianza, non è così infrequente che
l’interesse vitale delle persone arretr[i], talvolta costretto dalla necessità – come nel caso degli adolescenti che in numero crescente vivono reclusi –, e si rivolg[a] verso il recinto delle abitazioni private, verso la sfera degli affetti familiari d’origine, verso l’intimo della propria vita mentale, alla ricerca – per quanto spinosi, angusti e malsani questi luoghi possano essere in concreto – di un rifugio sicuro, di una via di fuga, di un più attendibile luogo di interrogazione sul senso delle cose e su quello di se stessi (p. 18).
Tali “ripiegamenti” sono spesso messi in relazione ai modi di vivere della società contemporanea, sempre più focalizzata sul presente e votata alla competitività e al consumismo più sfrenati, con la sua propensione a ricorrere alla chimica per alleviare il malessere diffuso che produce. Si tende spesso a guardare a tale “ripiegamento” come a una tendenza al mero isolamento, al ritiro dalla vita sociale, come a un atto di “narcisismo”, con il conseguente giudizio di condanna, ma, sostiene Baroni, più che di un giudizio, potrebbe trattarsi di un pregiudizio culturale che concepisce l’esistenza esclusivamente in termini di relazione con l’esterno e concede alla sua interruzione giusto il tempo per ripristinarla.
Da parte sua Barone prova a guardare al fenomeno del “ripiegamento” da una prospettiva diversa: in un momento in cui il modello di vita egemone sembra non risucire più a soddisfare i bisogni degli esseri umani, il “rientro in se stessi” potrebbe in parte derivare da un più profondo bisogno di introversione utile a guardare in modo nuovo le cose e se stessi.
Al di là degli auspici dell’autore, è difficile dire quanto una società come quella contemporanea, incline com’è non solo alla mercificazione e alla vertinizzazione degli stessi esseri umani, ma anche a quote crescenti di delega alle “macchine pensanti” extraumane, produca/permetta un “salutare” bisogno di introversione che non si risolva in mera chiusura impotente nei confronti di un mondo che, nel momento in cui viene percepito nella sua follia distruttrice, deve pur indurre a un desiderio di cambiamento, non fosse altro che per spirito di sopravvivenza.