di Mauro Baldrati
I segni dell’amore – passato brevemente in alcune sale dall’11 maggio – è un interessante, riuscito connubio tra durezza e levità, mancanza di pietà e compassione, guerra e poesia. Come ha detto l’attrice protagonista Zoë Bleu Sidel alla prima di Bologna, rappresenta un aspetto molto attuale della vita in America: la guerra per la sopravvivenza, con lo spettro della povertà che incombe. Per cui è necessaria la massima dose di energia, per reggere lo stress, l’ansia di perdere il lavoro, e quindi la sanità, la casa, la scuola per i figli. Da qui l’uso intensivo di droghe, compreso l’alcol, con le relative dipendenze (e quindi lo spaccio).
Ma non vi è nulla di didascalico, a parte qualche frammento di dialogo in cui i personaggi tentano di giustificare il degrado in cui sono sprofondati. La storia scorre, la tenerezza e l’amore riescono a garantire la tenuta di questi personaggi estremi ma anomali, relitti di una periferia desertificata che cercano di salvaguardare il proprio lato umano. Apparentemente non c’è speranza per questi top boys di velluto che spacciano anfe senza toccarla. Eppure non perdono la dignità, non uccidono il proprio animo gentile e persino generoso.
Il protagonista, Frankie, interpretato da Hopper Penn, figlio di Sean, è un ragazzo magrissimo che non sorride mai, vaga tutto il giorno con lo skate per le strade del quartiere Port Richmond di Philadelphia. Ogni tanto si ferma e aspetta. Aspetta i clienti. Spaccia, fa parte di una piccola banda di strada. E’ una specie di piccolo imprenditore dello spaccio, un lavoro come un altro che gli permette di pagare l’affitto dell’appartamento dove vive con la sorella, Patty (che è davvero sua sorella nella vita, Dylan Penn) e il figlio quindicenne di lei. Patty è forse il personaggio più negativo di tutto il cast. Alcolista, sappiamo che ha costretto Frankie a spacciare quando lui aveva solo quindici anni, ed ora sta cercando di fare lo stesso col figlio. Ma Frankie si oppone, è disposto a tutto pur di impedire al ragazzino di imboccare la sua strada maledetta. Deve studiare, trovare un lavoro; deve “realizzare i suoi sogni”.
Frankie mantiene un rapporto col padre, un tossico che ha lasciato la famiglia dopo la morte della madre, che incontra una volta alla settimana in una tavola calda, per offrirgli il pranzo. Il vecchio fa lo sbruffone, sempre ripreso dalla titolare (con la quale, sembra di capire, ha avuto una storia), interpretata dall’attrice icona del cinema americano anni Ottanta, Roxanna Arquette, la quale nella vita reale è la madre di Jane, ovvero Zoë Bleu Sidel, che sta per arrivare.
E infatti, quando Jane fa la sua comparsa sulla scena, fotografando Frankie che bivacca appoggiato a un parapetto guardando nel vuoto, la vita del ragazzo cambierà. Glielo dice quel guascone del padre: “Sei cambiato, come mai?” e Frankie: “Perché?” “Perché arrivi saltellando”. Già, è l’amore, che cambia la vita e il carattere.
Jane non è del tutto normale, o meglio, normodotata. E come potrebbe esserlo in quella parte di mondo sghembo? Come potrebbe innamorarsi di uno come Frankie, lo zero più zero di una tabellina senza numeri? Jane è sorda, e quindi non parla. Legge il labiale di Frankie e gli insegna la lingua dei segni. La loro storia d’amore è lieve, poetica, che ingentilisce le vedute di strada e le riprese aeree di quella distesa a perdita d’occhio di scatole che chiamiamo “case”.
Una storia veloce, che sembra allungare la sua carezza anche sugli altri personaggi, i due soci black di Frankie, che lo chiamano negro anche se è bianco, come se fosse un “fratello”. Il quale continua con la sua vita di pusher, con le sue durezze, i suoi piccoli grandi crimini. E con la sorella Patty sempre più scoppiata, schiava della sua dipendenza.
