di Marco Gabbas

Introduzione

Questo articolo offre una rilettura della vita e delle opere del prete cattolico colombiano Camilo Torres Restrepo (1929-1966) attraverso il prisma della resistenza all’ordine e all’autorità nella religione cattolica. Torres fu un sacerdote, un guerrigliero e un sociologo, combinando questi ruoli in un tutto organico. Camilo Torres non può essere propriamente considerato un teologo della liberazione, dato che questa corrente cristiana si sviluppò verso la fine degli anni ’60, poco dopo la sua morte. L’articolo affronta la questione se Torres possa essere considerato un vero precursore della teologia della liberazione o una figura meramente simbolico-iconica. Torres sviluppò la sua ostilità verso l’autorità cattolica anche attraverso il suo dialogo con il marxismo, e giunse alla conclusione che la violenza era indispensabile per cambiare la situazione dei poveri colombiani. Un approfondimento sul tema è forse utile, dato che si è recentemente assistito ad alcune banalizzazioni sul tema all’interno del mondo accademico che sembrano voler liquidare tutta l’esperienza della teologia della liberazione minimizzandone o esagerandone l’importanza, comunque senza comprenderla a fondo nella sua complessità (Zanatta 2020 e 2021). Qui si insiste invece sul fatto che l’argomento è complesso e che merita di essere approfondito, non banalizzato.

 

Una vita senza tregua

Un rapporto problematico con l’autorità fu una costante nella vita di Torres. Torres nacque a Bogotá nel 1929. Quando era ancora uno studente medio, fu espulso dal Colegio Mayor de Nuestra Señora del Rosario. Divenne sacerdote nel 1954, contro la volontà dei suoi genitori. In seguito, si trasferì in Belgio dove studiò alla Scuola di Scienze Sociali e Politiche di Louvain. Si laureò in 1958 in scienze sociali con una tesi sulla realtà socioeconomica di Bogotá. Andò successivamente a Minneapolis, dove per quattro mesi fu assistente del dipartimento di Sociologia Urbana e del Lavoro. Nel 1959 fu nominato cappellano ausiliario e professore di sociologia dell’Università Nazionale di Bogotá. Fondò e presiedette poi il Movimiento Universitario de Promoción Comunal, che aveva lo scopo di sensibilizzare gli studenti sui problemi dei poveri. Nel 1961 contribuì a fondare il Dipartimento di Sociologia, e diresse il Dipartimento di Sociologia Urbana e Metodologia del Lavoro. Verso la fine di quell’anno, si impegnò nell’Istituto Colombiano della Riforma Agraria.

Nel 1962, il cardinale Luis Concha Córdoba lo costrinse a lasciare il suo posto di professore e cappellano all’Università Nazionale di Bogotá, perché aveva organizzato una protesta contro l’espulsione di dieci studenti (Torres, 1985: 6). Nel 1964 diede vita a una concreta iniziativa politica: unì intellettuali e studiosi con lo scopo di creare una piattaforma di unità popolare. Nel 1964, fu costretto a lasciare il suo posto di professore all’Istituto di Amministrazione Sociale. Fu tentato di tornare in Belgio per un dottorato, ma rimase invece in Colombia, perché la sua piattaforma politica stava diventando popolare fra lavoratori, studenti e altri settori popolari. Questa popolarità, comunque, attirò l’attenzione della Chiesa, che dichiarò che la piattaforma era contraria alla dottrina ecclesiastica.

Torres divenne popolare, dato che organizzazioni politiche, sindacati e università lo chiamavano per spiegare le sue idee. Abbandonò il sacerdozio nel 1965, perché pensava ormai che il dialogo con la Chiesa fosse impossibile e perché stava diventando un leader politico. Nello stesso anno fondò il settimanale Frente unido (Torres, 1985: 6). Comunque, la sua etica cristiana lo costrinse a fronteggiare lo stato armi alla mano, a parte la gerarchia ecclesiastica. Pensava che la lotta armata fosse l’unico modo per permettere un cambiamento socioeconomico in Colombia. Si unì ai guerriglieri dell’Ejército de Liberación Nacional – ELN, un gruppo che si ispirava alla rivoluzione cubana – nell’ottobre 1965. Dopo alcuni mesi di intensa attività politica, entrò ufficialmente nell’ELN il 18 ottobre 1965, e rese la sua decisione pubblica il 7 gennaio 1966. Fu ucciso il 15 febbraio 1966, nel suo primo giorno di battaglia.

 

