di Emilio Quadrelli

L’illegalità operaia

Nel 1974, per i tipi della Bompiani, usciva “Kamo. L’uomo di Lenin” (Milano 1974), un testo che aveva visto la luce due anni prima a opera di Jacques Baynac e che la prestigiosa casa editrice parigina Fayard aveva pubblicato con entusiasmo. In Italia il libro ha conosciuto una certa notorietà a fronte di una diffusione che ha finito con l’assumere tratti al limite della clandestinità e non ha mai avuto, neppure in maniera indiretta, una qualche legittimazione dal ceto politico di sinistra allora egemone. Sia l’intellettualità di sinistra che l’insieme dei ceti politici, e questo vale sia per coloro i quali appartenevano agli istituti tradizionali del movimento operaio, sia per quel nuovo ceto politico formatosi dentro la galassia della nuova sinistra post ’68, operaisti compresi, cercarono di archiviare in fretta e furia quel testo che, raccontando semplicemente la biografia di un bolscevico di prim’ordine, faceva crollare tutta una narrazione tossica su Lenin e i bolscevichi fattasi nel tempo tanto egemone quanto assoluta.

Con ogni probabilità se Kamo non fosse stato l’”uomo di Lenin”, il libro avrebbe conosciuto destini diversi. Se, per ipotesi, Kamo fosse stato un bandito tout court, oppure un anarchico o un socialista rivoluzionario avrebbe potuto essere incorniciato e magari vezzeggiato come una delle tante figure romantiche che attraversano i periodi rivoluzionari, ma che hanno avuto ben poca incidenza sulla rivoluzione. Poco più di una nuance irregolare nell’ordinato corso degli eventi che, nelle narrazioni che si sono imposte, appare come il frutto di un centro organizzativo degno della Spectre tanto che, in tale ottica, persino un testo in presa diretta come I dieci giorni che sconvolsero il mondo1 finisce con l’apparire leggermente apocrifo.

In quell’incredibile reportage, infatti, Reed mostra come al di là dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, la pianificazione dell’insurrezione non andava molto oltre e come piegare a favore dell’insurrezione gran parte degli eventi furono iniziative non pianificate di gruppi di operai e soldati i quali, se sapevano cosa fare, lo sapevano politicamente e non perché vi fosse un preciso piano di guerra accuratamente studiato a tavolino. In tutto ciò, però, non vi era improvvisazione poiché, almeno una parte di questi, aveva maturato una non secondaria familiarità con le questioni militari grazie al mai venuto meno apparato militare dei bolscevichi oltre che dei socialisti rivoluzionari e degli anarchici con i quali, al di là delle non secondarie differenze politiche e teoriche, i bolscevichi, su diversi piani operativi, cooperarono senza impacci di sorta.

In anni e anni di lotta e combattimento il partito dell’insurrezione aveva costruito quadri militari in grado di gestire lo scontro armato con una certa professionalità e lo aveva fatto, specialmente dal 1905 in poi, senza settarismi di sorta verso l’ala rivoluzionaria e militare dei socialisti rivoluzionari e gran parte del movimento anarchico. Una storia che tutte le chiese comuniste sorte sul corpo di Lenin, hanno velocemente prima posto tra parentesi e poi cancellato dalla storia. Ma torniamo a Kamo.

A lui e alle sue gesta incoscienti si sarebbe potuto guardare con indulgenza e persino simpatia perché queste non avrebbero scalfito di una virgola l’immagine perbenista e bigotta che il movimento comunista ha voluto dare di Lenin e dei bolscevichi. Se Kamo fosse stato l’altro avrebbe potuto essere incorniciato come frutto esotico e come tale essere facilmente archiviato, ma Kamo era un bolscevico a tutti gli effetti, nasce bolscevico e non ha mai avuto momenti di tentennamento e, per di più, il suo agire è sempre in piena sintonia con Lenin.

La vita di Kamo è costellata di rapine, estorsioni, furti, evasioni (compiute o procurate), contrabbando per arrivare, in alcuni frangenti, all’attività di gigolò. Queste attività, completamente sponsorizzate da Lenin, fecero parte della sua biografia rivoluzionaria ma, aspetto forse ancora più censurabile e riprovevole per coloro che avevano fatto del perbenismo borghese la propria linea di condotta, Kamo è responsabile di una innumerevole serie di omicidi politici. Di quanti poliziotti, uomini del regime e spie passarono a miglior vita per opera di Kamo si è persino perso il conto. Una serie di crimini anche questi, però, consumati con il pieno consenso di Lenin.

