di Franco Pezzini

Gli angeli – ma anche i pappagalli, le cavalle, le iene…

Giulia Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, Mimesis, Sesto San Giovanni MI (2014,) 2022.

Leonora Carrington, Giù in fondo, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1979.

Leonora Carrington, Il cornetto acustico, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1984.

 

Caro Henry,

grazie per la sua lettera – Sono d’accordo che si pubblichi En Bas, MA mi creda che non c’è stato nessun “malinteso” fra noi – Forse non ha capito la mia irritazione, Non sono più la ragazza Incantevole che è passata da Parigi, innamorata –

Sono una vecchia signora che ha vissuto molto e sono cambiata – se la mia vita vale qualcosa io sono il risultato del tempo – Dunque non riprodurrò più l’immagine di prima – Non sarò mai pietrificata in una “giovinezza” che non esiste più – Accetto l’Onorevole Decrepita attuale – quello che ho da dire ora è senza veli quanto è possibile – Vedere attraverso Il mostro – Lei lo capisce questo? No? Pazienza. In ogni modo faccia quel che vuole con questo fantasma –

a condizione

che pubblicherà

questa lettera come prefazione –

Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca – cerco di conoscere La Morte per avere meno paura, cerco di vuotar via le immagini che mi hanno resa cieca –

Le mando ancora molto affetto e la bacio attraverso la mia dentiera (che tengo accanto a me, la notte, in una scatoletta di plastica celeste)

NON HO PIÙ NEANCHE UN DENTE

Leonora

P.S. Se i giovani mi dicono ora che ho lo Spirito giovane mi offendo –

Ho lo SPIRITO VECCHIO

Cerchi di capirlo –

 

Eppure la signora che nel 1973 scrive a Henri Parisot della casa editrice parigina Le Terrain vague queste righe insieme provocatorie, ironiche e dolorose è impossibile non amarla, non trovarla incantevole. Lo è senz’altro, e si gioca facile, a passare in rassegna le sue foto giovanili: splendida, intensa, occhi pieni di curiosità. Magari con Max Ernst, che in sua compagnia pare abbandonarsi – come (ma non solo) nella famosa foto, sensuale e tenerissima, in cui sta semicoricato su di lei, assorta, coprendone con le mani a coppa i seni nudi. Come ricorderà il figlio di Ernst:

 

Una delle donne più belle che io avessi mai visto mi disse, in un francese con accento inglese, che era in attesa del suo ritorno e che non avrebbe tardato più di un’ora. Mi preparò un tè e durante la conversa­zione mi comunicò che amava Max e che stavano vivendo insieme. Il suo nome era Leonora Carrington e la sua bellezza radiante mi colpì fino al punto che non riuscii a sostenere con lei una conversazione coerente.

 

Ma è incantevole, per opposti motivi, nelle foto di lei da anziana, il viso tatuato dai geroglifici di una storia interiore difficile, dalla dialettica tra horror e humour con cui ha decrittato la realtà, da una vita tessuta tanto riccamente di eventi e opere da rendere gli stessi aggettivi surreale e surrealista penosamente riduttivi.

E soprattutto incantevole perché è impossibile non amare la voce di En Bas (Giù in fondo, Adelphi 1979, trad. Ginevra Bompiani), un’impressionante catabasi di tanti anni prima da cui vorremmo a tutti i costi strappare la protagonista. Alla deriva di incubi e miracoli di una follia descritti con puntualità abbacinante e altra, qualcosa da far sognare e gridare d’ammirazione i surrealisti – che a quel tipo di ipnosi della voce avevano tentato di dar corpo come in laboratorio. Sintetizza Ingarao:

 

Il delirio che Carrington visse fu come sperimentare concreta­mente una delle dimensioni “altre” auspicate e descritte dai surrea­listi: trovarsi in un certo stato dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, non vengono più percepiti come contrari.