Jane lo invita anche a casa sua, per fargli conoscere i genitori. Abita in un quartiere benestante, di cui vediamo però solo l’aiuola fiorita dell’ingresso, senza altre esibizioni di ricchezza o lusso. Frankie racconta un sacco di balle, che altro potrebbe fare? Lavora per l’azienda di un amico, e anche lui ha un sogno: assistere gli adolescenti disadattati.
Forse la vita sta cambiando? Potrebbe cambiare? Difficile sfuggire al proprio karma. Ci sta attaccato come le ali di un angelo spietato e incorruttibile. Un giorno che va a trovare Jane a casa viene a sapere che il il padre di lei, che è un esperto informatico, ha scovato la sua scheda penale, e ora è a conoscenza dei precedenti per aggressione e spaccio. Inoltre Jane deve trasferirsi nel Michingan, per frequentare l’università con un professore sordo come lei. Frankie ammette di essere un piccolo delinquente, e le chiede come mai non gli ha mai parlato del Michingan. Lei gli risponde: “Perché ti amo”. L’amore per un attimo sembra vincere su tutte le difficoltà, tutte le opposizioni che la vita ci oppone. Ma non è così. La storia piuttosto vira verso un amore perdente, anche se non rinuncia a un solo grammo della sua intensità. Frankie capisce che, dietro le continue dichiarazioni di amore di Jane, che sembra decisa a non trasferirsi più nel Michingan, non c’è futuro. Lui sarebbe solo un ostacolo alla realizzazione del suo sogno. Così, pur amandola di un amore che avrebbe potuto essere eterno, la lascia, con male parole, chiamandola “povera sorda handicappata”, per non farla soffrire, per staccarla da lui, il quale è solo un povero motherfucker.
Col giusto finale potrebbe essere un ottimo film, un’opera indipendente e interessante, per la scrittura cinematografica raffinata, con movimenti di macchina veloci, la fotografia che a tratti ricorda gli anni Settanta, i primi piani intensi dei personaggi, perfettamente calati nelle parti. In effetti un finale ci sarebbe, e sarebbe perfetto: un altro spacciatore della banda di Frankie, Stefan, ha rifornito Patty di pasticche, che lei ha passato al figlio perché diventi a sua volta un pusher Infatti Frankie, dopo l’esperienza con Jane, ha deciso di ritirarsi dal mestiere. Già, e come pagheremmo l’affitto? Ribatte Patty. Frankie, furioso, intima a Stefan di stare alla larga da suo nipote, ma l’altro lo sbeffeggia. Allora afferra una pietra e lo tramortisce (anche se sul momento pensiamo che l’abbia ammazzato). Poi, alcune scene più in là, mentre Frankie cammina o va sull’immancabile skate, e il nipote lo vede, da lontano, e Stefan lo raggiunge alle spalle con una pistola, per vendicarsi, e allora il ragazzino inizia a correre per avvertire lo zio, ma Stefan lo raggiunge con la pistola puntata, e sta per sparare, e qui tutto si blocca, tutto si spegne e lo schermo diventa nero; ecco, qui il film sarebbe finito. Un finale tronco, nervoso, ma aperto. Un finale coraggioso, identico a quello del Partigiano Johnny. Johnny si salverà o verrà falciato dai fascisti? E Frankie si salverà o sarà abbattuto da Stefan? Tutto è possibile, o ognuno di noi può scegliere l’opzione ch preferisce.
Invece no. Né il regista Clarence Fuller né gli sceneggiatori hanno avuto il coraggio. Gli hanno appiccicato una coda più rassicurante, più prevedibile: un finale di redenzione, dove tutti cercano, e raggiungono, un riscatto dalle loro vite bruciate. Frettoloso e un po’ stucchevole. Per cui quando la scena arriva, e termina bruscamente su Stefan con la pistola puntata, il consiglio allo spettatore è: alzati e cammina, il film è finito. Oppure, più probabilmente, disconnettiti dallo streaming, visto che la distribuzione nelle sale è stata breve, ed è già terminata.
Nella foto: gli attori Hoopper Jack Penn e Zoë Bleu Sidel alla prima di Bologna del 13 maggio