Ippolita Luzzo, Il primo pezzo non si scorda mai. 10 anni di Regno della Litweb, Città del sole edizioni, Reggio Calabria, 2022, pp. 96, euro 12,00.
Il primo pezzo non si scorda mai. 10 anni di Regno della Litweb, uscito lo scorso anno, raccoglie alcuni dei pezzi scritti da Ippolita Luzzo nel 2012 e nel 2013 sul blog da lei fondato, appunto, nel 2012, “Il Regno della Litweb”. Si potrebbe cominciare ad analizzare questo libro dalla copertina che ci mostra la stessa Ippolita disegnata in una sorta di caricatura, con in mano un libro e una penna. Il disegno rimanda all’universo della satira, dell’irriverenza, dell’osservazione della società con distacco critico. Come nota lo scrittore e studioso siciliano Giuseppe Giglio nell’introduzione al volume, la parola “regno” ci conduce nell’immaginario della fiaba, ma una fiaba un po’ particolare, in cui “le regine e i re non sono i poeti e gli scrittori ma tutti i lettori”. Si tratta infatti di un regno che non si trova sulla Luna, come nel racconto ariostesco, e non è neppure fatto di marzapane o di pan di zucchero, né tanto meno vi si trovano “omini di burro” come nel “paese dei balocchi”. È un regno fatto di letteratura, ma di letteratura che si interseca e si connette strettamente con la vita di tutti i giorni e con le problematiche sociali quotidiane. Perché – continua Giglio – Ippolita “è un folletto, un arioso, ariostesco folletto di incontenibile curiosità”. E definire Ippolita come “blogger” sarebbe sbagliato perché lei stessa si trasforma in personaggio: lei non scrive “post”, ma “pezzi” nei quali entra lei stessa in prima persona, con il suo corpo e con la sua mente, con le sue gioie e le sue amarezze, ponendosi per certi spetti all’interno del solco tracciato dal personal criticism della critica femminista angloamericana.
Per mezzo del suo “regno”, Ippolita Luzzo spalanca una finestra sul mondo e lo guarda dalla sua ottica eccentrica, distaccata ma fino a un certo punto, come nella migliore tradizione dell’antica satira menippea, quel genere che si fa risalire alle opere perdute di Menippo di Gàdara (III sec. a.C.) e che fa sentire il suo influsso nelle opere di Luciano di Samosata, nell’Apokolokynthosis di Seneca e nel Satyricon di Petronio. Una critica che sì, fa sorridere ma che, in fin dei conti, appare venata di una certa amarezza. Come nel constatare, nel pezzo datato 10 agosto 2012, che “siamo un popolo di guardoni”, ormai preda di una ‘vetrinizzazione’ senza precedenti a causa di una “trasparenza” insita nei meccanismi autoimposti dei social. Una società – si potrebbe aggiungere – non troppo diversa da quella affrescata da Petronio nella cena Trimalchionis del suo Satyricon per la quale, come scrisse il fine latinista Marino Barchiesi, “la teatralità è divenuta un modo di esistenza” e in cui “l’individuo (quello che conta o che vuole contare) vive per vedersi vivere ed essere veduto”. L’autrice si scaglia poi contro l’omologazione socio-culturale nel pezzo intitolato Nel migliore dei mondi possibili, in cui il rimando al Candido di Voltaire si trasforma in una denuncia della società contemporanea rigidamente omologante: infatti, “nel migliore dei mondi possibili non è facile essere una donna, un uomo pensante”. Il pensiero mette in moto il meccanismo del dubbio, del “forse”, difficilmente rintracciabile in una società ‘vetrinizzata’ come quella contemporanea.
Ci si può ritrovare, allora, “spiaggiati sulle rive del web dopo la mareggiata”, come Ippolita scrive nel pezzo datato 31 ottobre 2012. Però, nelle parole dell’autrice non c’è soltanto disperazione, disillusione, rinuncia ad agire; risuona in esse, invece, la possibilità di fare qualcosa per rendere più ‘umane’ le nostre vite digitalizzate, anche e soprattutto “per i ragazzi che sono nati già qui spiaggiati, già qui da soli abbandonati con una bottiglia, con una lattina, con un cellulare”. Sempre all’alienazione provocata da un uso eccessivo del web e dei social è dedicato il pezzo dal titolo Dirlo a tutti per non dirlo a nessuno, al cui centro vi è la comunicazione dei sentimenti – anche quelli più intimi e privati – tramite i social a degli “amici” virtuali la cui durata è quanto mai effimera. Anche il dolore più terribile “lo urliamo nell’etere opaco del web” e si trasforma in “fotina”, in “messaggino”, in “mail”, in “Url da trascinare, da saper ricopiare nella frammentazione dei rapporti retati”.