[…] I surrealisti erano affascinati dalla pazzia, erano soliti ricorrere a droghe e ad esperimenti ipnotici per simulare l’alterazione mentale e individuavano nella donna un soggetto particolarmente adatto a passare “dall’altra parte dello specchio”. In Giù in fondo l’esperien­za della pazzia è diretta e documentata: Leonora Carrington rag­giunge naturalmente quella dimensione psichica, fonte d’ispirazio­ne e libertà creativa, che, nel Secondo Manifesto, Breton individua come meta ultima della ricerca e della sperimentazione surrealista. È la storia di uno di quei viaggi da cui si hanno poche probabilità di tornare, raccontato con precisione sconvolgente. Eppure, Leono­ra seppe ritornare e, nonostante la sua fragile condizione psichica, riuscì a scappare dai suoi carcerieri e a ricostruirsi una nuova vita, lontana da quello che alla fine degli anni Settanta definirà semplice­mente “un fantasma della mia giovinezza”.

 

Una serie recente di mostre dedicate a surrealismo & dintorni hanno permesso a un più vasto pubblico di avvicinarsi all’opera visionaria e magica di pittrice di Leonora Carrington (Lancaster, 6 aprile 1917 – Città del Messico, 25 maggio 2011) che del secolo breve ha percorso tutto il cammino, e le cui opere narrative hanno avuto nel frattempo ampia circolazione. Ora la riproposta di una magnifica, pionieristica – almeno per l’Italia – biografia per Mimesis è un’ottima occasione per ricapitolare un itinerario: e una nota a questa seconda edizione ricorda che

 

In questi anni la sua produzione è stata oggetto di studio e di un interesse internazionale crescente. Soprattutto si è sviluppato un filone di ricerca strettamente legato alla relazione tra arte e magia, tema dominante nelle figure e nei paesaggi sincretici dipinti da Car­rington, in risposta al sempre più incalzante bisogno di spiritualità della società contemporanea.

 

Giulia Ingarao articola la sua biografia di Carrington in tre parti:

 

Il testo, diviso in tre parti, scandisce temporalmente le fasi dell’e­sistenza dell’Artista e segue un doppio registro, narrativo e saggisti­co, mettendo a fuoco, attraverso interviste, documenti e testi lette­rari, momenti cruciali nella storia dell’arte del Novecento.

 

La prima parte (Genealogia di un immaginario pittorico) è dedicata alla formazione. Nata in Inghilterra da un magnate del tessile e dalla figlia di un medico irlandese, cresciuta in una villa gotica da Giro di vite, in una nursery che tornerà in varie sue opere quale luogo separato dallo spazio esterno adulto, introdotta fin dagli anni verdi alla lettura di opere fantastiche e surreali, ricche di giochi di parole e immagini fantastiche, di animali e creature del folklore gaelico, Leonora prende presto a costruire storie proprie. Patisce gli stigmi di diversità – è “in grado di scrivere con entrambe le mani e anche al contrario sugli specchi (caratteristica che viene subito etichettata come chiara manifestazione di possessione demoniaca!)”, soffre di allucinazioni che riproduce nei disegni –, non sta mai nelle regole ed è intelligente a un livello che preoccupa i corti orizzonti degli adulti incaricati di formarla. Considerata ineducabile, patisce le regole delle suore – va detto che il padre è ateo – e in compenso può capitalizzare il cattolicesimo popolare & magico della bambinaia, guardato con disprezzo dal mondo agiato inglese, e prima soglia invece verso una gioiosa apertura al magico vero e proprio. Fondamentale l’incontro con il mondo animale poi tanto presente nelle sue opere narrative e pittoriche: a partire dalla prima visita allo zoo, che getta le basi del tema di tanti racconti col dialogo tra una giovane donna e una bestia, spesso avversato da algide figure di religiosi. Pensiamo solo al racconto La debuttante, “La bestia che ho conosciuto meglio era una giovane iena”: qualcosa che torna in un celebre dipinto dell’autrice dell’epoca del soggiorno in Provenza (ca. 1937-38, ora al Metropolitan Museum of Art, New York). Lo descrive bene Ingarao:

L’idillio di Saint-Martin-d’Ardèche stimola la creatività della gio­vane pittrice che in quell’anno dipinge Self-Portrait. The Inn of the Dawn Horse, un quadro dove sembrano riannodarsi le fila della sua esistenza. Leonora appare scarmigliata al centro di una stanza semi vuota, è seduta, immobile, su una sedia dalle forme antropomorfe; di fronte a lei c’è una iena e fuori dalla finestra galoppa una giumenta bianca. La sua chioma ricorda una criniera, indossa pantaloni bian­chi da equitazione e il suo cavallo a dondolo non è stato bruciato ma riposa quieto appeso alla parete. La iena, il suo doppio beffardo, come la descrive nel racconto La debuttante, ci osserva con sguardo di sfida, mentre fuori, nella luce crepuscolare del tramonto, corre libero un cavallo bianco simbolo del suo desiderio di libertà.