Tutto ciò poneva più di un problema agli intellettuali e ai ceti politici che, di Lenin, si disputavano le spoglie. Come possono militanti e intellettuali che si presentano con un moralismo a mezzo tra i Mormoni e i Testimoni di Geova ipotizzare, anche solo alla lontana, di avere qualche cosa a che spartire con Kamo? Come possono militanti e intellettuali, il cui bigottismo ha poco o nulla da invidiare all’aria di sacrestia, trovarsi minimamente a proprio agio con un personaggio simile e la sua storia? Impossibile il solo coltivarne l’idea. Ma, ancor più, come possono militanti e intellettuali del tutto asserviti al legalitarismo e il cui orizzonte, andando al sodo, è il raggiungimento di una qualche ben retribuita postazione politica, amministrativa o accademica, coltivare una qualche similitudine con chi cammina costantemente all’ombra del patibolo? La risposta è pura retorica.

Non per caso Kamo sfondò tra gli uomini infami2 ovvero dentro quelle generazioni operaie, studentesche e proletarie che, a partire dalla fine degli anni sessanta e per tutti i settanta, osarono portare l’assalto al cielo. Solo tra le schiere dell’altro movimento operaio, che poi forse tanto altro non era, Kamo andò a ruba. Questa generazione in Kamo trovava due cose: da un lato un modello da ritradurre nel presente; dall’altro quella condizione anonima propria di quelle generazioni così come lo era stata per Kamo.

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg3 quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale.

Certo, la storia è storia di lotte di classe e la storia fatta dalle masse non è mai una storia nobile. L’Angelo della storia si staglia costantemente nell’agire delle masse ed è un angelo che coniuga speranza, vendetta e ben poca pietà, su ciò sembrano concordare tutti ma poi, quando i tumulti si placano le masse devono tornare nell’ombra e gli unici a avere diritto di cittadinanza sulla scena storica, sono sempre e comunque i grandi individui. Poco importa se, come realisticamente aveva detto Napoleone, le rivoluzioni sono sempre il frutto di una ideologia che trova delle baionette, queste baionette devono sempre essere riposte nell’ombra e del protagonismo delle masse non deve rimanere traccia o meglio, queste tracce, possono essere solo la narrazione di qualcuno legittimato a rivestire i panni dell’individualità.

Sono i tanti Juan di Giù la testa a fare la storia e le rivoluzioni, sono i poco dotti appartenenti al Mucchio selvaggio, due film che non per caso hanno fatto da sfondo alla storia degli uomini infami, i quali, di sovente, sono determinanti nel corso degli eventi rivoluzionari, ma i cui destini rimangono, quasi sempre, confinati nel mondo delle cose e difficilmente ottengono lo sdoganamento per quello delle parole. A ben vedere la battaglia per il linguaggio rappresenta pur sempre la battaglia finale della lotta di classe. Al raggiungimento di questa meta il bolscevismo aveva contribuito non poco, la poca recezione che di ciò si ebbe in occidente contribuì a rendere in gran parte vano questo sforzo. Di tutto questo le vicende di Kamo ne sono tanto un’ottima esemplificazione quanto una sintesi eccellente.

Kamo, infatti, non sortì grandi successi neppure tra l’intellettualità rivoluzionaria poiché, in lui, vedevano l’erompere di quelle masse che, a un certo punto, avrebbero iniziato a fare da sé, senza lezione. Insomma Kamo doveva rimanere nell’ombra e la sua storia relegata nel folclore che, in qualche modo, ogni movimento rivoluzionario si porta appresso. Come si è detto, invece, Kamo suscitò entusiasmi entro quella massa operaia e proletaria propria dell’autonomia con la a minuscola che, per quanto poco colta o forse proprio per questo, era giunta alle stesse conclusioni di von Clausewitz ovvero che la guerra è la continuazione della politica sotto altra forma e che, per altro verso e sulla base della semplice esperienza, sapeva che le pratiche illegali erano tutte interne alla condizione operaia e proletaria ancora prima che essere patrimonio del movimento comunista.

Migliaia di giovani militanti, proprio nel momento in cui Kamo ritrovava una qualche notorietà stavano per seguirne le orme. In lui trovarono sia un modello che una conferma: l’illegalità era il qui e ora della lotta politica e non qualcosa di continuamente posticipato a un non meglio precisato momento pre-insurrezionale o, per altro verso, al mitologema di un’epoca, la Resistenza, tanto eroico quanto definitivamente archiviato. Kamo era il presente, Kamo era il loro noi.

