di Paolo Lago
Fabio M. Rocchi, La disputa sul raki e altre storie di vendetta, Besa Muci, Nardò, 2021, pp. 191, euro 15,00.
Parafrasando il titolo di un suggestivo pamphlet di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile (titolo che prende spunto da una frase che Picasso pronunciò di fronte al quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo), si potrebbe affermare, invece, che un certo neo-neorealismo è possibile. Intendendo con l’azzardata espressione “neo-neorealismo” un modo stilistico che per alcuni aspetti prende le mosse da quell’inesausto campo di discussione culturale che è stato il neorealismo, la cui esigenza era di uscire dalle formule letterarie del ventennio fascista e di opporvisi: una discussione e una produzione di arte e di cultura, quindi, ben radicate in solide prerogative antifasciste. La convinzione che sia possibile si rafforza dopo la lettura della raccolta di racconti di Fabio M. Rocchi, “La disputa sul raki e altre storie di vendetta”. Se, probabilmente, non è più possibile guardare con occhio ‘neorealista’ a un territorio come quello italiano, ormai deturpato da sguardi estetizzanti e ‘borghesizzanti’ – incentrati appunto su una classe borghese ed alto-borghese – sia nella letteratura che nel cinema (ad eccezione, forse, delle opere di Claudio Caligari e di alcune pellicole di Matteo Garrone, di Emanuele Crialese e dei fratelli D’Innocenzo), è necessario rivolgersi a territori marginali, nel sud e nell’est del mondo. Ma anche a quelli più vicini in cui il concetto stesso di Europa e di benessere europeo si sfalda, quei “confini dell’impero”, per utilizzare il titolo di un bel libro del giornalista free lance Giuseppe Ciulla nel quale sono descritti “5000 chilometri nell’Europa dei diritti negati”: diritti civili, sociali e sul lavoro. Basta spostarsi a est, laddove è crollato su sé stesso il grande pachiderma sovietico lasciando soltanto rovine da dare in pasto al capitalista occidentale più cinico e spregiudicato.
Fra tali territori c’è anche l’Albania, che l’autore sceglie di declinare all’interno delle varie narrazioni in due momenti temporali diversi: la seconda metà degli anni Novanta, quando il paese era uscito da poco dalla dittatura e molti albanesi erano immigrati in Italia, attratti dalla ricchezza occidentale e gli anni più recenti, in cui l’Albania sta conoscendo un progressivo ingresso nel benessere europeo. Il paesaggio che fa da sfondo alle vicende sembra però non essere cambiato: campagne, colline, montagne brulle e spoglie, un universo di contadini e allevatori in cui sorgono misere abitazioni isolate o fatiscenti caseggiati in strade periferiche solcate da vecchie e scarburate Mercedes. È un territorio devastato da anni di dittatura non troppo dissimile dall’Italia, che negli anni Quaranta emergeva stremata dalla guerra e da un’altra dittatura, per come è stata raccontata da Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Carlo Levi e Ignazio Silone. L’Albania è un luogo divenuto terra di nessuno, in cui gli stessi abitanti si sentono soli e disperati, legati ad un universo arcaico e ancestrale, venato da tradizioni obsolete e crudeli come il crudo rituale della vendetta, che nei racconti compare nei modi più diversi ed anche solamente allusivi, una vendetta proveniente da una terra brulla e crepata dal sole. Su questo panorama si distende lo spettro di un benessere solo intravisto e poi raggiunto tramite l’emigrazione in Italia o in altri paesi europei. È soprattutto l’Italia il fantasma del benessere più vicino e incombente per molti albanesi che vi si recano per cercare fortuna, per lavorare anni ed anni in interstizi di crudeltà e di miseria.