 

Ma un altro quadro, Crookhey Hall, dedicato alla villa gotica edoardiana della prima infanzia, pare di rilievo capitale per l’evocazione del passato:

la fuga dalla dimora paterna sarà al centro del dipinto intitolato Crookhey Hall (1947), sullo sfondo del quale si erge la grande casa in stile gotico della sua infanzia, immersa nella nebbia e circondata da ombre, ninfe, fantasmi, mostri metà uomini e metà animali, mentre in primo piano una figurina bianca scappa via. Leonora, come la bianca giumenta protagonista di molti suoi quadri, corre lasciandosi alle spalle l’atmosfera brumosa e sinistra del passato. L’ambiente tetro è reso dai colori autunnali del dipinto, dove spicca luminosa la piccola donna in bianco dalla folta chio­ma color ghiaccio. Ci osserva, spaventata e compiaciuta allo stesso tempo, mentre la sua mano alzata ci invita a seguirla oltre, il più lontano possibile, in un tempo dove: “il mondo diverrà sogno e il sogno diverrà mondo”.

 

Dopo studi d’arte a Firenze, dove s’innamora degli autori del Rinascimento, si batte per proseguire lo studio a Londra confrontandosi con la dura – e per lei inaccettabile – disciplina del maestro Amédée Ozenfant sodale di Le Corbusier nel Manifesto Purista. Il padre commenterà acido: “Non eri una vera artista – in quel caso saresti stata povera o omosessuale, che come crimini si equivalgono”. Questo per darci un’idea dell’ambiente.

Ma nel frattempo, attraverso quel giro di artisti, è arrivata la svolta (seconda parte del libro: Al di là dello specchio). La giovane entra così a contatto coi surrealisti nel 1936, alla loro prima esposizione a Londra, poco dopo conosce il carismatico quarantaseienne Max Ernst: lei ha diciannove anni, è rimasta travolta dalle opere di lui e in un clima di entusiasmo febbricitante si innamora anche dell’autore, quel profeta dell’arte “[c]acciatore di femme-enfant”. Merita ricordare che

 

Sin dai primi esordi del movimento gli artisti surrealisti so­vrappongono alle donne reali la propria visione del femminile. Un esempio paradigmatico è la figura di Nadja descritta da Breton:

 

“tu che […] non devi essere un’entità ma una donna, tu che prima di tutto sei una donna, nonostante tutto ciò che in te mi ha piegato e mi piega alla suggestione che tu sia la Chimera […] Tu idealmente bella. Tu che ogni cosa riconduce allo spuntare del giorno e che proprio per questo non vedrò forse più”.

 

Poeti e artisti che animano il movimento surrealista attingono da antiche tradizioni letterarie e mitologiche l’immagine della don­na-sfinge o strega, creatura in contatto diretto col mistero e con l’e­nergia indomita della natura. Come sostiene Simone de Beauvoir, nonostante gli apparenti tentativi di conciliazione e valorizzazione dell’altro sesso, il Surrealismo insegue il mito della donna-bam­bina/fata-strega e l’idea del femminile come oggetto del desiderio finisce per essere dominante.

Nell’introduzione al racconto La debuttante, André Breton de­scrive con stupore incantato il seducente incontro tra magico e sel­vaggio che, agli occhi dei surrealisti, Leonora personificava: una straordinaria sintesi tra lo spirito libero, proprio di un femminile moderno, e il potere extra razionale del femminile arcaico. Car­rington, dunque, secondo l’autorevole teorico surrealista, incarnava nello stesso tempo due potenti archetipi: la femme-enfant e la fem­me-sorcière.