Per un breve lasso di tempo il brigante del Caucaso e la sua storia tornarono prepotentemente in auge e la polvere accatastatasi sul suo faldone storico venne rimossa. Un nuovo raggio di sole penetrò nell’asfittico mondo comunista. Contro il plumbeo grigiore dei vari funzionari di partito, anche se solo per breve tempo, irrompono nuovamente i colori forti della rivoluzione. Alla tristezza della vita di partito si contrappone la gioia della battaglia di strada. Kamo è l’uomo delle barricate, Kamo è l’uomo degli espropri, Kamo è l’uomo della clandestinità ma che, paradossalmente, vive una vita densa di relazioni sociali. Kamo è l’avventura della rivoluzione. Una generazione, che della rivoluzione e dell’avventura ha fatto la sua ragione di vita, non poteva fare altro che riconoscersi in lui ma, ben presto, una cortina di ferro calò su di lui. Come tutto ciò che è scomodo venne semplicemente rimosso.

Certo la rimozione di Kamo viene da lontano. Si deve a Stalin, suo padre spirituale e formatore politico, il silenzio che è calato su di lui. Probabilmente, nel momento in cui l’Unione Sovietica si accingeva a essere riconosciuta come una delle potenze internazionali, sembrava il caso di concedere qualcosa al bon ton della politica internazionale ponendo in archivio l’imbarazzante passato del suo capo politico e del suo ministro degli esteri Livtinov il quale, infatti, non ha una biografia molto dissimile da quella di Kamo. Per questioni di immagine, quindi, Kamo finì con l’essere riposto nell’ombra. Ma questa rimozione che potremmo definire tattica finì ben presto con il farsi strategica nel senso che, insieme a Kamo, a essere rimossa è tanto la storia del bolscevismo, quanto la teoria politica di Lenin. Questo pare essere il nocciolo della questione.

Il bandito del Caucaso non è la nuance naif del bolscevismo e il suo rapporto con Lenin non è il pedaggio pagato da questi alla memoria del fratello, bensì l’essenza stessa del bolscevismo. Parlare di Kamo, pertanto, significa parlare della teoria politica leniniana e del partito dell’insurrezione, vuol dire liberare la storia del bolscevismo dal perbenismo in cui è stata costretta ma è anche, e soprattutto, fare i conti con il pop ulismo e la sua messa al bando dalla narrazione comunista. E con ciò torniamo al senso di questa apparente digressione perché non poche sono le cose, o le affinità elettive, che legano Kamo con i soggetti operai artefici de “La classe”. Anche in questo caso siamo obbligati a una sostanziosa digressione storica la quale, almeno per chi scrive, ha non poca attinenza con la materia in oggetto.

Per chiunque conosca minimamente la storia della Russia prerivoluzionaria è difficile, leggendo la biografia di Kamo, non andare con la mente al populismo o, per lo meno, volgere lo sguardo verso la Narodnaja volja4. Per molti versi il populismo è stato oggetto di una rimozione politica e storiografica da parte del movimento comunista non poi così dissimile da quella conosciuta da Kamo. Una rimozione che ha avuto più padri: certamente Stalin, come ha ben ricostruito Vittorio Strada5, ma anche tutte le varie anime che, pur da posizioni differenti, si sono contese il titolo di marxisti ortodossi. Tutti, in qualche modo, si sono sentiti in dovere di tracciare una linea di demarcazione quanto mai rigida e solida tra il populismo e Lenin.

In realtà furono proprio i marxisti ortodossi dell’epoca, i marxisti legali, i menscevichi in Russia e la quasi totalità della socialdemocrazia europea, a coltivare non pochi dubbi sulla contraddittoria presa di distanza di Lenin dal populismo. Di ciò, tutto il dibattito sorto a ridosso del Che fare?, ne è una esemplificazione quanto mai esaustiva6. Dubbi che avevano più che una ragione a essere espressi. Con buona certezza, il giudizio di Lenin nei confronti dell’orizzonte teorico e analitico del populismo non lascia dubbi: il populismo è il tentativo di rendere eterno il mondo di ieri, cioè di non cogliere le trasformazioni economiche e sociali capitalistiche che hanno investito anche l’impero zarista. Aspetti che, per molti versi, la stessa Narodnaja volja aveva iniziato a cogliere nel momento in cui, in rottura con la Zemlja I Volja7, spostò la sua attenzione dalla campagna alla città, dai contadini agli operai e assunse la dimensione della rivoluzione politica come asse centrale del suo agire.
Le vestali delle varie ortodossie comuniste riverseranno una parte di queste accuse, pari, pari, nei confronti dell’autonomia e blanquismo e terrorismo populista, in particolare, saranno quelle maggiormente gettonate. Lo farà il PCI, ma anche tutte le sette marxiste – leniniste insieme ai loro acerrimi nemici bordighiani e trotskyisti formando, di fronte al movimento dell’autonomia operaia, una sorta di Santa Alleanza simile a quella messa in campo, da altri conservatori, per scongiurare lo spettro della Grande rivoluzione.