Il cristianesimo di Torres e il marxismo

Mantenendo una forte fede in Dio, Torres riteneva che il compito terreno di un cristiano e specialmente di un prete fosse quello di occuparsi degli esseri terreni. Torres insisteva che senza mortali persino la figura di Gesù non avrebbe significato nulla: «senza l’uomo, Cristo sarebbe un redentore inutile». Torres voleva realizzare una versione radicale del cristianesimo. In altre parole, voleva «realizzare in tutta la loro estensione le applicazioni psicologiche, sociologiche e storiche» del cristianesimo. Per lui, il sacerdozio era l’applicazione di una estrema forma d’amore: il prete doveva essere «un professionista dell’amore a tempo pieno». Secondo lui, il cristianesimo significava soprattutto amore per il prossimo. Questo amore però non doveva essere astratto, ma concreto ed effettivo. La «carità effettiva» era secondo lui «la prima priorità della missione apostolica, soprattutto nei paesi sottosviluppati». La «carità effettiva» della quale parlava Torres non era ciò che comunemente si intende con carità, ma la rivoluzione, che era un «imperativo cristiano». Questo imperativo rivoluzionario, comunque, non era da intendersi in senso meramente fisico-militare. Disse una volta ai suoi studenti dell’Università Nazionale di Bogotá: «Non si fa una rivoluzione lanciando sassi alla polizia o dando fuoco a una macchina. La condizione rivoluzionaria dello studente deve portarlo a un impegno reale, fino alle ultime conseguenze». Comunque, Torres non era un fanatico in cerca di ascetismo e di martirio. Secondo lui, «non bisogna cercare la povertà e la persecuzione. Ma nel sistema presente sono i risultati logici di una lotta continua contro le strutture esistenti» (Torres, 1985: 5). Nel sistema presente, sono i segni di una autentica vita rivoluzionaria. Torres riteneva che fra il cristianesimo e il marxismo vi fossero sia delle somiglianze sia delle differenze. Queste ultime avrebbero potuto essere superate dall’azione e dalla prassi storiche. Così, anche gli elementi sub-dottrinali e antiumani del marxismo sarebbero stati eliminati.

 

La radicalizzazione di Torres 

Torres era convinto che le diseguaglianze socioeconomiche fossero sempre esistite, ma che si fossero acutizzate nell’era moderna. Le diseguaglianze erano causate proprio da quelle istituzioni che dichiaravano di rappresentare la civiltà e il progresso. Torres era ben cosciente delle contraddizioni presenti fra il cattolicesimo e il socialismo. I rapporti fra i due potevano essere tesi anche a causa della parte anti-cristiana della dottrina socialista. Incredibilmente, Torres era allo stesso tempo moderno ma anche estremamente dottrinario, come capita a molti pensatori cattolici. Pur riconoscendo il contributo del socialismo alla Chiesa, dichiarava che il nocciolo del cristianesimo non era soggetto alle circostanze storiche. Ad ogni modo, pensava che dal punto di vista della filosofia sociale la Chiesa fosse in ritardo di oltre tre secoli.

Discutendo il concetto di libero arbitrio, Torres diceva che il libero arbitrio può essere influenzato dalle condizioni socioeconomiche. Citò San Tommaso, il quale nel XIII secolo notava che una condizione economica minima è necessaria per poter esercitare la virtù (Torres, 1985: 20). Torres accettava la necessità di soluzioni dirette ai problemi socioeconomici. Pensava che il cristianesimo potesse rendere umano ogni sistema. Comunque, era d’accordo coi socialisti nel criticare gli abusi del capitalismo. I cristiani potevano lottare per l’abolizione del capitalismo, ma la rivoluzione non implicava necessariamente spargimento di sangue. Non era neanche d’accordo sul fatto che una rivoluzione dovesse essere basata su un cambiamento totale e assoluto della struttura presente: anche quelle strutture potevano avere dei lati positivi che si sarebbero dovuti mantenere. I problemi sociali avrebbero potuto essere risolti non solo dal proletariato mondiale, ma da tutte le persone di buona volontà (Torres, 1985: 22). Il cristianesimo aveva una tale fede nella natura umana che qualunque umano si sarebbe potuto redimere. All’epoca, Torres era contrario allo spargimento di sangue che implicava odio.

Come cristiano, non lo poteva accettare. Ammetteva che il cristianesimo era cambiato nel corso del tempo. Probabilmente, il suo massimo periodo di perfezione fu durante il cristianesimo primitivo, ma essendo riconosciuto dallo stato cambiò, iniziando a occuparsi eccessivamente delle strutture liturgiche, pedagogiche e giuridiche. In sostanza, perse l’attenzione per l’essenziale e si concentrò troppo sull’accidentale. La Chiesa non aveva commesso un tradimento, ma mostrava mancanza di adattamento (Torres, 1985: 23). La Chiesa condannava ufficialmente lo sfruttamento, ma questa condanna veniva spesso dimenticata. Torres era anche convinto che ci fosse una differenza fra i cattolici europei e colombiani. Mentre i cattolici europei condannavano lo sfruttamento, molti cattolici colombiani erano sorpresi che un prete perdesse tempo studiando i problemi sociali. In ogni caso, Torres era convinto che il cristianesimo non avesse avuto una forte influenza sulla civiltà occidentale, perché non forzava i propri principi sulle persone.

Il cristianesimo pensava che la radice dei problemi sociali fosse nell’uomo, non nella società – come sostenuto dal liberalismo – e non nella proprietà privata – come sostenuto dal marxismo. «Se la Chiesa dicesse soltanto che bisogna adattarsi alla situazione sociale esistente, sarebbe davvero “l’oppio dei popoli”» (Torres, 1985: 25). Invece, avrebbe dovuto dare una reazione tecnica e non sentimentale ai problemi sociali, basata sulla giustizia piuttosto che sulla lotta di classe. Nella sua dottrina, il marxismo negava l’individuo.

