di Giovanni Iozzoli
La crisi del salario, in Italia, è finalmente emersa come elemento centrale del dibattito pubblico – sia pur tra omissioni, fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Le forze e i media di “opposizione” – risvegliatisi dopo un quarto di secolo, nel duro mondo della realtà quotidiana – paiono acquisire consapevolezza del vero grande scandalo italiano: i salari reali calati nel corso dell’ultimo trentennio, unico paese nell’area Ocse. E scoprono costernati che le retribuzioni italiane rappresentano anche il paradigma dell’economia reale di questo paese: la caduta degli investimenti privati e pubblici, il ristagno della domanda interna, la destrutturazione dei grandi comparti industriali, il calo della produttività del lavoro. Dalla crisi del salario si capisce tutto: la mobilità sociale che si blocca, l’arretramento dei ceti medi e l’impoverimento di quelli operai, l’espansione incontrollata del lavoro precario per ricostruire margini di profitto fittizi. Le nostre miserabili buste paga sono una lente magica attraverso cui ricostruire la storia e la cartografia del declino italiano.
Alle volte, nella discussione collettiva a sinistra, è prevalsa una lettura “semplificata” che imputa il crollo dei salari degli ultimi tre decenni, esclusivamente alle scelte del sindacato confederale, maturate tra il ’92 e il ’93 – nel contesto dei grandi accordi sull’abolizione della scala mobile e il nuovo modello contrattuale. Quegli accordi, nella narrazione di regime, furono la risposta necessaria ed efficace, rispetto alle due priorità sbandierate all’epoca: contrastare la fragilità della lira e bloccare il nemico numero uno, l’inflazione, ricondotta sempre alla narrazione della rincorsa prezzi/salari. Mentre le suddette letture “soggettiviste”, di critica anticonfederale, raccontano quei protocolli alla stregua di patti diabolici che, da soli, avrebbero avuto il potere di ipotecare il futuro della nazione e soffocare il conflitto di classe in Italia.
Ma il vero nodo da sciogliere e interpretare, riguarda l’origine di quelle firme e di quegli accordi. Perché se si semplifica troppo lo schema, si rischia di spostare il ragionamento da una dinamica strutturale – che riguarda lo scenario macroeconomico di quel periodo, le trasformazioni dell’apparato produttivo, la divisione internazionale del lavoro, la crisi politica post-89 della Prima Repubblica -, verso un piano di lettura essenzialmente morale: il “tradimento dei chierici” che, mediante le firme malandrine, condannano i salariati italiani a subire un trentennio di deflazione retributiva.
Più interessante è l’approccio che mira a collocare quelle scelte confederali – e il lungo ciclo di politiche sindacali ad esse conseguenti -, dentro il quadro delle trasformazioni epocali dell’economia europea. All’inizio degli anni ’90 tutti gli attori dell’economia continentale stanno ridefinendo programmi e vocazioni. L’industria tedesca sta mettendo in valore i territori produttivi della ex-DDR e guarda all’est e al sud Europa come nuovo spazio di investimento ed espansione economica (con export e avanzo di bilancio come priorità strategica della politica economica nazionale). In Italia un repentino ciclo di ristrutturazione industriale, avviato già verso la metà dei ’70, accelera il ridimensionamento delle grandi concentrazioni produttive italiane, sotto la spinta del decentramento e del primo grande impatto di tectronica e robotica applicato alle linee di produzione. Tra il 1989 e i primi anni 90, il programma economico dei diversi governi italiani, sarà sempre più orientato verso lo sforzo di privatizzazione/svendita dei poli nazionali delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, della chimica, della siderurgia e del credito – quelle che Cossiga definiva “sacche di socialismo reale”. E, dulcis in fundo, i margini di manovra sulla lira – le famose svalutazioni competitive – risultano praticamente azzerati dagli equilibri monetari rigidi che saranno la precondizione di Mastricht. Tutti questi processi rappresentano la cornice della crisi italiana e vanno inquadrati dentro il gigantesco ridislocamento delle filiere del lavoro e delle catene del valore che si realizza con la globalizzazione. La riunificazione dei mercati mondiali a egemonia unipolare, è un gioco maledettamente duro e l’Italietta in transizione gioca senza difese.
