di Francisco Soriano
Come volevasi dimostrare: finalmente l’orgoglio nazionale, la difesa dei confini e l’ardua trincea scavata a protezione dell’identità linguistica partorita dallo spirito romano sono diventati i riferimenti valoriali del nostro Paese! Tutto grazie ai fratelli nostrani rappresentati, in questa ennesima boutade retorica, dal ministro Fabio Rampelli. La proposta di legge a firma del su citato deputato di Fdi e vicepresidente della Camera (in merito al divieto dell’utilizzo di anglicismi nella lingua italiana), se fosse attuata, stabilirebbe che la violazione degli obblighi comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 a 100.000 euro.
Pronta è stata la risposta in merito alla validità di questa iniziativa governativa: è intervenuta la maggiore istituzione in Italia che studia, propone, analizza e manifesta anche le “crisi” del nostro idioma, l’Accademia della Crusca, così esprimendosi: la proposta di sanzionare l’uso delle parole straniere per legge, con tanto di multa, come se si fosse passati col semaforo rosso, rischia di vanificare e marginalizzare il lavoro che noi, come Crusca, conduciamo da anni allo scopo di difendere l’italiano dagli eccessi della più grossolana esterofilia, purtroppo molto frequente. Lo stesso professor Claudio Marazzini, Presidente della su citata Accademia, ha infine sottolineato che l’eccesso sanzionatorio esibito nella proposta di legge rischia di gettare nel ridicolo tutto il fronte degli amanti dell’italiano.
A onor del vero, il dibattito riguardante la lingua italiana è spazio di confronto-scontro che origina diatribe sin dai tempi antichi. Pertanto, ci sentiamo di poter dire che, in modo assolutamente legittimo e indipendentemente dalle esternazioni di un ministro che testimonia uno spirito sciovinista e identitario tipico del suo schieramento politico, la polemica sugli anglicismi non può che suscitare analisi e prese di posizione doverose e assolutamente interessanti. Le ultime statistiche ci dicono che dall’anno 2000 a oggi, l’inserimento di parole inglesi nell’italiano non solo parlato, sono circa 9.000 sulle 800.000 in lingua italiana. Una parte dei critici che si schiera a favore della proposta ministeriale ne enfatizza il numero, dichiarando enorme e pericolosa la somministrazione di vocaboli stranieri nella lingua italiana; un altro schieramento invece adombra scetticismo nei confronti della visione del ministro e ritiene questa cifra assolutamente normale e marginale rispetto al pericolo di una trasformazione costante e inarrestabile del nostro idioma nella direzione di un suo ipotetico svilimento lessicale. Varie le reazioni, inoltre, non soltanto a mezzo stampa, da parte di cultori della lingua, linguisti e semiologi, filologi e intellettuali di enti culturali e accademici. Ci appare comunque importante che, il dibattito sulla nostra lingua abbia una così vivace esistenza nonostante, per molti, sia semplicemente un’arma di consapevole distrazione del governo dai problemi più seri del Paese, a discapito delle vere questioni che riguardano i cittadini, nella loro vita sociale ed economica. Sull’affermazione che la lingua assumerebbe meno importanza nei confronti di altre criticità del nostro tempo attuale, non posso trovarmi d’accordo, perché il dibattito sulla politica linguistica in Italia è molto serio e sicuramente degno di un confronto più costruttivo e profondo. La lingua rappresenta davvero molto per un popolo, da ogni punto di vista.
La prospettiva, dunque, non è di porsi in un’ottica di salvaguardia nazionale di difesa identitaria a tutti i costi, costituendo semplicemente (come vorrebbe Rampelli) un Comitato apposito per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana, bensì intraprendere una seria condotta finalmente condivisa, che consenta l’analisi delle cause e delle origini alla base delle trasformazioni linguistiche nei tempi e nei luoghi in cui si sviluppano. La lingua, in generale, tende a includere e nello stesso tempo a resistere: in quest’ultimo caso non con una rigida alzata di scudi, bensì con una consapevole “rigenerazione creativa”.
