di Franco Pezzini

La New Forest – già sito del regno juto di Ytene, poi foresta reale fin dai giorni di Guglielmo il Conquistatore, circa 1079 – è una delle aree più ampie di boschi (il navigatore satellitare in certi punti si ingrippa), brughiere lunari e pascoli indivisi dell’Inghilterra meridionale: un giro in zona resta di estrema suggestione. Per gli amanti dei gialli storici, qui, vicino a Brockenhurst, il 2 agosto 1100 finì accoppato in un misterioso incidente di caccia re Guglielmo II Rufus figlio del Conquistatore. Estremamente implausibile, con buona pace di Margaret Murray, che si sia trattato dell’arcaico sacrificio del sovrano di sopravvissuti rituali pagani; più gettonata l’idea dell’assassinio di un re di cattiva fama, la cui fedina morale gronderebbe brutture. In ogni caso nella foresta, nel luogo presunto del fattaccio a poca distanza dal villaggio di Minstead, sorge (e all’inizio facciamo un po’ fatica a identificarla) la Rufus Stone, o meglio un monumento memoriale del 1841 che sostituisce l’originario e mutilo.

Guglielmo Rufus verrà poi tumulato nella Winchester Cathedral. Però a proposito di tombe e di mystery, proprio Minstead richiede assolutamente un pellegrinaggio da parte dei lettori affezionati, in quanto luogo di ultimo riposo di Sir Arthur Conan Doyle. Così dopo una notte di umido e pioggia a Brockenhurst, sotto il cielo nuvolo del mattino puntiamo verso il cimiterino di Minstead, parcheggiando nel posteggio più prossimo, davanti al pub The Trusty Servant.

Dove notiamo una figura particolarissima, satirica, a insegna del locale, a firma di tal P. J. Oldreive, specializzato in immagini per locali pubblici. Vi si vede un uomo abbigliato in abiti settecenteschi, ma con orecchie d’asino, muso di maiale serrato da un lucchetto, zampe di cervo e un po’ di ammennicoli stretti nella mano sinistra. È evidente qualche antico legame con il Winchester College, che fuori dalla cucina vanta dipinta (dal 1579 per mano di John Hoskins, anche se la versione attuale è di William Cave, 1809) una creatura molto simile. Anzi là un componimento latino chiarisce la simbologia del Trusty Servant, il Servitore Fidato: ecco pazienza (l’asino), rapidità (il cervo), mancanza di pretese nella dieta (il muso di maiale), discrezione (il lucchetto), operosità e difesa del padrone (pennello, pala e forchettone nella sinistra, spadino al fianco). La bizzarra creatura di Winchester viene detta – almeno da Arthur Cleveland Coxe (1818-1896) in avanti – ircocervo, dal capro-cervo degli antichi autori greci, assurto nel Novecento a simbolo di assurda irrealtà, soprattutto in campo politico, con Benedetto Croce e Antonio Gramsci.

Tratteniamo la suggestione e muoviamoci. Per arrivare alla chiesa di All Saints c’è solo qualche passo: varcato il cancelletto con tettoia e girato attorno all’edificio, la tomba di Sir Arthur (“cavaliere / patriota, medico e uomo di lettere”) si trova facilmente, sormontata com’è da una grossa croce di pietra. Nel silenzio del cimiterino, grazioso e fiorito come in genere quelli inglesi, tributiamo così omaggio e un momento di silenzio a questo mattatore dell’immaginario: e mi pare un luogo adeguato per ricordare non solo il padre dell’Arcidetective Holmes – che la causa di morte di Guglielmo Rufus a poche miglia di qui l’avrebbe senz’altro chiarita – ma l’apostolo dello spiritismo. E per aprire la bella edizione della sua The History of Spiritualism apparsa nel 1926, dedicata a “Sir Oliver Lodge, gran maestro nelle scienze fisiche e psichiche” e riproposta oggi da Venexia, Storia dello spiritismo. Antologia illustrata con traduzione di Angelo Airò Farulla (pp. 204, € 22, Roma 2023). Una lettura in qualche modo agiografica dove in luogo dei miracoli si susseguono altri eventi più o meno meravigliosi e i profili di sensitivi appaiono aureolati – talvolta attraverso persecuzioni, nella loro testimonianza/martirio – in vista di una nuova e più felice alba dell’umanità.

Le foto sono bizzarre o struggenti: la morte a ventisei anni del figlio di Doyle, Arthur Alleyne Kingsley – un bel ragazzo che vediamo nella divisa della guerra e poi presuntamente in forma ectoplasmatica accanto al padre che garantirà di averlo riconosciuto – finisce così col raccordarsi con le radicate convinzioni spiritualistiche di Sir Arthur.