 

E Max diventa di Leonora amante e mentore: “Vivere con Max Ernst ha radicalmente cambiato la mia vita, lui vedeva le cose in un modo che non immaginavo. Mi ha aperto le porte di ogni mondo possibile”. Amatissimo, certo, e insieme autoritario fino all’ingombro: partono per Parigi (ovvia rottura con monsù Carrington padre), e si trasferiscono poi in Provenza a Saint-Martin-d’Ardèche, in una casa presto fitta di sculture e dipinti d’animali mitologici, sorti dai bestiari inquietanti e intimi della relazione tra i due artisti. La donna-cavalla Sposa del Vento, Leonora, scrive i primi racconti e pubblica il primo, La maison de la peur, con introduzione e sette collage del partner Loplop, l’Uccello superiore Max. Che vede nel testo di lei, a torto o a ragione, più un risultato medianico che un’opera autorale consapevole e controllata. In questo clima Leonora produce parecchi racconti e riprende a dipingere. Interessante il ritratto del partner che Leonora dipinge nel 1939 (coll. priv.), mostrandolo coperto di una pelliccia con la coda come una sirena, corrucciato nel gelo.

Il contraccolpo psicologico di una relazione tanto appassionata e straniante erutta però quando l’amante viene internato come straniero “nemico” (1939): Leonora – che in questo periodo ha un lungo scambio di lettere con Leonor Fini, “a metà tra il racconto intimo e il flusso di coscienza” – manifesta i primi segni di cedimento psichico. Lui rientra a casa per breve tempo, e le dedica il meraviglioso Leonora nella luce del mattino (1940, coll. priv.), dove lei figura come una sorta di dea della terra nel lussureggiare della natura. Ma in seguito al nuovo arresto che vede tradurre Max in campo di concentramento, Leonora conosce un grave collasso psicotico. Anzitutto cerca di vomitar fuori a conati (letteralmente) le brutture introiettate della società, si sottopone a una drastica dieta di purificazione e a strapazzi fisici nei campi, ma non è preoccupata per la situazione generale – crollo del Belgio, invasione tedesca della Francia –, tanto sa di non dover morire allora. Viene raggiunta a Saint-Martin dall’amica Catherine Yarrow – che, sulla scorta di categorie psicanalitiche un po’ troppo sommarie le diagnostica un desiderio inconscio di liberarsi del “padre” Max, richiamandola alla dimensione del desiderio: col risultato che Leonora, in quel momento facile e suggestionabile, tenta disperatamente e senza risultati di sedurre due giovani (“Rimasi quindi tristemente casta”). Ma i tedeschi si avvicinano, e Catherine – convinta che l’arrivo delle truppe naziste significhi stupro sicuro – la supplica di partire di lì, di andarsene assieme.

Mentre l’Europa esplode, Leonora con gli amici si trasferisce in Spagna. Il viaggio, epico, è costellato di esperienze interiori bizzarre: se la macchina ha i freni bloccati, è perché lei è bloccata interiormente (“Ero atterrita del mio potere”); si convince che gli amici siano sotto la sua responsabilità; giunta ad Andorra vive l’esperienza di una sorta di coma volontario con perdita del controllo dei movimenti (che poi interpreterà quale tentativo della mente di congiungersi al corpo in un nuovo equilibrio con la montagna e gli animali, attraverso il tatto e fuori dalle “formule della vecchia Ragione limitata”); di notte i suoi nervi urlano “come pappagalli esasperati”. “È chiaro che, agli occhi dei bravi borghesi, tutto questo assumeva un aspetto singolare e demente”: e giunta in Spagna (la cui lingua ignota “mi permetteva di attribuire un senso ermetico alle frasi più banali” – cogliamo una vaga ironia), prima a Barcellona e poi a Madrid, su quest’ultima si convince trattarsi dello

 

stomaco del mondo e che io ero incaricata di guarire quell’apparato digerente. Credevo che tutta l’angoscia si fosse accumulata dentro di me per finalmente risolversi e così mi spiegavo la forza delle mie emozioni. Mi sentivo capace di portare quel peso atroce e di trarne una soluzione per il mondo. La dissenteria che mi venne poco dopo non era altro che la malattia di Madrid attuata nel mio intestino.