E’ in questo quadro di smottamenti e riassetti, che si deve collocare la sconfitta storica del sindacato confederale italiano e l’avvio di quella stagione definita pudicamente concertazione – in cui si è “concertato” assai poco, per amor di verità storica. Questa fase rappresenta la presa d’atto, da parte del gruppo dirigente CGIL, che qualcosa si è rotto definitivamente nel suo rapporto con un mondo del lavoro in repentina trasformazione. A partire dalla sconfitta maturata nel corso degli anni 80, tra la marcia dei 40.000 e il referendum sulla scala mobile, la CGIL introietta (senza mai elaborarla pienamente) una paralizzante ideologia della sconfitta . Dentro questo passaggio, la confederazione sente di aver perso il peso politico e negoziale che il radicamento e la spinta autonoma di classe del ventennio precedente, le avevano consentito. La terra manca sotto i piedi, il quadro politico conosciuto si sta sconvolgendo, la lira è sotto attacco e il divorzio andreattiano tra Tesoro e Banca d’Italia mette in mora gran parte degli strumenti di politica monetaria e di bilancio. La sensazione è quella di una navigazione a vista, su un’imbarcazione che comincia pericolosamente a fare acqua. La concertazione, a questo punto della storia, si presenta come l’approdo che “tiene in piedi” e ridefinisce – sul piano politico – il ruolo ormai traballante del sindacato confederale, ambiguamente “innalzato” a partner strategico della governance, proprio dopo aver subito le sue peggiori sconfitte. Per molti, in Corso Italia, tale soluzione rappresentò un epilogo dignitoso, in attesa di ritrovare forze e ridefinire obiettivi.
Quindi: c’è una dimensione “soggettiva” delle funeste scelte di politica sindacale dei primi anni 90, ma c’è una condizione oggettiva (come sempre) entro cui quelle scelte maturano. Se tutto il dibattito sulla concertazione si esaurisse sul terreno del “tradimento”, sarebbe piuttosto povero. Poi “ci sta”, nella polemica politica, soprattutto dal punto di vista extraconfederale, che i toni siano “eticizzati”, evocando categorie morali – tradimenti, svendite, rese, etc.. Ma non è questo il cuore del ragionamento. Altrimenti si farebbe fatica a spiegare come sia stato possibile che dirigenti di oggettivo spessore, al di là del giudizio storico che ognuno può coltivare – pensiamo a Bruno Trentin -, gente che aveva conosciuto la grande stagione “acquisitiva” e rivendicativa dei diritti, della contrattazione, del consiliarismo -, all’improvviso impazziscono e si mettono a firmare accordi che sanciscono il crollo del salario dei propri iscritti e la sacrosanta riscossione di un bel po’ di bullonate nelle piazze. Senza riflettere adeguatamente sui rapporti di forza generali nella società e sulla mutazione della composizione di classe, ogni critica al sindacato confederale risulterebbe parziale.
La concertazione è una fase di consapevole rinculo – una ritirata strategica (scusate evocazioni inopportune) – in cui un sindacato non più fiducioso della sua forza, accetta uno scambio che si rivelerà fallace e perdente. Poi arriveranno anche elementi di simonia – con le nuove figure della bilateralità, dai fondi pensione ai piani sanitari: ma quelli furono cascami e conseguenze delle scelte generali già assunte sul piano politico. Le ragioni dell’avvio di quella stagione strategicamente sbagliata, da parte della CGIL, vanno ricercate in una lettura sbagliata della transizione italiana, una specie di “pensiero debole” sindacale che mira a recuperare sul piano del ruolo politico, quello che il sindacato in quegli anni sta perdendo giorno per giorno in termini di peso e radicamento nella società italiana. E qui c’è una evocazione più della trontiana “autonomia del politico”, che della svolta dell’Eur. Ed è a cavallo dei due decenni 80/90 che la CGIL ridefinisce anche il suo modello organizzativo, provando a inseguire sui territori la frammentazione del tessuto produttivo e la “nanizzazione” del sistema di impresa – cioè fotografare la nuova composizione di classe ed inseguire (riformisticamente) sui territori le sue figure frammentate. La concertazione venne evidentemente vista – per restare alle metafore ingombranti – come “l’ombrello protettivo” che avrebbe dato tempo al sindacato di ridefinire il suo ruolo dentro la transizione italiana.