La panoramica è di estremo interesse, tanto più per vedere cosa all’epoca si racconti di personaggi presentati in modo un po’ diverso dalla critica recente. Procedendo troviamo così l’incredibile inventore/profeta Swedenborg, Edward Irving e i quaccheri millenaristi shaker passati dall’Inghilterra al Nuovo Mondo, Andrew Jackson Davis “profeta della nuova rivelazione”, i fatti di Hydesville e la resistibile carriera delle sorelle Fox. Seguono i primi sviluppi in America (Thomas Lake Harris, Robert Hare, Hardinge Britten…), l’alba inglese e le nuove avventure del movimento, editoriali e non (riviste spiritiste, polemiche…); le figure di Daniel Dunglas Home, dei fratelli Davenport, di Sir William Crooks, dei fratelli Eddy e degli Holmes, di Henry Slade e del dottor Monck, di Eusapia Palladino e dei grandi medium 1870-1900. Successivamente Doyle affronta i temi “caldi” dell’ectoplasma e della fotografia spiritica, di medianità vocale e impronte; poi le declinazioni francesi (Kardec & dintorni), tedesche (du Prel) e italiane (Mazzini, Garibaldi, Lombroso, Bozzano, Morselli…). Il cap. 20, conclusivo, si intitola Alcuni grandi medium moderni (e alcune esperienze personali dell’autore), e mette le mani avanti:

 

La descrizione delle manifestazioni fisiche prodotte da un’intelligenza esterna spesso rischia di diventare un po’ monotona, dal momento che gli eventi assumono costantemente forme stereotipate di natura limitata; forme che, d’altro canto, sono ampiamente sufficienti allo scopo, ovvero dimostrare l’esistenza di poteri invisibili, sconosciuti alla scienza della materia.

 

Segue una piccola galleria di volti di medium conosciuti di persona, qualche appunto sulla tipologia dei fenomeni (spesso “Voce diretta, indipendente dagli organi vocali”, ma molto rare materializzazioni; apparizione di volti fantasma in macchie di luce, “Sembrerebbero delle semplici maschere”, forse – verrebbe da dire – lo sono; i cosiddetti apporti, eccetera) e un’appassionata apologia dello spiritismo. Cui l’autore si dedica da decenni (cfr. qui e qui) prima che la legione di morti della Grande Guerra, compreso appunto il figlio, faccia moltiplicare i tavolini del dolore. Si è spesso rimproverato a Doyle, padre del rigoroso Holmes, la credulità con cui affronta lo spiritismo – e il fatto che registri anche casi di frodi non cambia radicalmente le cose. La dignità con cui difende il suo credo gli fa onore, ma non basta a convincerci. Tanto più che una cosa è ammettere l’esistenza di fenomeni bizzarri, da chiamare “spiriti” per insufficienza nomenclatoria; altro è imbullonare tutto ciò in un complicato sistema religioso e morale costruito più o meno a ricalco di un vago cristianesimo. Sembra in effetti di individuare una categoria epocale sottostante dell’“I Want To Believe” più forte dei pur nobili sforzi di oggettività dell’autore: qualcosa come un desiderio perduto tra le pieghe del positivismo.

Si può in generale condividere quanto scrive nell’introduzione Battere i materialisti sul loro stesso terreno – da un’espressione dello stesso Doyle – il traduttore Farulla a proposito dello spiritismo come il “movimento religioso più essoterico e scientista che si conosca, sorto dal connubio più antiscientifico e antispirituale che la cultura moderna abbia mai prodotto” – (un unico sobbalzo è quando Farulla sostiene tout court che “l’illuminismo fu infiltrato di occultismo ed esoterismo”, senza distinguo tra impianto teorico dei Lumi e coevi illuminatismi, al di là di certe equivoche esperienze di loggia). Ma è pur vero che la chiave interpretativa più esplicita alla dimostrabilità positiva della metafisica nella dottrina spiritista la troviamo a pochi passi dal cimiterino dove stiamo rendendo omaggio a Doyle: quella proprio dell’ircocervo, in questo caso composito implausibile di scienza e fede. In un’epoca in cui creazionismi e giochi più ambigui di sponda tendono oggi a rimixare le carte, nel tripudio teocon, difendere da un lato la laicità della scienza, e dall’altro quel libero arbitrio che per il credente è scommessa della propria esistenza su qualcosa di indimostrabile, delinea la vertigine di un rischio che è libertà e inevitabile, faticosa adultità. Trucchetti, scorciatoie o forzature dialettiche aprono le porte all’ircocervo: danneggiano gli interessi della scienza e quelli stessi di una fede onesta.

Animal noto, per altro verso, all’antropologia politica che dal Novecento in avanti l’ha visto combinare la protome suina con altre connotazioni bestiali – a partire dall’ibridissimo ircocervo fascista. Fino a casi molto più recenti, in cui entità politiche ringhiosamente poliziottesche e centralizzanti hanno assunto – per esempio in tema vaccinale – connotazioni libertarie di comodo, un certo approccio bullista si sposa alla lamentosità, e le contestazioni in sede pubblica vengono presentate come intolleranza da soggetti che proprio su una comunicazione aggressiva hanno costruito la propria fortuna istituzionale.

Tutte considerazioni che non permettono di giudicare l’uomo del suo tempo Doyle, che crede genuinamente nel beneficio collettivo della causa spiritista: ma che fa riflettere su quanti ircocervi dai connotati stridenti zoccolino qui e là ai giorni nostri, funzionali a intruppare come trusty servant di istituzioni, interessi e feticci di potere.