 

D’accordo, possiamo dubitare dell’interpretazione un tantino megalomane. Eppure, in primo luogo, come si può non amare questa donna che accetta con straniata serenità la fatica di un ordine psichico diverso da quello ordinario e razionale, con un abbandono alla missione e un coraggio propri in fondo della grande mistica? E come si può non vedere un nesso tra queste visioni intimissime del mondo e una straordinaria capacità di metterle in parole o – in altre fasi della sua opera – in immagini? Il memoriale in cui lei restituisce tali flussi immaginali resta, come tante delle sue tavole, uno degli esiti più alti di quella narrazione dell’alterità (di volta in volta onirica, lisergica… qui psichica) tale da restituire una parte importante e abissale della vita. Di ogni vita, a ben sgattare: anche se la sua, ovviamente, presenta caratteri esemplari, paradigmatici, vertiginosi. Come la definisce Ingarao, parliamo dell’

 

ultima surrealista a poter raccontare degli incontri mondani a Parigi in compagnia di Pablo Picasso, dell’amour fou con Max Ernst e dell’amicizia con Leonor Fini, Remedios Varo, Kati Horna, Maria Félix, Edward James, Luis Buñuel, Alejandro Jodorowsky; o di come André Breton, con l’aiuto di Jeanne Megnen, poté persuaderla a ripercorrere, attraverso la scrittura, il suo viaggio Giù in fondo, dando vita ad uno dei più interessanti esempi di racconto lucido di un’esperienza di follia.

“Sembra che la vita di Carrington – scrive Susan L. Aberth – ab­bia assunto tratti favolosi sin dal suo inizio, e i suoi sagaci ricordi personali contribuiscano a diffondere una sorta di mitologia biogra­fica”. Anche Lourdes Andrade, altra studiosa che si è lungamente occupata della sua opera artistica e letteraria, fa una riflessione si­mile:

 

“la biografia di Leonora Carrington è divisa in due tempi: il tempo reale, storico, oggettivo, che si basa su fatti concreti e documentati, e il tem­po mitico, onirico, soggettivo, quello dei sogni e degli incubi, quello in cui ha potuto immaginare e dare forma alle sue ossessioni, alle sue fantasie, alle sue paure e ai suoi desideri”.

 

Ma torniamo in Spagna. Leonora cerca di spogliarsi di tutto, beni e documenti, è oggetto di tentato stupro da parte di un ufficiale e identifica nell’ebreo olandese nonché agente nazista Van Ghent “colui che ipnotizzava Madrid, i suoi uomini e il suo traffico, […] che trasformava la gente in zombi e distribuiva l’angoscia come caramelle per farli tutti schiavi”: non solo, ma Van Ghent “era mio padre, il mio nemico e il nemico degli uomini; io sola potevo capirlo; e per vincerlo, mi era necessario capirlo”. Quanto di queste suggestioni deriva da una narrativa minore d’epoca, da certo cinema su armate di sonnambuli e mad doctors, e quanto dall’incubazione di letture e fantasie mitiche anche più remote? Difficile dire. Leonora cerca comunque di convincere il console inglese

 

che la guerra mondiale era fatta a base d’ipnotismo da un gruppo di persone, Hitler e compagnia, rappresentati in Spagna da Van Ghent, che bastava prendere coscienza di questo potere ipnotico per vincerlo, far cessare la guerra e liberare il mondo, bloccato come me e la Fiat di Catherine, che invece di perdersi in labirinti politici e economici, bisognava credere in questa forza metafisica, distribuirla a tutti gli esseri umani e così liberarli.

 

“[…] distribuirla a tutti gli esseri umani e così liberarli”: col risultato che viene dichiarata pazza e dopo vari internamenti più morbido (nell’albergo, in una clinica di suore) e la somministrazione di farmaci diversi viene narcotizzata e – su richiesta della famiglia, allertata da Catherine Yarrow – chiusa in manicomio a Santander come “pazza incurabile”. L’esperienza viene appunto narrata in Down Below, cioè En Bas, scritto per la prima volta in inglese a New York, nel 1942, ma poi perduto, quindi dettato in pochi giorni in francese e volto in inglese per la pubblicazione, tra 1943 e 1944. Dove anche lo scarto linguistico – il francese di Leonora non sembra fosse perfetto – può aver giocato un ruolo nel tono clinico con cui espone senza filtri esperienze ancora tanto vicine e scioccanti, in forma del tutto priva di autocommiserazione.