Ancora nel 1956, Torres scrisse che le questioni socioeconomiche erano diventate più importanti con la rivoluzione industriale, che aveva reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri (Torres, 1985: 30). Citò Pio XI, il quale disse che lo scandalo del XIX secolo era che la Chiesa aveva perso il proletariato, o perché non era mai stato cristiano, o perché si era de-cristianizzato. Torres riconosceva che il proletariato si stava allontanando dal cristianesimo verso il materialismo. Esaminando la risposta marxista alla questione sociale, Torres ammetteva che c’era una corrispondenza incredibile fra la mentalità dei lavoratori e il sistema marxista: «Bisogna riconoscere oggettivamente che la sociologia marxista ha potuto analizzare, specificare e sviluppare gli elementi effettivi e passionali della classe proletaria».

Il marxismo presentava al proletariato una «dottrina ideale che risponde a quasi tutte le sue aspirazioni» (Torres, 1985: 31). Però, Torres pensava che il cristianesimo avesse dei vantaggi: i cristiani non sono legati a nessun specifico sistema economico. Torres aspirava a un umanesimo cristiano che fosse più completo di ogni altro. La redenzione dell’anima implicava la redenzione del corpo. «Alla fine del mondo, anche la materia verrà trasformata e glorificata», mentre l’anima umana non è il solo oggetto di carità. «L’uomo totale è sociale» (Torres, 1985: 32). Nel 1964, ripeté che un cristiano deve occuparsi della miseria materiale. Come scrisse sulla rivista colombiana El catolicismo nel 1962, il prete deve essere parte della società, «per realizzare l’incarnazione del Signore prendendosi tutta la responsabilità dell’impegnarsi nell’avventura umana del suo gregge» (Torres, 1985: 33). Allo stesso tempo, credeva nell’obbedienza alla gerarchia cattolica.

 

Lo scontro con la Chiesa

Lo scontro di Torres con la Chiesa divenne evidente nel 1965. A giugno, dichiarò a La patria che il «clero colombiano era il più arretrato del mondo, inclusa la Spagna. Evidentemente, le sole chiese progressiste sulla terra sono le chiese dei poveri» (Torres, 1985: 53). Pensava che come cattolico potesse essere prete e rivoluzionario, e che non si sarebbe tolto il talare in nessuna circostanza. Ad agosto, andò oltre dicendo che la cosa più grave non era che in Colombia ci fossero dei preti che usavano il loro ruolo per arricchirsi. La cosa più grave era che c’erano grandi ricchezze nelle mani della Chiesa. Quindi, uno poteva salire la gerarchia ecclesiastica solo preservando queste ricchezze, se aveva una mentalità capitalista. Questi «gerarchi hanno una mentalità totalmente conformista e sono soggetti all’oligarchia […] Il cristianesimo è stato falsificato e si presenta agli occhi del popolo, come dicono i marxisti, come l’oppio dei popoli» (Torres, 1985: 54).

Alcuni religiosi facevano opera di carità, ma in maniera paternalista. Diversamente, Torres insisteva che i cristiani dovrebbero lavorare per un cambiamento istituzionale. Dovrebbero lavorare con i poveri di modo che i poveri stessi realizzino i cambiamenti necessari attraverso l’organizzazione. Invece, certi preti si opponevano alla riforma agraria perché avevano paura di perdere la terra e l’influenza sulle popolazioni indigene, che vivevano sotto una sorta di teocrazia (Torres, 1985: 55). La Chiesa avrebbe dovuto essere povera di modo che non potesse esercitare influenza politica e potesse invece svolgere il proprio lavoro evangelico. Torres era d’accordo sul tassare le attività produttive della Chiesa sotto un governo rivoluzionario, e anche sull’espropriare le sue proprietà.

Era d’accordo col matrimonio civile perché lo riteneva migliore per i non credenti. Diceva addirittura che un matrimonio religioso fra non credenti sarebbe stato blasfemo. In linea di principio, non era contrario al matrimonio per i preti. Desiderando una società plurale, si opponeva al Concordato fra stato e Chiesa che permetteva l’esclusivo insegnamento della religione cattolica nelle scuole (Torres, 1985: 56-57). In una lettera al Vescovo ausiliario, confessò che era disgustato dal lavoro con la strutturale clericale della Chiesa. Lavorando nella Curia, sarebbe stato separato dai poveri per essere incluso in una struttura appartenente ai potenti (Torres, 1985: 58-60).

Verso la fine, l’Arcivescovo di Bogotá disse a Torres che la sua attività politica andava contro la dottrina della Chiesa. In ogni modo, non specificò in quali punti l’attività di Torres andava contro la dottrina ecclesiastica, limitandosi a definire la dottrina di Torres «sbagliata e perniciosa» (Torres, 1985: 64), specificando solo dopo che includeva «l’istigazione al rovesciamento dell’ordine pubblico, incluso con l’uso della violenza, la presa del potere (ovviamente, illegalmente)» (Torres, 1985: 66). Le conseguenze non potevano che essere terribili. Torres dichiarò:

Quando il dilemma di seguire la disciplina ecclesiastica o di continuare la lotta rivoluzionaria si pose di fronte a me, non potei dubitare; perché altrimenti l’avrei tradita, vi avrei tradito […] La lotta rivoluzionaria non è una lotta come ogni altra: è una lotta dove uno non mette ore, non mette pesi. È una lotta dove uno deve mettere la vita stessa. Possiamo accettare di avere persone amichevoli verso la rivoluzione, attaccate alla rivoluzione; ma per accettare qualcuno come rivoluzionario dobbiamo pretendere che sia un rivoluzionario a tempo pieno. (Torres, 1985: 69)

Espresse solidarietà con il Vietnam, ed era fiducioso in una sconfitta degli Stati uniti. Espresse solidarietà con i movimenti rivoluzionari dei popoli. Fra il serio e il faceto, disse: «il cattolico che non è un rivoluzionario e che non sta con i rivoluzionari è in peccato mortale» (Torres, 1985: 71).