Ma quale fu l’essenza di quella stagione? Cosa concesse il sindacato confederale e in cambio di cosa? Su un piatto della bilancia viene posta la moderazione salariale – cioè, l’esaurimento di ogni margine di “indipendenza” della variabile salariale – e una postura collaborativa e di “responsabilità nazionale” nei giudizi sulle politiche economiche nazionali. Sull’altro piatto viene posta la para-istituzionalizzazione del rito laico della concertazione, da celebrare soprattutto nei tornanti difficili della vita economica, in una frequente chiamata di correità attraverso cui i governi tecnici cercano una copertura sociale alle loro scelte oggettivamente antipopolari. Qualche sciagurato, leggerà in questo passaggio anche una prima parziale realizzazione dell’art.46 della Costituzione. Chi gestisce questo scambio da parte governativa e padronale, si pone una meta in tre livelli: l’obiettivo immediato è congelare i salari, quello di medio periodo bloccare l’inflazione, quello strategico agganciare definitivamente retribuzioni e produttività, nell’ottica di una “modernizzazione” delle relazioni industriali che cancelli rigidità ormai anacronistiche.
Dentro questo grande scambio, una categoria chiave assume centralità: la “politica dei redditi” – cioè la ridefinizione in chiave concertativa delle linee pubbliche di intervento, in tema di prezzi, tariffe, investimenti, politiche di bilancio, politiche monetarie. Questa categoria dovrebbe rappresentare la giustificazione storica che consente ai dirigenti sindacali di subire l’arretramento dei salari: non possiamo più fare una contrattazione offensiva, però in cambio i tassi di interesse dei mutui restano stabili ( è in questo periodo che la maggior parte degli italiani realizza l’acquisto della prima casa) e le politiche tariffarie rimangono sotto controllo. Anche qui c’è una lettura e una presa d’atto: i padroni hanno vinto, la stabilizzazione capitalistica è irreversibile, le classi lavoratrici vogliono essenzialmente sicurezza contro le fluttuazioni e i disordini nella sfera finanziaria e monetaria.
Durante un dibattito in un talk di una decina d’anni fa, ricordo la faccia da volpe di Giuliano Ferrara, che se la rideva, davanti alle rimostranze sulle basse retribuzioni che provenivano da un interlocutore sindacale. Di che vi lamentate – diceva Ferrara -, siete voi che avete accettato lo scambio bassi salari/concertazione, con chi volete prendervela? In quella risatina beffarda c’erano due verità: la prima, è che la concertazione fu una colpa consapevolmente assunta che diede un arma formidabile ai nemici del movimento operaio; la seconda è che fu una truffa. Si, perché i governi della transizione (Amato, Ciampi, Dini), stavano garantendo ai sindacati, qualcosa – la politica dei redditi – su cui cominciavano a non avere più alcun potere di esercizio. Se non hai più la gestione autonoma delle leve delle politiche di bilancio e monetarie, se la dimensione pubblica dell’economia italiana è in via di smantellamento, se si accelera la cessione sovranazionale di sovranità economica e relative strumentazioni, che diavolo di “politica dei redditi” puoi garantire? L’unica cosa che si poteva realisticamente “garantire” era l’arresto della dinamica salariale, adottando un modello contrattuale perdente. E così finì.