Colpisce, in questo fronte unico dell’ortodossia, il medesimo ostracismo nei confronti del populismo e il sostanziale convergere di giudizi nei suoi confronti, giudizi che, basta leggerli, sono del tutto estranei al pensiero politico di Lenin il quale, soprattutto nei confronti della Narodnaja Volja, aveva espresso valutazioni tutt’altro che negative e, semmai, è stata la Zemlja I Volja a essere oggetto delle sue maggiori critiche. Per molti versi, infatti, della prima Lenin e la frazione bolscevica si considerarono i naturali eredi, mentre, la seconda, è sicuramente riconducibile a Pleckanov e alla frazione menscevica.

Far cadere nell’oblio il populismo di Lenin è stato un passaggio pressoché obbligato per tutti i marxisti europei dagli indirizzi più disparati poiché, il non farlo, avrebbe comportato il dover fare i conti con tutta la loro ossatura teorica la quale non era mai riuscita a fare proprio il concetto di inimicizia assoluta, concetto che, invece, è stato il cardine di tutta la teoria politica leniniana ed è un cardine che non poco deve alla tradizione populista così come, il rivoluzionario di professione, che tanto scandalo finì con il produrre in occidente, è tutto tranne che una invenzione di Lenin il quale non fece altro che portare all’interno del movimento operaio russo quanto messo a punto dal populismo e in particolare dalla Narodnaja Volja.

Certo in ciò è difficile non scorgere dei tratti propri del giacobinismo, del resto Lenin rivendicò sempre la obiettiva continuità tra l’ala estrema della Grande rivoluzione e il movimento comunista, ma è proprio questo a renderlo incompatibile e incomprensibile all’insieme del marxismo europeo. Lenin non rigetta il populismo, o almeno alcuni suoi aspetti, ma li modella dentro ciò che sarà il bolscevismo e questo per gli europei è qualcosa di incomprensibile, così come del giacobinismo Lenin riprende interamente l’esercizio del terrore e la costruzione della milizia proletaria e popolare e il decisivo tratto del disprezzo per il parlamentarismo il quale, nel contempo, era diventato il punto cardine dell’intero movimento operaio europeo.

Dalla Narodnaja Volja riprende e recupera in pieno il primato della politica e del politico, ovvero della totale compenetrazione di politico e militare, tanto che non è difficile osservare come, per molti versi, la polemica che sta alla base del Che fare? non sia poi così distante da quella che aveva fatto da sfondo alla rottura tra Narodnaja Volja e Zemlja I Volja. Ma non sono solo questi i legami tra Lenin e la Narodnaja Volja, difficile non vedere come da questa egli erediti non solo la centralità della città e degli operai, in contrapposizione alla campagna e ai contadini, cosa che lo accomunava a tutte le tendenze socialiste, ma di questi faccia interamente sua la necessità della centralizzazione, della cospirazione, della specializzazione dei militanti e di quanto risulti impensabile condurre una battaglia contro il mostro statuale senza la formazione di quadri politici complessivi, totalmente dediti alla rivoluzione, un tratto che è proprio del populismo russo terrorista. Questi erano temi che la Narodnaja Volja aveva posto nel suo orizzonte. Lenin li fece interamente propri, li rielaborò e li sviluppò all’interno di ciò che prese il nome di bolscevismo. Lo stesso terrorismo da Lenin non fu mai abiurato, ma ricondotto dentro l’azione di partito.

Per farla breve, quindi, mentre la Narodnaja Volja finì con il subordinare il politico al militare, inteso come pratica terroristica, Lenin giunse alla concettualizzazione del politico come un ambito in cui politico e militare sono del tutto complementari8. Di ciò si avrà la migliore esemplificazione nel 1905 quando, di fronte agli eventi insurrezionali e al coevo dualismo di potere in atto, Lenin sostenne che occorreva usare anche le sale da tè per fare agitazione e propaganda ma allo stesso tempo fabbricare il maggior numero possibile di bombe a mano e asserì inoltre che occorreva dare vita alle più ampie formazioni di massa strutturate in nuclei di combattimento, il cui onere doveva essere quello di difendere gli organismi legali, continuamente sotto attacco, disarticolare gli apparati statuali, assaltare le prigioni, espropriare gli arsenali della polizia e dell’esercito, adoperarsi per l’armamento di massa, addestrarsi e addestrare all’uso delle armi, incalzare il nemico da ogni dove.