 

La violenza in Camilo Torres fra sociologia, cristianesimo e marxismo

Camilo Torres non era un sostenitore di una violenza sconsiderata e insensata, ma la riteneva una soluzione ultima qualora tutti gli altri mezzi si fossero rivelati inutili. Specificamente, giunse alla conclusione che nel contesto oligarchico colombiano non vi erano altre strade. La sua scelta di prendere le armi fu un processo graduale. In questa sezione è presente una riflessione sulle radici della scelta di Torres collegandola al cristianesimo, al marxismo e alla sociologia. Secondi certi autori, le religioni sono intrinsecamente violente, specialmente quelle monoteiste. Credere in un solo vero Dio significa combattere coloro che la pensano diversamente (Juergensmeyer, 2000; Appleby, 1999; Maron, 1996; Deschner, 1986; Schwartz, 1996). Anche il marxismo è considerato una ideologia intrinsecamente violenta (Finlay, 2006; Friedman, 1986). Dopo tutto, Marx (1976: 916) aveva chiarito nel suo Capitale: «La forza è la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova». Quindi, una interpretazione semplicistica vorrebbe che Torres era un fanatico religioso o che, in alternativa, era influenzato dalla perniciosa ideologia comunista. In realtà, Martínez Morales (2011: 141) ha notato che sarebbe semplicistico e poco serio definire «il suo cristianesimo una mera azione sociale animata da idee comuniste».

Martínez Morales ha analizzato l’influenza della teologia cristiana/cattolica e della sociologia sulla scelta di Torres. Secondo Martínez Morales, Torres non considerava «rivoluzione e violenza parole sinonime, né realtà simili». Rivoluzione significa «completo rinnovamento di una società o di un sistema; la violenza può essere una delle forme di questa rivoluzione, ma la rivoluzione non implica violenza in sé stessa, né la violenza ne costituisce l’essenza» (Martínez Morales, 2011: 143). Per cominciare con la teologia cristiana, Martínez Morales è convinto che la scelta radicale di Torres verso l’uso della violenza fu influenzata piuttosto dalla dottrina ecclesiastica cattolica che dall’originale messaggio cristiano ed evangelico. Ma qual è la differenza fra le due cose? Martínez Morales ritiene che la vita e le opere di Gesù mostrino un messaggio fondamentalmente nonviolento. Il Regno di Dio sulla terra è sinonimo di «pace autentica». Comunque, lungo la tradizione cristiana

date le modificantesi vicissitudini storico-contestuali, si trovano anche evidenti giustificazioni della guerra e dell’esercizio della violenza, chiaramente solo limitata e condizionata al veloce ristabilimento della pace. È nella tradizione cristiana e cattolica che Camilo incontra la sua giustificazione per la violenza, fedelmente accettando l’eredità della sua Chiesa riguardo la tesi della “guerra giusta” e della legittimità dell’insurrezione contro la tirannia (Martínez Morales, 2011: 157).

Secondo Martínez Morales – che, notare, è un teologo colombiano – l’originale messaggio cristiano cambiò quando Costantino adottò il cristianesimo. Essendo la religione ufficiale dell’Impero Romano, il cristianesimo divenne uno degli strumenti di un progetto imperiale e militare. Nei suoi scritti, il filosofo cristiano Agostino giustificò chiaramente la guerra giusta e le funzioni dello stato. Secondo Agostino, l’impero e la Città di Dio erano due entità simili tendenti allo stabilimento della pace, solo con mezzi differenti. L’impero costruisce la pace attraverso

la coercizione e il dominio sugli altri. La violenza diventa lo strumento dello stato per ottenere il legittimo strumento della pace, il suo strumento deve contenere ogni ribellione o ogni violenza dei piantagrane intenzionati a sovvertire l’ordine e la concordia civica basata e stabilita nelle leggi. Non solo i cristiani devono accettare questa disposizione, ma devono anche prendere attivamente parte nella conformazione di questo tipo di stato.

Quindi, secondo Agostino «la violenza è giustificata come un principio salvezza spirituale e come strumento pacificatore. L’Impero Romano diventa lo strumento stabilito da Dio per mantenere l’ordine cristiano che non dovrà dubitare nel combattere ogni minaccia» (Martínez Morales, 2011: 158). Ad ogni modo, Martínez Morales nota anche che elaborazioni ideologiche per giustificare la guerra e la violenza furono presentate anche da importanti teologi cattolici come Tommaso D’Aquino, il gesuita Francisco Suárez e il dominicano Francisco de Vitoria.