Per rigenerazione creativa intendo l’“opportunità” di manifestare e ricreare, in generale (in tutti i contesti artistici, poetici, letterari, filosofici, musicali, antropologici, sociali e politici, infine e soprattutto, nel quotidiano vissuto dove intensa e determinante è l’elaborazione del linguaggio parlato e non solo), una lingua che si alimenti proprio della ricchezza generata dalla sua stessa linfa, senza fare l’errore di percepirla semplicemente come un flusso rigido e inflessibile, conservato nel suo antico e tradizionale fluire. La lingua subisce sempre la flessibilità e le mutazioni dei tempi in dinamiche complesse. Per questo motivo è necessario basarsi sulle nuove prospettive e visioni che non pretendano di mutare una lingua con sostituzioni sconsiderate o, al contrario, di rinchiuderla in un’anacronistica torre d’avorio. È opportuno muoversi con forza su questo terreno, riferendosi alla capacità insita nella lingua di esprimersi con potenza e creatività, trasformandosi armonicamente al cospetto delle nuove esigenze linguistiche che sono ineluttabilmente ridisegnate nella società, dal tempo e dalle nuove dinamiche socio-economiche e culturali.
Con questa premessa, che impone a tutti uno studio e una seria interpretazione dei contesti, in più l’analisi profondissima dei fattori che determinano le mutazioni linguistiche, mi sembra logico e scontato trovare le proposte di Rampelli come grossolane, superficiali e assolutamente inapplicabili laddove, si vorrebbe imporre una lingua nazionale, per decreto con sanzioni amministrative pecuniarie. Niente di più stupido, in linea con una atavica quanto incurabile malattia che attraversa da secoli la provincia italiana, così riconoscibile e gretta, autarchicamente retriva. Ne è prova la suddetta proposta rampellesca, quando sostiene che la lingua italiana debba essere obbligatoria per la fruizione di beni e servizi, e l’obbligo di utilizzare strumenti di traduzione o interpreti per ogni manifestazione o conferenza che si svolga sul territorio del Paese. Altresì, si vorrebbe imporre ai cittadini l’obbligo-divieto di usare sigle o denominazioni straniere per ruoli d’azienda, a meno che non possano essere tradotte. Inoltre, il ministro, pretenderebbe l’utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro, a scuola e nelle università, dove corsi in lingua straniera possono essere tollerati solo se giustificati dalla presenza di studenti stranieri. Queste ultime proposte assumono, effettivamente, connotazioni surreali che sarebbe il caso di derubricarle in sciocchezze, evidentemente comprensibili in questo senso anche a coloro che non si sono mai occupati di questioni che riguardino la lingua.
La proposta di Rampelli, allora, non poteva che scatenare una polemica che corre il rischio di arenarsi alla solita diatriba spicciola, tipica degli opposti politici, che sembra tralasciare quanto, effettivamente e ontologicamente, la questione della lingua rappresenti comunque una forte connotazione politica che ha radici ben più lontane, al di là degli attuali schieramenti dei partiti. Sarebbe impossibile delineare una storia della lingua italiana e definire un discorso sulla linguistica in questo articolo (fiumi di inchiostro e biblioteche infinite non bastano ancora a definire il tutto), che spieghi evoluzioni, mutazioni, cancellazioni e grandi ritorni, ma il pensiero si rivolge quasi naturalmente a quel periodo storico più recente, al ventennio fascista, che sulla lingua si prodigò senza risparmio di energie, verso una sua attestazione identitaria assoluta, nazionalista e conformista al potere. Su quest’ultimo termine e condizione, cioè sul conformismo alle dinamiche delle gerarchie di comando, si può a mio parere affermare che la lingua potrebbe esserne prigioniera solo per brevi parentesi temporali. Al suo interno, invece, esiste e resiste uno spirito rivoluzionario che tende alla trasformazione, alla mutazione, alla felice sublimazione nell’adeguarsi quasi magicamente e irragionevolmente alla novità e alla modernità, intesa come slancio verso una visione di futuro. La lingua dunque non può essere mai conformista, bensì il contrario. Muta, cambia, ritorna su se stessa, si illumina. Mantiene sempre e comunque il suo assetto in condizioni di stress, che sia dettato da motivi strettamente nazionalistici e di conservazione a tutti i costi oppure, come pare oggi accada, in dinamiche di inclusione di forestierismi.
La contaminazione nella lingua è segno di corruzione per coloro i quali intravedono nella tradizione delle culture e delle identità un segno di riconoscimento distintivo dall’altro, dallo straniero, talvolta dal nemico (e la storia ci offre esempi evidenti e tragici). La lingua dunque è l’argine, il limite invalicabile, il destino a cui aggrapparsi. Come sostenuto precedentemente, la lingua non può essere tutto questo e guarda in avanti, inesorabilmente, ineluttabilmente. La difesa dei caratteri nazionali, allora, diventa per queste persone una battaglia strenua, talvolta ridicola per i motivi che abbiamo esposto. Sarebbe banale, tuttavia, definire il tutto in queste ultime battute e non considerare che l’idioma, in altre aree (per dinamiche geopolitiche), rappresenta per molti popoli strumento di lotta per la libertà (come per i curdi, ad esempio). Popoli oppressi che continuano a parlare la propria lingua, nonostante i divieti assoluti e punitivi, rafforzandone il senso di lotta per l’autodeterminazione e la libertà.