La concertazione fu anche l’esito di una contesa politico-culturale – cioè di egemonia -fra due gruppi dirigenti. Quello laico-tecnocratico-riformista – che emergeva dalle macerie esauste della Prima Repubblica, e che poteva contare su un parterre internazionale e massonico di primissimo piano; e quello del sindacato confederale, ridimensionato, stordito e impaurito dagli scenari post-89 ( i post-comunisti pidiessini, dal canto loro, reduci dalla Bolognina, si buttarono tutti nella trincea delle “riforme”, fornendo truppe e genieri). Amato, Ciampi, Maccanico, Dini, Prodi, e l’anima nera Draghi, sono figure di straordinaria durezza e determinazione storica; sono i rappresentanti italiani di interessi globali all’offensiva – la finanza anglosassone, i progetti franco tedeschi di evocazione del polo politico europeo, il rilancio post-guerra fredda della Nato. Sono privatizzatori di prima classe perché conoscono l’oggetto del privatizzare, per averne diretto settori importanti. Queste figure giganteggiano, rispetto ai balbettii sindacali. Sanno esattamente dove dirigere il timone della nave. Sanno anche che possono minacciarne l’affondamento, se giù, ai remi, la ciurma rematrice si manifestasse troppo riottosa, rispetto alla rotta di “modernizzazione liberale” che viene decisa nella cabina di comando. Questo non è un ceto politico di mediatori democristiani; i tempi sono cambiati, sono tempi di guerra, tempi di fuoco: basta rileggere il discorso che il “vile affarista” Draghi, tenne ai British Invisibles – il gruppo lobbista di interessi bancari e finanziari anglosassoni, che lo accolsero sul panfilo Britannia, in quella famosa, sciagurata gita passata alla storia. Pochi giorni dopo il massacro di Capaci, tra l’altro – a proposito del fatto che in questo paese se le transizioni di regime sono sempre una cosa assai seria.
La svolta strategica del sindacato verso una ricollocazione concertativa della sua organizzazione e delle sue culture interne, aprì un varco che per anni non ha mai smesso di allargarsi e che alla lunga ha prodotto una crepa terribile, nella propria credibilità sociale. Dagli accordi del 92/93 si passò in un lampo alla legge Dini nel ’95 – più o meno dentro il medesimo schema di rapporti di forze. Il sindacato confederale, disarmato e incaprettato, sotto la cappa del ricatto governativo (il bilancio INPS scoppia e se non accettate la riforma, non saremo più in grado di pagare le pensioni), collabora attivamente per dare veste democratica all’allungamento dell’età pensionabile e al taglio delle prestazioni. L’attacco alle “costituzioni antifasciste” – caldamente auspicato dal think thank di JP Morgan – in Italia si andava realizzando sotto i governi tecnici e di centro sinistra, con un ruolo attivo da parte della CGIL. Cosa chiedere di meglio?
Saltando da un accordo interconfederale all’ altro – man mano che si approfondiva la crisi della rappresentanza e si realizzava l’alternanza “a spartito unico” degli esecutivi – si giunge con Renzi all’epilogo-nemesi della disintermediazione: nello spazio di un mattino, quello stesso ceto politico che si era coperto per anni il fianco sinistro, grazie alla “complicità” dei confederali, esaltandone l’imperituro senso di responsabilità, dichiara morta e sepolta quella stagione e azzera ruoli, prassi consolidate e aspettative. La governance della crisi non ha più bisogno di coreografie partecipative.
La concertazione, con i suoi rituali e i suoi giochi di prestigio, è morta – e questo è un bene: ma che eredità lascia al movimento operaio organizzato? Il problema principale in casa CGIL è il deposito culturale, il lascito storico concreto, prodotto da un quarto di secolo di arretramenti concordati. Tutti i membri dei gruppi dirigenti che anagraficamente ballano tra i 50 e i 60 anni, hanno conosciuto esclusivamente il sindacato concertativo, ci sono cresciuti dentro, ci hanno costruito le loro carriere e la loro formazione di quadri sindacali è completamente interna a quella stagione. Una eventuale riconversione del profilo sindacale – un cambio di linea culturale e strategico – comporterebbe una torsione drammatica delle coordinate, anche biografiche, di questo ceto dirigente. Nonché una ristrutturazione dell’apparato e di diverse fonti di finanziamento. Una “rivoluzione culturale” francamente inimmaginabile, da parte di un gruppo dirigente che continua a vincere i congressi in una modalità ridicolmente plebiscitaria (solo i movimenti straordinariamente deboli o straordinariamente forti, si stringono con simili percentuali intorno ai propri capi – e come classificare la CGIL oggi, tra le due opzioni, è abbastanza intuibile).