È possible che la teologia cattolica precedente abbia ispirato la giustificazione della violenza da parte di Torres, ma c’è anche una differenza molto importante. Vi è una enorme differenza fra la giustificazione realpolitica della violenza di stato fatta da Agostino e la conclusione ultima di Torres che la violenza era necessaria per migliorare le condizioni di vita della maggior parte della popolazione. La violenza di Agostino serve per mantenere lo status quo, mentre quella di Torres è sovversiva. Martínez Morales sembra convinto che la base principale della decisione di Torres è da cercare del pensiero cattolico, e tende a non esagerare il contributo marxista su questo aspetto. Però, sostiene anche che «in questo punto [la giustificazione della violenza], una certa versione del cristianesimo e il marxismo possono convergere, dato che nei loro rispettivi obiettivi di trasformazione sociale, di pace, di armonia umana, della costruzione di un uomo nuovo, proponevano e coltivavano la violenza come un mezzo necessario e legittimo» (Martínez Morales, 2011: 163).

È però probabile che la scelta di Torres sia stata influenzata anche da alcune conclusioni alle quali era giunto nel corso dei sui studi sociologici. Intervistato da Rafael Maldonado Piedrahita nel 1956 sulla questione se la rivoluzione invocata da Torres implicasse spargimento di sangue, quest’ultimo replicò:

Mi sta facendo questa domanda come cristiano o come leader politico? Nel primo caso, le dico che in quanto tale, e ancora di più essendo un prete, questo non mi concerne se non negativamente. Se questo spargimento di sangue implica odio di qualunque tipo, non lo possiamo mai realizzare. Come leader politico, credo di non esserlo né lo devo essere, quindi non le posso rispondere. Però, un leader politico cristiano non può evitare questa questione. Complessivamente, non le potrei rispondere senza prendere in considerazione circostanze storiche molto determinate (Martínez Morales, 2011: 146).

A questo punto della sua vita, Torres escludeva la necessità di uno spargimento di sangue che implicasse odio. Ellitticamente, dunque, stava prendendo in considerazione lo spargimento di sangue come una dolorosa necessità, ma che non comportasse odio. Si trattava di una sorta di violenza guidata dall’amore? Inoltre, il sociologo Torres chiarì che la questione non poteva essere affrontata al di fuori di un preciso contesto storico.

In Colombia il termine la violencia indica una sorta di guerra civile che secondo alcune fonti durò dagli anni ’20 agli anni ’50 del Novecento. Pertanto, il minimo che si possa fare prima di emettere condanne moraleggianti sulla scelta di Torres è prendere in considerazione il contesto colombiano in cui viveva. Torres non fu solo un testimone passivo della violencia, ma la studiò come sociologo. Uno sguardo generale alle sue conclusioni e alle sue prese di posizione del tempo può essere utile per comprendere più pienamente la sua scelta finale. Torres iniziò a studiare la violencia dopo aver terminato i propri studi in Belgio. Intervistato nel 1961 dal settimanale liberale Política y algo más, Torres notò che la violencia era causata dall’«ostruzione di vie pacifiche alla promozione sociale, culturale ed economica» (Martínez Morales, 2011: 147).

In tale situazione, si formò un gruppo sociale che tentava di ottenere questa promozione attraverso mezzi violenti. Il minimo che la politica colombiana potesse fare, secondo Torres, era analizzare le cause del problema prima di risolverlo. Secondo lui, però, questo non stava avvenendo. La risoluzione del problema avrebbe necessitato campagne di alfabetizzazione, riforma agraria e politica di massa, ma niente di tutto ciò veniva attuato dalla politica. Una conoscenza scientifica del fenomeno poteva essere acquisita solo attraverso lo «studio realista e metodico». Commentando le parole di Torres, Martínez Morales (2011: 148) nota che «nessuno» voleva «prendersi la responsabilità della violenza generata dalle istituzioni governative che a un certo punto porta i gruppi guerriglieri a sollevarsi in armi, come se questa situazione primaria che crea violenza insurrezionale non avesse autori». Cioè, attraverso uno scrupoloso studio sociologico, Torres svelò l’ipocrisia convenzionale e istituzionale sulla violencia.

Torres organizzò anche un gruppo di intellettuali impegnati e cercò i necessari finanziamenti per compiere ricerche e pubblicazioni sulla violencia. Il primo volume scaturito dal progetto fu intitolato La violencia en Colombia (Fals Borda, Umaña Luna, & Guzmán Campos, 1962). Torres non scrisse per il primo volume. Aveva in mente di includere un suo contributo per il secondo volume, ma non poté perché non ricevette il nihil obstat dalla Chiesa. Comunque, presentò il suo lavoro al Primo Congresso Nazionale di Sociologia, tenutosi in Colombia nel 1963, con il titolo La violencia y los cambios socioculturales de las areas rurales colombianas.

In questa relazione, dichiara di essere cosciente della contradizione del suo essere prete e studioso allo stesso tempo: «come prete, l’autore deve disapprovare i fatti sociali che sono opposti alla morale cristiana», ma «come sociologo non può emettere giudizi di valore». La violencia non poteva essere moralmente giustificata. Però, era senza dubbio «un importante fattore di cambiamento sociale». La «bontà o la malvagità di questo cambiamento» e la «moralità delle sue conseguenze» non erano di stretta competenza sociologica. Per di più, «dicendo “importante” non voglio dire “positivo”». Senza dubbio, la violencia era un processo profondamente trasformatore, con una «indiscutibile importanza sociologica» (Martínez Morales, 2011: 149).