Perché qui inizia qui la parte più impressionante del memoriale. Col racconto dei significati (presuntamente) nascosti dietro ogni nome, titolo o caratteristica di cose e persone, dell’adorazione che Leonora riserva alla raggiunta completezza che vede in sé, dei sogni che fa e delle impressioni che vive, illusioni comprese. Ma soprattutto dei dolorosi risvegli legata al letto in manicomio, dei dialoghi assurdi con chi la detiene, delle pratiche odiose cui viene assoggettata: per esempio l’ascesso artificiale procuratole nella coscia; i “Molti giorni e molte notti, sdraiata nelle mie stesse lordure, urina e sudore” – oltretutto nuda, legata al letto e tormentata dalle zanzare; le terribili convulsioni indotte dal Cardiazol…. “Pensavo che mi facessero subire torture purificatrici per permettermi di pervenire alla Conoscenza Assoluta e che solo allora avrei potuto vivere ‘Giù in fondo’ [ipotetico padiglione di felicità nella struttura e insieme fantomatico Paradiso e Gerusalemme]”, ritenendo gli organizzatori “Dio e suo figlio. Li credevo ebrei e pensavo che io, ariana, celta e sassone, subivo quelle sofferenze per vendicare gli ebrei delle persecuzioni subite” in vista di divenire lei stessa la “terza persona della Trinità”. Lei che era

 

androgina, la luna, lo Spirito Santo, una gitana, un’acrobata, Leonora Carrington e una donna. In seguito sarei stata anche Elisabetta d’Inghilterra. Ero la persona che rivelava le religioni e portava sulle spalle la libertà e i peccati della terra trasformati in conoscenza, l’unione dell’uomo e della donna con Dio e il Cosmo, tutti uguali fra loro.

 

Un’immagine folgorante – diremmo – da fumetto di Alan Moore… Quel che emerge è un bombardamento di nessi causali surreali e a loro modo rigorosi – cospirazioni favolose da monomania, torpori comunitari e sensi di responsabilità deliranti, rituali e scongiuri improbabili e urgenti –, il tutto lucido di un mai sopito languore erotico, di una deriva gnostica di attrazioni e repulsioni, di una realtà scombinata in oggetti che assumono valenze cosmiche, in persone e luoghi trasfigurati in entità e dimensioni metafisiche. Ma alla fine, lentamente, tra minacce di nuove iniezioni del terrificante Cardiazol, visite inattese, equivoci continui, qualche sfogo sessuale, dopo sei mesi terribili, per intervento della famiglia la prigioniera potrà tornare libera dal carcere streghesco di cui una surreale mappa finale offre le coordinate.

Leonora stessa dipinge comunque un quadro, Down Below (variamente datato, ma concepito in apparenza durante l’internamento), dove varie figure femminili sono riunite in un giardino notturno dal clima tenebroso, assieme a un cavallo che potrebbe essere una statua. Vediamo una figura femminile nuda, bianca sulla sinistra, il viso d’uccello con lunghi capelli; poi un’altra pure nuda, ma verde e dal volto umano, che emerge da dietro; un essere dal viso vagamente femmineo ma con barba e baffi pare accucciato subito dopo, e un’altra donna vestita in modo procace indossa una maschera con corna di ariete. Sulla destra un’altra figura potrebbe essere un angelo, garante forse della successiva liberazione. Un insieme comunque dove sessualità e inquietudine, delirio e incapacità di riconoscersi realmente (i visi nascosti dietro maschere o sembianti altri), senso torpido di attesa e notte interiore dell’hortus conclusus sembrano estremamente rivelativi di un travaglio.