A conferma di ciò, il dibattito di questi giorni sul salario minimo vede il più grande sindacato italiano, stagnare nel basso profilo di chi ha la coscienza sporca. Non solo per i troppi rinnovi in cui la firma del sindacato guidato da Landini, ha autorizzato stipendi indecorosi, classificabili nel girone dannato del “lavoro povero”, nonostante la formale correttezza del contratto collettivo nazionale. Ma anche perchè la CGIL, fino a poco tempo fa, rivendicava contrarietà alla definizione di una soglia minima salariale definita per legge: tanto da condividere con i padroni, nel 2019, il “Patto della fabbrica” – altra perla interconfederale – che intorcinandosi con i livelli di T.E.C.(trattamento economico complessivo) e T.E.M. (trattamento economico minimo), doveva neutralizzare ogni discorso sul S.O.M. (salario orario minimo: scusate gli acronimi, ma la fantasia dei compilatori di questi protocolli è contagiosa). Adesso la CGIL ha cambiato impostazione, ma anche qui senza una vera rielaborazione critica del suo dibattito interno sul tema. Tutto è improvvisazione, tutto è invenzione quotidiana alla ricerca di uno spazio di visibilità dentro il dibattito pubblico. Una svolta post-concertazione sarà impossibile, finchè permane in sella quella generazione di dirigenti che – nel corso dei propri seminari di formazione – hanno studiato che la concertazione salvò l’Italia.
Naturalmente la maggior parte delle lavoratrici e lavoratori italiani sindacalizzati mantiene ancora una tessera confederale in tasca – e questo per una somma di ragioni molteplici e intricate, diverse per categorie, territori, classi anagrafiche. E anche questo è un dato politico su cui ragionare, a meno che non lo si voglia sorvolare con nonchalance, sperando nei “tempi lunghi della storia”, refugium peccatorum per tutte le sconfitte della sinistra di classe. Il “che fare” per le avanguardie di classe sui luoghi di lavoro, non è affatto scontato e bisognerebbe parlarne con franchezza, senza settarismi e con un minimo di rispettoso distacco rispetto alle tifoserie organizzate.
L’evocazione della “responsabilità nazionale” è stato per un quarto di secolo una specie di malsano richiamo della foresta a cui i segretari CGIL hanno aderito supinamente. Fin dal 1992, è sempre mancato l’alto profilo ( e la trasparente assunzione dell’interesse di classe, fosse anche solo in chiave socialdemocratica e riformista), che avrebbe consentito, mediante una elaborazione autonoma, di resistere ai ricatti, alle minacce, al terrorismo catastrofista che è sempre stato al centro del programma liberale. Il fantasma mefitico della “responsabilità nazionale”, conserva radici antiche nel DNA della sinistra italiana. Se ne trovano chiare tracce nella lettura togliattiana di Gramsci, che pone la classe operaia italiana in un ruolo insostenibilmente pesante: farsi carico della “modernizzazione” che la borghesia non è in grado di portare a compimento; perché c’è sempre un Risorgimento da rinnovare, una ricostruzione democratica da definire, una Unita’ nazionale da completare, fino alla triste apologia dalemiana – proprio negli anni 90 – del “paese normale”, cioè della normalità tardo liberale che toccherebbe alla sinistra e ai ceti che rappresenta finalmente di realizzare.
Davanti al Moloch della “responsabilità” che abbiamo portato in processione sulle nostre spalle per decenni, non resta che dichiararci coscientemente e felicemente irresponsabili; almeno nella misura in cui lo sono oggi il sindacato francese, o quello belga, o quello inglese che – pur senza alcuna velleità rivoluzionaria -, con un pedigree meno politico e prestigioso del confederalismo nostrano, provano qua e là a fare, il loro mestiere di rappresentanti della prestazione lavorativa, senza tanti fronzoli e drammi esistenziali – e senza sentirsi sempre chiamati a salvare la Nazione cedendo pezzi importanti della vita dei loro iscritti. Siamo liberi. Siamo stati disintermediati. La Patria non ha più bisogno di noi.