Secondo Torres, la violencia poteva essere compresa solo prendendo in considerazione tre gruppi di variabili. Le prime variabili erano comuni a tutte le aree rurali, mentre il secondo gruppo di variabili era caratteristico dei paesi sottosviluppati. Il terzo gruppo includeva variabili specifiche della società colombiana. Il primo gruppo di variabili includeva:

  1. Mancanza di divisione del lavoro, di specializzazione e scarsità di ruoli
  2. Isolamento sociale
  3. Importanza dei vicini nella vita sociale
  4. Individualismo
  5. Conflitto con gli extra-gruppo
  6. Senso di inferiorità

 

Le variabili del secondo gruppo erano:

  1. Assenza di mobilità verticale ascendente
  2. Aggressività latente

Infine, il terzo gruppo includeva:

  1. Settarismo politico
  2. Mancanza di coscienza di classe
  3. Rispetto per la proprietà (Martínez Morales, 2011: 150).

Torres giunse alla conclusione che in Colombia la mobilità ascendente era chiusa alla maggior parte della popolazione per ragioni economiche. Questa mobilità era intenzionalmente bloccata da una esigua minoranza privilegiata che non aveva interesse a cambiare la situazione. Torres notò anche che perfino quando un minimo di mobilità ascendente aveva luogo, era meramente materiale piuttosto che socioculturale, e non aveva pertanto conseguenze sul lungo periodo. Anche se questa realtà era riscontrabile in tutta la Colombia, nelle aree rurali era ancora più evidente. Soprattutto, Torres sottolineò che «la violencia ha prodotto simultaneamente una coscienza di classe e ha dato strumenti anormali di promozione sociale». Per di più, queste «strutture di promozione anormale stabilite dalla violencia hanno cambiato l’attitudine del contadino colombiano, trasformando i contadini in un gruppo sociale di pressione (Martínez Morales, 2011: 151).

Nonostante tutto, la violencia ha scatenato un processo sociale inaspettato dalle classi dominanti. Ha svegliato la coscienza del contadino, gli ha dato solidarietà di gruppo, un senso di superiorità e certamente nell’azione; ha aperto possibilità di ascesa sociale, e ha istituzionalizzato l’aggressività, facendo in modo che i contadini colombiani iniziano a preferire gli interessi del contadino all’interesse del partito. Ciò avrà come effetto la costruzione di un gruppo di pressione politica, economica e sociale capace di cambiare le strutture nella forma meno aspettata e meno desiderata dalla classe dominante. È molto probabile che, a causa della violencia, il settarismo politico diverrà settarismo di classe, come abbiamo visto in molte aree rurali colombiane (Martínez Morales, 2011: 151-152).

Cioè, Torres stava dicendo che la violencia stava creando una coscienza di classe che era precedentemente assente.

La violencia […] inizia a creare una coscienza di classe; generalizza i rapporti sociali fra i contadini di quasi tutto il paese, dà coscienza che quei rapporti sono esclusivi del gruppo contadino, e, inoltre, dà solidarietà per l’azione per iniziare a influenzare informalmente le decisioni governative anche attraverso patti politici, nelle strutture correnti. Dalla mancanza di questa coscienza di classe, il contadino sta gradualmente diventando un gruppo di pressione che sarà definito nel cambiamento sociale delle strutture colombiane (Martínez Morales, 2011: 152).

Queste affermazioni sono già degne di nota, ma Torres si spinse anche oltre. Era convinto che la violencia avesse un elemento rivoluzionario, e che se le classi dominanti non avessero compreso la necessità del cambiamento, avrebbero rischiato di essere distrutte da quegli stessi cambiamenti rivoluzionari. Nel 1965, disse al giornalista francese Jean-Pierre Sergeant che «il popolo» aveva «sufficiente giustificazione» per optare per cambiamenti con mezzi violenti (Martínez Morales, 2011: 156).

 

Camilo Torres e la teologia della liberazione

Una questione interessante per quanto riguarda l’eredità di Torre è se egli sia stato un importante precursore della teologia della liberazione, e se sia invece stato una figura meramente simbolica e inconcludente (Levine, 2011). Certamente, uno dei principali esponenti della teologia della liberazione, il peruviano Gutiérrez Merino, ha speso parole positive per Torres nelle sue opere. Secondo Gutiérrez Merino, l’abbandono della Chiesa da parte di Torres non fu colpa sua. Tutt’altro: il problema era che molti nella Chiesa non capivano la gravità dei problemi socioeconomici latinoamericani. Quelli come Torres che la pensavano diversamente erano considerati dei membri della Chiesa «indisciplinati e persino pericolosi». Però, Gutiérrez Merino (1975: 266) sosteneva che «nel loro impegno e anche nei loro tentativi esplicativi c’è più comprensione della fede, più fede, e più lealtà al Signore che nella dottrina “ortodossa” (così preferiscono chiamarla) degli ipocriti circoli cristiani». Qui, Gutiérrez Merino offre informazioni preziose. Questo teologo della liberazione non sostiene semplicemente di preferire le interpretazioni di Torres e di altri come lui ad altre più tradizionali. Ben oltre, sostiene che Torres rappresentava un esempio di una fede cristiana più coerente, che era più vicino alla vera fede dei cristiani ortodossi.