Ritornando al discorso specifico, bisognerebbe tuttavia ricordare al ministro Rampelli di tener conto di quanti latinismi sia invece permeata la lingua inglese: così numerosi da non riuscire neppure a elencare i più usati. Dunque, la retorica nazional-patriottica verrebbe così ad essere smascherata e depotenziata, anche in considerazione del fatto che le parole inglesi che oggi hanno invaso il nostro bel parlare, appartengono a terminologie e anglicismi provenienti dall’economia e dal mercato: quello spazio liberista, capitalista e così tanto occidentale (in senso americano) che, invece, guarda caso, in altri contesti e per altre convenienze, viene così tanto citato e glorificato, realmente e poco patriotticamente, dalla parte politica a cui proprio Rampelli appartiene. Resta da sottolineare che la prospettiva delle istanze che si richiamano a culture di estrema destra, fasciste e nazionaliste, che hanno determinato e intriso certe politiche linguistiche nel passato italiano, non legittima oggi l’avversione tout court contro la possibilità di una adeguata ed equilibrata politica linguistica in Italia. Bisognerebbe a mio avviso trovare la quadra fra le esigenze di internazionalizzazione e il mantenimento di una attenzione peculiare sul lessico della lingua nazionale. Il problema è il come attuare questo coordinamento-armonizzazione senza accettare di mettere la testa sotto la sabbia con provvedimenti punitivi impraticabili.
La nostra lingua è straordinariamente ricca, con assonanze e sonorità straordinarie, significati profondi e variegati: l’intrusione di anglicismi desta disagio solo dove vi è abuso ed eccessivo utilizzo non richiesto. Vero è che l’italiano non può subire una sorta di preventiva estromissione da certi campi, della ricerca scientifica e medica, come nell’innovazione informatica o matematica, solo con la scusa di essere propensi a utilizzare una lingua (l’inglese) che garantisca velocità, comprensione ed elasticità superiori alla nostra. Il professor Marazzini dell’Accademia della Crusca, infatti, ha posto l’accento sul vigile e costruttivo apporto degli studiosi a una trasformazione fuorviante, così come ha posto l’accento sulla fallacità del fantomatico sistema normativo creato per contrastare il fenomeno dei forestierismi. Nessuna banalizzazione, dunque, delle questioni legate alla lingua, ma neanche un cieco consenso verso la tesi del professor Marazzini che sostiene la non necessità di una politica linguistica in Italia, in quanto si è già in presenza di leggi che se ne occupano e che andrebbero solo concretizzate: Basterebbe un pò di autocontrollo da parte degli enti pubblici e dei ministeri (che, mi pare, per ora nulla hanno fatto) per evitare le stupidaggini come il “booster” delle vaccinazioni Covid al posto di “richiamo”, o l’incredibile selva di anglismi del “Piano scuola 4.0”. Non la fantasia di leggi nuove, insomma, ma un preciso indirizzo dato dai ministeri competenti, con semplici circolari”. Bisognerebbe, forse, meglio ispirarsi a un Paese come quello francese in cui la lingua ha sempre assunto una importanza estremamente incisiva. La Francia è una nazione che nulla ha di fascista (ad esempio, si veda la legge Toubon, che non è semplicemente una barriera all’inglese bensì un indirizzo di politica linguistica), ma ha creato un’apposita commissione che si occupa di neologismi e propone con una notevole autorità nuove soluzioni lessicali, al fine di adeguare la lingua alla “modernità” e alle nuove esigenze del mondo economico e del lavoro. L’italiano è una lingua che può proporsi in variabili lessicali e fornire una crescita dal punto di vista di un nuovo arricchimento di parole, senza la necessità di sanzioni e multe, con attenzione e un dibattito permanente e costruttivo al fine di creare una armonia fra ciò che consta l’internazionalizzazione del linguaggio e la necessità di mantenere un proprio idioma che sia attivo e vitale.