In tutto questo il volantino agitatorio, il giornale propagandistico, il pamphlet teorico sono del tutto complementari alle squadre proletarie che allargano, difendono, impongono il potere operaio e i suoi decreti. Qui Lenin riprende per intero il terrorismo populista, in funzione del dualismo di potere in atto. Legalità e illegalità, politica e guerra, lavoro teorico e combattimento sono sempre un et et. Non si dà l’uno senza l’altro. Con la sola attività legale si scivola nel democraticismo opportunista, con la sola pratica illegale si approda inevitabilmente a un militarismo fine a sé stesso. È un passaggio che sicuramente si lascia alle spalle i limiti della Narodnaja Volja ma non ne è certamente un ripudio. Un passaggio filosofico e non semplicemente politico poiché, proprio in ciò, vi è la precisa concettualizzazione del nemico e della inimicizia assoluta, un passaggio che apre sulla guerra civile internazionale e la borghesia ciò lo comprenderà appieno o, almeno, sicuramente meglio dei marxisti occidentali i quali, proprio su ciò, si rifiutarono di seguirlo.

Un rifiuto e una non comprensione di Lenin che finì con l’accomunare riformisti e rivoluzionari. La stessa Rosa Luxemburg, sulla genuinità rivoluzionaria della quale non vi sono certo ombre di sorta, non riuscì infatti a seguire Lenin sino in fondo e finì con pagare con la vita la non comprensione della lezione leniniana. Prigioniera, suo malgrado, del mefitico legalitarismo socialdemocratico non comprese, a differenza di Lenin, il senso della inimicizia assoluta che la guerra di classe comporta e, nel momento in cui la forma – guerra prese il sopravvento sulla forma – politica, si ritrovò, insieme a tutta l’ala rivoluzionaria del movimento tedesco, del tutto spiazzata e impotente di fronte alle armate della controrivoluzione ma non solo. Proprio il richiamo a costei ci consente di focalizzare al meglio il portato della teoria leniniana e come la pratica dell’altro movimento operaio si mostrò in grado di farla rivivere, sicuramente sotto altra forma, dentro le lotte operaie degli anni sessanta.

La Luxemburg pagò con la vita la non comprensione della socialdemocrazia come forza politica nemica cosa che, invece, Lenin non solo comprese teoricamente ma tradusse immediatamente in pratica politica e organizzativa. A caratterizzare il bolscevismo, per prima cosa, è stata soprattutto la capacità di ascrivere, senza mezze misure, il riformismo, l’opportunismo e il democraticismo nell’ambito dell’inimicizia. Ciò che Lenin e i bolscevichi, praticamente da soli, comprendono è la relazione di guerra che fa da sfondo alle divergenze teoriche tra le anime del movimento socialdemocratico. I riformisti non sono socialisti più morbidi e mansueti, non sono tali perché i loro animi sono poco inclini all’uso delle armi, il modo deciso e risoluto con il quale combatteranno al fianco dei bianchi contro la rivoluzione, del resto, lo dimostrerà ampiamente, ma sono forze borghesi infiltrate nel campo operaio. Sono, a tutti gli effetti, hostis non inimicus poiché incarnano interessi e prospettive di classe ben precise e codificate9. Tra riformisti e rivoluzionari non vi è alcun possibile et et, ma solo un immodificabile e mortale aut aut. Questa consapevolezza teorica armò il partito di Lenin consentendogli di vincere mentre fu questa assenza di chiarezza teorica a risultare fatale per intere schiere di rivoluzionari dell’Europa occidentale.

(2continua)


  1. J., Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Rizzoli, Milano 2017.  

  2. Cfr. M., Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009.  

  3. R., Luxemburg, Sciopero generale, partito e sindacato, Samonà e Savelli, Roma 1970.  

  4. Cfr. F., Venturi, Il populismo russo, 2 voll. Einaudi, Torino 1952.  

  5. V., Strada, Introduzione, in V. I. Lenin, Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  6. Al proposito si veda l’edizione integrale di V. I., Lenin, Che fare? Einaudi , Torino 1970  

  7. Al proposito si veda, in particolare, V. A., Tvardovskaja, Il populismo russo, Editori Riuniti, Roma 1970.  

  8. Su questo aspetto si veda, in particolare, C., Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.  

  9. C., Schmitt, Teoria del partigiano, cit.