di Giorgio Bona
Ci sono molti racconti sulla morte di Francesco De Michelis alias Ël Biondin, il leggendario brigante delle risaie che agiva nelle piane tra il vercellese e il novarese, ma nella finzione romanzesca il racconto della vita e della morte di questo personaggio popolare non illumina i molti dubbi su come si svolse realmente il conflitto tra le forze dell’ordine e il bandito.
Dopo quasi 120 anni i resti del brigante sono stati rimossi dal vecchio cimitero di Carisio, luogo dove fu ucciso durante una sparatoria con i carabinieri.
Era senza una lapide o un qualunque segno che ne indicasse la presenza. Tra le ossa mancava la testa perché consegnata al luminare di criminologia Cesare Lombroso.
Nessuno meglio di Francesco De Michelis passato alla storia come Ël Biondin, il bandito delle risaie, poteva mettere in discussione le teorie di Cesare Lombroso. Lui che, come dice la leggenda, bandito o gentiluomo di risaia, visse i suoi 34 anni sbeffeggiando le autorità, si concesse il piacere di deriderle anche da morto.
Davanti al suo cadavere, ucciso dopo un conflitto a fuoco quel 7 giugno del 1905 dal carabiniere Raffaele Soverini, i frenologi si adoperarono smuovendo mari e monti per misurargli il cranio e dimostrare che la sua forma conteneva tutto il disegno di una vita criminale.
E così, affidandosi a Cesare Lombroso rimasero con un palmo di naso. Da indagini eseguite e rilevamenti fatti, la regolarità di involucri, emisferi e sostanza cerebrale si presentava perfetta e non traspariva alcuna anomalia atta a giustificare l’indole violenta e crudele.
Nel 1903 era descritto dal Corriere della Sera come il famoso bandito dall’occhio di lince e dall’astuzia felina, amico della povera gente e inguaribile amatore durante le stagioni della monda, adorato dalle lavoratrici del riso.
Bisogna riconoscere che la letteratura non si è tirata certo indietro dal raccontare il fenomeno del brigantaggio portando le storie dei briganti sul piano leggendario e del mito. E una simile operazione la farà quella sorta di letteratura popolare che è il fumetto, trattando il brigante come un Robin Hood che rubava ai ricchi per restituire il maltolto ai poveri.
Quando Ël Biondin fu ucciso, il corpo rimase a faccia in giù nell’acqua della risaia. L’inviato del Corriere racconta che durante il trasporto al camposanto l’equipaggio funebre fu letteralmente preso d’assalto dai contadini che salivano sul carro e scoprivano il cadavere per vederlo. Incessante e continuo fu il pellegrinaggio dei curiosi venuti dai paesi vicini che per giorni e giorni si recarono nel luogo di sepoltura.
Ciò detto sulla popolarità raggiunta in vita dal personaggio, ciò che non emergeva in letteratura era l’aspetto feroce e violento di una certa società, soprattutto in questa terra di risaie, dove il grande sogno socialista costituiva una chimera, sì raggiungibile, ma che sarebbe costata lacrime e sangue.
Allora superiamo la leggenda, quella di Ël Biondin che con un solo salto superava i quattro metri del Naviglio, che irrideva i carabinieri tagliando i finimenti dei loro cavalli e, ancor meglio, che donava il bottino a un affittuario che non riusciva a pagare il padrone, per poi depredare il padrone medesimo e riprendersi i soldi.
Ël Biondin violento lo fu nell’arco della sua esistenza. Visse in un’epoca in cui era violenta la povertà quando il piatto piangeva, violento era il lavoro nei campi che iniziava da bambini… violente soprattutto le lotte tra il movimento contadino e operaio e il potere padronale. Violente furono le cariche di cavalleria per sedare gli scioperi.
Quel mondo Ël Biondin lo visse fino in fondo. Un mondo in rivolta tra quelle distese di risaie dove il lavoro era fatica, sudore, vite grame, stronzi duri da cagare, mano d’opera femminile oltre i limiti umani dello sfruttamento. E da queste terre nacquero i grandi conflitti per il riconoscimento delle otto ore di lavoro, il primo in Europa.
Allora il brigantaggio non veniva visto soltanto come un fenomeno di criminalità, mentre diventa necessario allargare lo sguardo al brigante come il Robin Hood che rubava ai ricchi, in chiave di grande riscatto sociale contro la prepotenza padronale, contro lo sfruttamento e per affermare i diritti del lavoro. Conquiste che verranno alcuni anni dopo ma che in quegli anni misero un solido tassello, difficile da rimuovere.
Pochi mesi fa i resti del Biondin rischiarono di finire in un ossario comune, perché il Municipio di Carisio cancellava i tumuli senza famiglia. La Pro Loco del paese reclamò la salma e acquistò un loculo garantendosi l’impegno di un artista come Romano Paglierini che si adoperò a illustrare la lapide.
Ma tutto ciò avviene in quelle terre del vercellese dove sono stati riconosciuti sacrosanti diritti, dove il mondo del lavoro si è mobilitato tutto, da quello agricolo, ai siderurgici alle piccole imprese artigiane.
Il giornalista Giuseppe Bevione scrisse dunque un articolo vibrante e deciso: a questa vittoria del proletariato hanno concorso parecchi fattori: l’imponenza del movimento, il lavoro nelle risaie è un lavoro terribile. I vercellesi lo sanno, loro che hanno davanti agli occhi ogni anno corti di fanciulle a primavera fiorenti e colorite o squadre di uomini che sembrano gettati nel bronzo, cercare l’ospedale, scarni, tremanti, con gli occhi lucidi e il viso terreo per le febbri delle paludi. E i vercellesi sanno altro, sanno che molti fittavoli in pochi anni hanno arrotondato il loro patrimonio…
E dopo quasi 120 anni una commemorazione organizzata dal comune di Carisio con il Comune di Villanova, luogo di nascita del Biondin: ecco che non si parla di un bandito feroce, un ricercato vivo o morto con due taglie sulla testa, ma si può andare oltre, perché in queste terre il Robin Hood della risaia è diventato leggenda e anche riscatto sociale.
Era bravo il Biondin con i poveri
E cattivo lui era coi padroni
I suoi amici eran ladroni
E nel cuor una pietra non c’è.