Innegabile è la relazione, direi indissolubile, fra la lingua e il potere, addirittura estesa in campo militare. Importante enucleare alcune citazioni o brillanti definizioni sulla lingua operate in passato da militari e, più recentemente, da storici accreditati nello studio della geopolitica, non di certo e soltanto da linguisti di professione. In geopolitica, ad esempio, basti pensare a quanto sosteneva nei primi anni del Novecento, Jordis von Lohausen, militare attento alla funzione della lingua come tratto distintivo ed essenziale della stabilizzazione del potere, quando affermava che la politica linguistica è considerata sullo stesso piano della politica militare e che i libri in lingua originale recitano allo straniero un ruolo che a volte è più importante di quello delle armi. Questo per capire quanto sia importante, oggi, porsi un interrogativo sulla tendenza mondiale ad assumere una lingua come veicolo di trasmissione non solo di informazioni, ma anche di potere di una parte su tutti gli altri. Su questo bisognerebbe riflettere e non trovare superficiali soluzioni al problema: quale lingua cercherà di uniformare le Nazioni e le culture del mondo? La lotta agli anglicismi non può consumarsi su una revanche nazionalistica, ma è necessario intervenire, ad esempio, con la consapevolezza di aver partorito dal latino, lingue poderose e ricchissime, non solo l’italiano. Non fu Dante Alighieri a dire che la lingua latina è perpetua e incorruttibile, mentre la lingua volgare è instabile e corruttibile?
L’affermazione di Dante conteneva un fondo di verità incontestabile, ma oggi le lingue neolatine, che sono lingue volgari derivate dal latino, resistono, rimanendo le più parlate del mondo, come lo spagnolo che, ad esempio, ha permeato proprio gli USA per l’alto numero di immigrati e di relazioni di ogni genere con il continente americano centro-meridionale ad essi confinante. L’inglese non è la lingua più parlata del mondo, forse la più studiata: rimane l’elemento comunicativo di questa lingua che è sicuramente diffusa in tutto il globo, ma supponiamo nella maggior parte dei casi a un livello base. Fino alla prima metà del Novecento la lingua straniera più conosciuta d’Europa era il francese. Solo dopo il 1918, alla Conferenza di Pace del 1919, gli USA imposero l’inglese, introducendosi in Europa e affiancando il francese che rimaneva un idioma diplomatico. Fu dopo la Seconda guerra mondiale che gli USA determinarono la decadenza del francese a discapito dell’inglese, grazie al definitivo dominio politico. Lo stesso Winston Churchill (ancora una testimonianza di quanto gli uomini di potere e militari siano sensibili alla lingua) affermava, nel 1943: Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente. Nell’Europa orientale poi, con la caduta dell’URSS, non solo l’inglese ha sostituito il russo ma anche il tedesco, che aveva una certa consistenza presso alcuni stati dell’Europa centrale. Così, il concetto di “anglosfera” ha trovato nel suo autorevole estensore, Andrew Sullivan, una ulteriore definizione che è opportuno conoscere: l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario. Interessante ricordare che il termine anglosfera fu coniato dallo storico James C. Bennett, nel 2000, quando affermò che i paesi di lingua inglese guideranno il mondo nel XXI secolo poiché l’attuale sistema degli Stati è condannato a crollare sotto i colpi del cyberspazio anglofono e dell’ideologia liberale. Così su questo percorso, lo storico Andrew Roberts, che sostiene come il predominio dell’Anglosfera è dovuto alla lotta dei paesi anglofoni contro le epifanie del Fascismo, “la Germania guglielmina, il nazismo, il comunismo e l’islamismo”, in difesa delle istituzioni rappresentative e del libero mercato.
Dunque, il punto rilevante è di capire verso quale direzione si andrà in questi anni, dove tutto sembra essere messo in discussione e molti Stati cominciano a parlare di multilateralità, insidiando il primato degli Usa sulla scena di dominio mondiale e rimettendo tutto in discussione. Sarebbe piaciuto, e su questo bisognerebbe riflettere in profondità, augurarsi una collaborazione di ampia e concreta visione di futuro linguistico fra i Paesi europei, al fine di concretare una politica linguistica comune e definirsi in una dinamica di multilateralità e multiculturalità con una propria variegata dimensione linguistica e culturale, senza sentire il bisogno di sporadiche e inattuabili soluzioni dettate da superficiali standard conoscitivi che conducono alla sterile e inattuabile coercizione dei comportamenti linguistici ritenuti semplicemente corruttivi alla propria identità nazionale.