Gutiérrez Merino cita Torres anche nella sua discussione più propriamente teologica, fra Gesù, Paolo, Matteo e altri teologi più moderni. Gutiérrez Merino nota che il cristianesimo aveva bisogno di costruire una «comunità profonda fra gli uomini», e aggiunge queste parole di Torres: «La comunità cristiana […] non può offrire sacrificio nella sua forma autentica se non ha prima realizzato, in forma effettiva, il precetto dell’amore per il prossimo». Come si vede, Gutiérrez Merino si riferisce al succitato concetto Torresiano di carità effettiva. Gutiérrez Merino evidenzia anche che queste parole provengono dalla dichiarazione pubblica del 1965 nella quale Torres rinunciò al sacerdozio. Torres decise di rinunciare al suo diritto «a celebrare il culto eterno della Chiesa come prete, per creare le condizioni che fanno il culto più autentico».

Secondo Gutiérrez Merino (1975: 339), «il gesto di Camilo fece impietosamente percepire una realtà nascosta sotto una montagna di parole e buone intenzioni e contribuì anche a dar vita alla speranza di temprare una Chiesa che non ponga questo tipo di dilemmi ai migliori dei suoi membri». Gutiérrez Merino, pertanto, si schierò apertamente con Torres nel suo conflitto con la Chiesa e pensò che, in un certo senso, Torres aveva seminato una speranza per il futuro. Il merito di Torres fu quello di guardare in faccia la realtà, anzi che limitarsi a parole e a vuote dichiarazioni di intenti. Secondo Gutiérrez Merino, comunque, lasciare la Chiesa e tentare di costruire qualcos’altro fuori non era desiderabile. Sperava in una Chiesa rinnovata dove persone come Torres si sentissero coerentemente a casa.

Ernesto Cardenal

Un altro teologo della liberazione ispiratosi a Torres fu il nicaraguense Ernesto Cardenal (1925-2020). Discutendo dei gruppi religiosi alternativi che erano guardati con sospetto o respinti dalla Chiesa ufficiale, Cardenal (1976: 41) dichiarò nettamente in un’intervista: «Beh, la Chiesa ufficiale ha sempre respinto tutte le cose buone. La Chiesa ufficiale respinge il vero cristianesimo. Molti santi e mistici sono stati respinti dalla Chiesa; a suo tempo ha respinto anche Camilo Torres». Fra Torres e Cardenal vi sono quindi alcuni importanti punti di contatto. Nessun vero sviluppo spirituale era possibile in condizioni di miseria, e la rivoluzione era un dovere cristiano e ancor più sacerdotale.

L’influenza di Torres su Cardenal è esplicita: Cardenal cita diverse frasi di Torres quasi letteralmente. Inoltre, Cardenal evidenziò che la collaborazione fra cristiani e marxisti doveva essere reciproca. I due avevano obiettivi apparentemente diversi, ma in realtà l’obiettivo di entrambi era quello di stabilire il «regno di Dio» sulla terra. La speranza di Cardenal può sembrare utopistica, e infatti il marxismo è stato spesso accusato di utopismo (Levitas, 2013). Come Gutiérrez Merino, anche Cardenal (1976: 63) riprese da Torres il concetto di amore effettivo e di carità effettiva: «Io credo, come padre Camilo Torres, che non possiamo offrire il sacrifico della messa in forma autentica se l’amore per il prossimo non è stato realizzato prima in forma effettiva – cioè, con la rivoluzione». Da un punto di vista teologico cristiano, quando celebra la messa il prete sta in un certo senso riproducendo il sacrificio di Cristo sulla croce. Il pane e il vino della comunione simboleggiano il sacrificio fatto da Gesù della propria carne e del proprio sangue. Cardenal sta pertanto dicendo che questo sacrificio non può essere vero e credibile senza l’amore vero ed effettivo per il prossimo (e, secondo Cardenal e Torres, questo può essere realizzato solo tramite la rivoluzione).

Infine, Camilo Torres compare anche in un altro libro di Ernesto Cardenal, Il vangelo a Solentiname (2010). Questo libro è in realtà una raccolta di discussioni domenicali sul vangelo tenute da Cardenal e da contadini poveri, nella remota località nicaraguense di Solentiname. Discutendo delle nozze di Cana, un contadino, William, riflette sul comportamento di Maria. Quando non c’è più vino per il matrimonio, lei chiede a Gesù di fare un miracolo di trasformare l’acqua in vino. In realtà, compiere quel miracolo avrebbe avuto delle conseguenze negative per Gesù, che sarebbe stato ucciso precisamente per essere un “falso messia” che faceva miracoli falsi. Pertanto, perché Maria fece questa richiesta a Gesù?

Questo mi ricorda le conversazioni che la madre di padre Camilo diceva di aver avuto con suo figlio, dopo cena, quando si era immischiato con la politica. Lui le diceva, «Mamma, quando mi uccideranno…» E lei diceva, «Figlio, quando ti uccideranno…» Qui Gesù le sta semplicemente dicendo che lo fotteranno. Era un fatto che i due avevano già tranquillamente accettato (Cardenal, 2010).