Non seguiamo qui passo passo le stazioni della sua vita – la destinazione a una clinica psichiatrica in Sudafrica (più lontana e presuntamente più sicura), il matrimonio di convenienza con il disponibile diplomatico messicano Renato Leduc per sottrarsi alle ingerenze familiari, il nuovo incontro con Max e lo stiracchiato ritrovarsi tra rimproveri reciproci e tormenti di lui, le nuove pubblicazioni e le esposizioni di dipinti. Se non per rilevare (Ingarao):

 

Il viaggio dall’Europa all’America coincide con la trasformazio­ne epocale che, a principio degli anni Quaranta, si sta compiendo nella storia dell’arte, con lo spostamento del centro creativo da Pa­rigi a New York, dove gli esuli europei si riuniscono e dove Peg­gy Guggenheim fornisce un contributo fondamentale per costruire l’arte del futuro. Leonora Carrington partecipa a questo momento di nuova creatività newyorkese unendosi al gruppo di emigrati sur­realisti ma, presto, decide di lasciare gli Stati Uniti.

 

La terza fase (Il Messico) inizia con la partenza per Città del Messico (1942), il divorzio da Leduc e il nuovo matrimonio con il fotografo ungherese Emerico Imri Weisz, da cui Leonora avrà due figli… Scrive L. C. Emerich:

 

Lontana, da quello che lei definisce “il paradigma del buonsenso”, che stabilisce il codice della normalità, Carrington ha “metaforizzato” la sua permanenza nella ragione, come prigione temporale dello spirito, fino a scegliere quella prigione senza porte che è il Messico. Allo stesso modo dell’Alice di Lewis Carroll vive il Messico come un desiderabile precipitare tra l’assurdo, l’insolito, il fantastico e il terribile.

 

 

Ma l’immersione nella realtà del Messico postrivoluzionario, asilo per molti emigrati europei (compresi parecchi surrealisti, di cui nasce una vera e propria colonia), condurrà la sua produzione a incalzanti e sempre nuovi esiti pittorici, teatrali e narrativi, e i suoi interessi all’azione per i diritti della donna. Vi era giunta senza troppe energie, come chi sia incerto o mezzo assopito, ma come può esserlo la crisalide in fase di passaggio (emblematico il quadro Green Tea, 1942, con la figura principale imbozzolata e dormiente a evocare una transizione come in farfalla). E infatti si tuffa, lavora, prende a studiare gli archetipi di Jung, La dea bianca di Graves e recupera le tradizioni celtiche delle sue origini irlandesi; “approfondisce gli studi di alchimia ed esoterismo, si accosta al buddismo tibetano, all’ermetismo e alla cabala ebraica” (si pensi solo a quadri come The Giantess o The Guardian of the Egg, 1946, figura mitologica di dea con l’uovo cosmico, Ab Eo Quod, 1956, nuovamente con l’uovo di tutta una simbolica esoterica, o Rabbi Loew’s Bath, 1969, che richiama la saga del Golem), ma anche proprio alle tradizioni messicane e specificamente Maya: e tutti questi influssi emergono nei suoi dipinti, negli arazzi che prende a produrre, ovviamente nei suoi scritti. Intrattiene scambi con personaggi della statura di Luis Buñuel (partecipa anche da comparsa a un suo film), Salvador Elizondo (contribuisce alla rivista “S.nob”), Alejandro Jodorowsky (con cui collabora in campo teatrale). A tratti abbandona il Messico per gli Stati Uniti, a denuncia di violenze e abusi di una società patriarcale. A partire dalla sua esperienza personale, Leonora vede la figura del padre come “portatore del potere dell’inibizione, […] nemico del gioco e dell’immaginazione”. Una società a sua misura non può che essere coattiva, castrante, e da cui si può sfuggire (come nel quadro enigmatico Adelita Escapes, 1987: una morte? un viaggio astrale?).

Possiamo stupirci che negli anni Cinquanta, forte di un lunghissimo lavoro su se stessa, Leonora Carrington parta idealmente proprio da quella sua antica notte oscura dell’anima confinata giù in fondo per scrivere in chiave di trasfigurazione grottesca e ironica – ma idealmente con gli stessi materiali, gli stessi ingredienti visionari – l’incredibile Cornetto acustico (edito nel 1974 in francese, nel 1976 in inglese)? La storia di una vecchietta quasi centenaria completamente sorda, al punto da dover usare il cornetto eponimo, sdentata – come Leonora nella lettera a Parisot – e ormai barbuta come le streghe del Macbeth, non è soltanto, come nei trafiletti pubblicitari all’uscita dell’edizione Adelphi, l’avventura “di una Alice novantanovenne sopravvissuta al surrealismo”, ma un vero e proprio controcanto provocatorio a En Bas, una trasfigurazione paradossale e ironica in cui precipitano un po’ tutti gli influssi culturali accolti nella sua vita.