Emergono allora personaggi cresciuti nella povertà e nella violenza, orgogliosi, coraggiosi e ostinati come il loro eroe nazionale, Giorgio Castriota Skanderbeg, il principe albanese che nel Quattrocento guidò il paese contro l’occupazione turco-ottomana fino ad entrare nella leggenda. Come Danush, protagonista del racconto Bulloni, che senza battere ciglio percorre fino in fondo il sentiero della sua vendetta, senza ripensamenti o pentimenti. È interessante anche il modo in cui molti di questi personaggi si esprimono. L’autore, dando loro voce, mette in scena un discorso indiretto libero di matrice verista nel quale spesso si incunea una regressione linguistica fatta di frasi brevi e spezzate, pensieri che si rincorrono secondo logiche astruse e irrazionali. Parlano e pensano così molti dei personaggi che si incontrano nei racconti: Danush; il tassista Gaz che vuole imbrogliare l’io narrante, un ingegnere idroelettrico italiano che fa costruire una diga a Peshnamar, mutando e ‘occidentalizzando’ il territorio rurale albanese; Aferdita, che per vendicarsi sceglie un “imbutino”; Arti, che si immerge nel benessere di Francoforte per andare a trovare la sorella, che lì era emigrata; i fratelli del racconto Non si decide a morire; Theo, Mehmet e Arben che si ritrovano, insieme all’io narrante italiano, per una “disputa sul raki”. Nelle narrazioni allestite da Rocchi (forse con l’unica eccezione di Il festival internazionale delle letterature, riuscita satira del mondo accademico) incontriamo quindi personaggi rivestiti di una “vita violenta” e predisposti quasi naturalmente a difendere il proprio onore e la propria rispettabilità, anche a costo di atroci vendette. Il riferimento pasoliniano alla “vita violenta” (espressione che riprende il titolo di un romanzo di Pasolini del 1959) non è casuale: nella raccolta Nuvole corsare, uscita nel 2020, che raccoglie racconti di diversi autori ispirati all’opera e alla figura di P.P.P., Fabio Rocchi inserisce infatti un altro racconto incentrato su una storia di vendetta, La catana, nel cui titolo viene esplicitato (come in Bulloni o L’imbutino) l’oggetto mediante il quale il personaggio progetta di vendicarsi.
Per concludere, si può pensare che nello stesso titolo della raccolta (che, in parte, è anche il titolo dell’ultimo racconto) siano presenti tracce di quello che qui è stato arditamente denominato “neo-neorealismo”. Innanzitutto c’è la parola “disputa” che rimanda a una sfida, a un duello, una parola che però appare immediatamente associata al termine “raki”, che indica una bevanda alcolica turca all’anice ed anche un distillato di vinaccia greco e albanese. Esso appartiene ad un contesto decisamente più ‘basso’ che, appunto, abbassa la dimensione della disputa. Infine, c’è la parola “vendetta” che spicca nella sua assolutezza. Quella disputa, quindi, non potrà essere una semplice discussione ma un vero e proprio duello, uno scontro, una sfida che, per l’appunto, si viene a creare fra un turco, un greco e un albanese. Come quarto incomodo c’è anche un italiano, l’io narrante, che si fa portavoce della più nostrana grappa, parola che, come il raki, indica una bevanda alcolica di carattere popolare. E se spesso molti racconti mettono in scena un incontro o un avvicinamento fra un italiano che per i motivi più svariati si è trasferito in Albania, e un albanese, i risvolti vendicativi che segnano questi incontri corrono invece nella direzione di una fratellanza. Se negli anni Novanta erano stati gli albanesi a venire in Italia, negli anni Dieci sono invece gli italiani a cercare fortuna in Albania, dove magari trovano coloro che erano stati ex emigrati in Italia. Ecco che, come notato, si stabilisce un clima di aiuto reciproco non certo ignoto a molta tradizione neorealista. Alla fine, nel bene e nel male, a trionfare è una fraternità che accomuna i personaggi, di qualsiasi nazionalità essi siano, e li fa sentire vittime inconsapevoli di un cinico sistema che con il suo violento macchinario produttore di merci e ricchezze ingloba le loro esistenze.