Come possiamo capire da quanto detto finora, Il primo pezzo non si scorda mai non raccoglie solo e soltanto ‘banali’ recensioni di libri ma “pezzi” che, configurandosi positivamente come veri e propri outsider, come dialoghi aperti ai lettori che prendono le mosse dall’opera letteraria presa in esame, valicano i confini dei generi (alcune sono vere e proprie prose poetiche) e percorrono le vie del web in modo antitetico alle frasi e ai pensieri lasciati sugli alienanti social: se la parola “Litweb” rimanda all’universo della letteratura, quest’ultima si apre appunto come un universo, un mondo che racchiude in sé ogni singola sfaccettatura dell’esistenza, inclusi gli aspetti di tipo sociale, politico ed economico. Ed è così che fra i “pezzi” di Ippolita ne incontriamo anche uno intitolato La Beirut di questi anni che racconta come la sua città, Lamezia Terme, sia stata devastata non da una guerra sanguinosa, come è successo in passato a Beirut, ma da sventramenti, demolizioni che hanno lasciato spazio a nuove costruzioni e pavimentazioni ‘ultramoderne’ del centro storico, a blocchi di cemento che vorrebbero essere case costruiti su un lungomare dalla costa erosa di fronte a un mare violentato e inquinato. E allora si potrebbe pensare a quante “Beirut dei nostri anni” ci sono in Italia, centri storici deturpati, nuove costruzioni nate accanto a edifici medievali (come già denunciò Pasolini nel documentario La forma della città del 1974, in cui il poeta e regista inquadra con la macchina da presa un caseggiato cubico degli anni Settanta che svetta a pochi metri dalla silhouette storica del paese di Orte), vecchi palazzi abbattuti quando invece si sarebbe potuto restaurarli. Tutto in nome di uno sviluppo capitalista che non guarda in faccia a niente e a nessuno. Non posso allora non pensare a quanto è accaduto nella mia città, Livorno, dove i palazzi che non sono stati distrutti dai bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale (particolarmente intensi e micidiali sulla città) sono stati abbattuti dalle amministrazioni comunali, scelta certo più facile, dettata dalla rapidità consumistica imposta dal boom economico, piuttosto che procedere a un’attenta messa in sicurezza e al restauro. E, in tempi più recenti, con rammarico e rabbia, penso ai cinema – anche edifici di indubbio valore artistico e culturale – abbattuti per far spazio a parcheggi e palestre. Cinema frequentati nella mia infanzia e nella mia adolescenza, cinema dove ho visto film importanti per la mia formazione: abbattendoli, hanno inesorabilmente portato via per sempre anche delle parti di me.
Le stesse recensioni, nel volume di Luzzo, si trasformano in denuncia militante, come in quella che prende in esame Scrivere polvere, romanzo di Daniele Semeraro che affresca la condizione di un Sud Italia abbandonato a sé stesso o, meglio, abbandonato a un sistema che lo sfrutta solamente in funzione del consumo; un Sud che ancora continua a palpitare della sua anima semplice e gentile “sotto la coltre del consumo, dei centri commerciali, dell’arroganza del potere”. Parlando di recensioni e di letteratura, l’arroganza del potere è poi anche quella dei “giornalisti affermati”, quei Catoni superciliosi che dispiegano le loro idee e opinioni (non per nulla si parla di ‘opinionisti’) dalle colonne dei giornali cartacei (e delle loro rubriche di letteratura, vere e proprie inarrivabili cattedrali aperte solo a baroni e baronetti accademici) e che si pensano superiori a chi scrive sul web. Perché, nota Ippolita, “noi, gli altri, possiamo scrivere come voi esattamente come voi, giornalisti affermati. Possiamo scrivere di tutto, anche di cazzate, esattamente come voi, meglio di voi, quanto voi. Ecco perché, carta stampata, non è vero che non ti amo più, … Ti amo e ti odio… come Catullo”.
Infine, a decretarne l’aspetto comunicativo e anche comunitario, in chiusura del volume incontriamo una “Postfazione con voi tutti”, in cui Ippolita dà voce ai suoi lettori che le hanno inviato un contributo. Ricordo qui quello scritto da Giuseppe Torchia, che definisce Ippolita Luzzo come “il Grillo Parlante di Lamezia Terme” così continuando: “‘Loro’ fanno finta di nulla… ma tu ‘ci sei’ più di loro”; una frase dai toni epigrammatici che mi fa pensare proprio a un epigramma di Pasolini, indirizzato “Ai nobili del circolo della caccia” che così suona: “Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini: / ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini”. Ecco, allora potremmo pensare che nel fiabesco Regno della Litweb, fra le altre cose, si possa trovare anche una pozione magica, un antidoto per resistere a tanti “vecchi pecoroni papalini” dei giorni nostri.