di Gioacchino Toni
Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00
Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.
Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.
L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.
Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.
L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).
A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).
Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.
L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).
Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).
La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).
Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.
A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.
Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.
L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.
Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).
Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).
Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).
Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.
Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).
L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.
L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).
L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).
Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.