Ricca di una vitalità e un senso del surreale che scintillano, Marian Leatherby, mollata dai parenti in uno strambo istituto per anziani, conosce presto una Wonderland inattesa. Sostenuta a distanza dall’impagabile e avventurosissima amica Carmella ispirata all’amica pittrice Remedios Varo (altra mattatrice del filone surreal-magico), Marion scopre infatti che l’istituto è sede della Confraternita del Pozzo di Luce dell’equivoco dottor Gambit – inevitabile pensare ai responsabili del manicomio di Santander –, ente religioso dai connotati piuttosto loschi, che impone alle ricoverate prassi di lavoro e di purificazione demenziali per valorizzare la Memoria di Sé, chiave per la comprensione di un fantomatico Cristianesimo profondo: e si trova coinvolta in sghembe tensioni tra vecchiette e con la direzione. Ma il dipinto col ritratto ammiccante – e un po’ inquietante – di una religiosa del passato schiude a colpi di antichi documenti la vicenda folle e divertita di una badessa libertina settecentesca da Storia universale dell’infamia – Doña Rosalinda Alvarez Cruz de la Cueva del Convento de Santa Barbara del Tartaro, latrice di macchinazioni alla Codice da Vinci – ingenuamente portata agli altari… e a quel punto la storia si trasforma.

Le vecchiette – o almeno quelle alleate della protagonista, in spirito di sorellanza – si ribellano in un contesto fiabesco, e la loro eversione scatena un effetto-valanga contro le istituzioni patriarcali. Innescando una serie di sommovimenti cosmici legati al ritorno della Dea (troviamo davvero di tutto), che vedono recuperare, dalla protagonista e dalle colleghe reinventate streghe, nientemeno che il Graal – del resto il bisnipote di Marion si chiama Galahad – inteso però come simbolo femminile scippato dal clero patriarcale… Il tutto a trasformare tra invocazioni a Ecate e licantropi, voli di api della Dea e calderoni iniziatici, funghi e scosse telluriche, i simbolismi sghembi dettati dal delirio nel vecchio memoriale in una scatenato, divertentissimo contrappunto fiabesco/ironico, una fantasmagoria sabbatica dai connotati a volte sottilmente inquietanti ma più spesso oniricamente paradossali: un risultato comunque della serissima riflessione di genere portata avanti dall’autrice tra letture mitiche e consapevolezze sociali.

Notiamo tra l’altro i padiglioni nel parco dell’istituto, con i più diversi sembianti: “Case di gnomi a forma di fungo velenoso, di chalet svizzero, di vagone ferroviario, semplici bungalows, uno a forma di stivale, un altro simile a qualcosa che presi per una smisurata mummia egizia”, quasi a richiamare la fiabesca cartina al fondo di En Bas. C’è anche una torre, separata dal corpo centrale… come nei quadri di Leonora, in fondo, con le loro strutture indecidibili tra folly, gloriette e cappelle improbabili, di cui questo romanzo rappresenta una sintesi ideale – e che nel volume di Ingarao, forte di particolare attenzione alla produzione artistica, trovano un esame ricco e vivido. L’autrice vivrà ancora a lungo (muore il 25 maggio 2011, novantaquattrenne) e pubblicherà molto altro, ma la provocatoria reazione chimica tra queste due opere recettrici di tanto immaginario, sentimenti, idealità, sofferenze, sembra particolarmente rivelativa.

 

Puoi anche non credere alla magia ma qualcosa di molto strano sta succedendo proprio ora. La tua testa si è dissolta nell’aria sottile e vedo i rododendri attraverso il tuo stomaco. Non è che tu sia morto o niente di così drammatico, è solo che stai svanendo e non riesco nemmeno a ricordarmi il tuo nome. […] Mi sembrò di aver sentito ridere la Regina delle Nevi, ride raramente.