La riflessione del campesino William suggerisce che Camilo Torres doveva essere una figura nota e rispettata nelle comunità cattoliche ispirate alla teologia della liberazione, come quella di Solentiname. Il commento di William, inoltre, non solo mostra rispetto per Torres, ma è quest’ultimo è addirittura paragonato a Gesù, mentre sua madre è paragonata a Maria. In un certo senso, la morte di Torres è presentata come una sorta di anelato martirio, come quello di Gesù. Proprio come Gesù aveva deciso di morire sulla croce per lavare i peccati del mondo, Torres scelse il suo destino. Sapeva che «immischiandosi con la politica» il suo destino sarebbe stato molto probabilmente la morte. E, sottolinea William, sia in Gesù sia in Torres (e nelle loro madri) c’è una stoica accettazione del proprio destino, un tipico segno di santità.

I principali lavori dell’arcivescovo salvadoregno Oscar Romero (2004, 2015), assassinato nel 1980, non contengono espliciti riferimenti a Torres. Però, in una postfazione a una raccolta di lavori di Romero intitolata «La morte come rivoluzione», David Maria Turoldo (1991) mette Torres, Romero e Frei Tito (1945-1974) insieme in una lista di preti latinoamericani martirizzati. Chiaramente, le somiglianze fa Torres e i successivi teologi della liberazione sono evidenti, specialmente se sono morti di morte violenta: sono stati tutti martiri per la stessa causa. Turoldo, comunque, riflette più profondamente sulle differenze e somiglianze di queste tre morti. In breve, Torres fu ucciso durante un conflitto a fuoco; Romero fu colpito mentre diceva messa; il brasiliano Frei Tito si suicidò dopo essere stato torturato (Rolland, 2009). Secondo Turoldo (1991: 561), la morte di Romero fu

Una morte diversissima dalla morte di Camillo Torres, avvenuta in un luogo decisamente opposto: o meglio, materialmente opposto! E però una morte che si deve dire diversa, e non contraria. Vescovo che sale all’altare del suo olocausto, per le stesse ragioni per cui Camillo Torres vi discende.

Anche Oscar Romero convertito: passato da uno stato di uomo conservatore e di ordine, a una scelta evangelica, per questo stesso rivoluzionaria: incontrandosi con Camillo Torres e con Frei Tito nella identità dei fini.

Turoldo indica il fatto che Romero fu ucciso mentre diceva messa, cioè sull’altare. Invece Torres fu ucciso simbolicamente dopo essere sceso dall’altare, perché aveva rinunciato al sacerdozio per unirsi ai guerriglieri. Dopo tutto, Romero, Tito e Torres avevano gli stessi obiettivi. Simbolicamente, Turoldo (1991: 566) pensa che tutti e tre hanno avuto la messa in comune: Torres aveva rinunciato alla messa; Romero fu ucciso mentre la celebrava; Tito poté solo sognare di celebrarla, perché morì quando non era ancora stato ordinato sacerdote.

 

Conclusione

In conclusione, le fonti su Camilo Torres qui analizzate permettono di dare un’immagine più completa del sacerdote colombiano, sottraendolo a diverse ma ugualmente facili banalizzazioni. In generale, la teologia della liberazione, i suoi precursori o le varie forme di cristianesimo sociale latinoamericano non possono essere certo banalizzate come una forma di «estremismo cattolico» (Zanatta, 2021). Oltretutto, questo ignora il fatto che la teologia della liberazione ha avuto nel tempo varie manifestazioni anche molto diverse fra loro. Dal punto di vista mediatico-sensazionalistico, certamente i preti guerriglieri fanno più notizia. Invece, comunità cristiane che studiano insieme la bibbia interpretandola a modo proprio e che cercano di fare una continua opera di carità locale suscitano meno attenzione. Eppure, entrambe sono manifestazioni che ha avuto e che ha la teologia della liberazione in America Latina (Berryman, 1987). Altro discorso è che etichettare Torres come “estremista” sarebbe quanto meno discutibile. Le oligarchie colombiane alle quali Torres si opponeva erano forse moderate?

Per quanto riguarda poi il dialogo con il marxismo, non c’è dubbio che esso fu importante sia per Torres che per i successivi teologi della liberazione. Eppure, il pensiero e l’azione di Torres non possono essere semplicemente considerati prodotto dell’influenza marxista. Come mostra bene Martínez Morales, le scelte di Torres scaturirono da una profonda base cristiana e cattolica. A livello collettivo, un aspetto della vita e del pensiero di Torres che è spesso ignorato è quello della sua formazione sociologica. Eppure, analizzando i suoi lavori pare chiaro che la sua profonda conoscenza della situazione colombiana e le sue conclusioni impietose e spregiudicate abbiano contribuito alla sua scelta finale. In definitiva, Torres appare come un pensatore estremamente moderno e dottrinario al tempo stesso. La sua modernità consiste nel non aver esitato a dialogare con il marxismo, il suo dottrinarismo nell’insistere sul fatto che i principi fondamentali del cristianesimo fossero eterni e non soggetti a modificazioni di sorta. Per quanto riguarda l’influenza di Torres sulla successiva teologia della liberazione, autori come Levine (2011) ritengono che sia stata poca o nulla. Eppure, si è visto che importanti esponenti di questa corrente come Ernesto Cardenal e Gutiérrez Merino vi si ispirarono apertamente.

 

Bibliografia

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