di Paolo Lago
Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.
La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della guerra, quando non c’è più rispetto né degli dei né degli uomini: violenza cieca perpetrata ai danni di donne e bambini inermi. La persis, cioè la caduta e la presa di una città, nella fattispecie Troia, non è fatta di gesta epiche e valorose, di scontri in battaglia, di duelli ma di soprusi e violenze esercitate nei confronti di esseri umani indifesi. Come scrive Camerotto, “il racconto dell’Ilioupersis è testimonianza di ciò che è la guerra, non delle glorie, non delle prodezze memorabili degli eroi. Sono glorie maledette, lo sappiamo bene. Allora raccontare la persis è la disperazione che sta nei grandi occhi delle donne, delle Troiane, nei loro gesti, nelle emozioni tremende, nelle grida e nei pianti delle loro voci”. È un po’ come la guerra ‘al grado zero’: contiene tutti i suoi orrori, i genocidi, i massacri della popolazione inerme. E se il racconto della persis di una città è un motivo diffuso presso diverse culture antiche del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, le violenze perpetrate dai soldati nei confronti di una popolazione ‘nemica’ assediata e vinta riecheggiano in ogni tempo, fino alla modernità e alla contemporaneità. Quelle stesse violenze, oggi, non sono più raccontate dai dipinti su un vaso ma dai media che, quasi in tempo reale e in modo brutale, ci propongono immagini di genocidi e massacri, dal Ruanda all’Ucraina.
Alberto Camerotto riesce a spiegare i temi portanti del racconto della caduta di Troia, un autonomo blocco narrativo epico, in modo semplice ma non banale. Il suo saggio è strutturato come una grande narrazione in cui – a fianco di frequenti citazioni dagli autori analizzati (soprattutto Omero, Virgilio, Petronio, Quinto Smirneo e Trifiodoro), in greco e in latino, seguite dalla traduzione, e di un apparato di rigorose note di carattere filologico che dispiegano un’ampia bibliografia sull’argomento – incontriamo uno stile diretto e, per l’appunto, narrativo, caratterizzato da un periodare breve, con frequente punteggiatura, capace di creare nella mente del lettore immagini forti ed efficaci che lo accompagnano nel susseguirsi del racconto. L’analisi dello studioso si incentra quindi su “quattro motivi che fanno da punto di riferimento o da nuclei tematici della narrazione, attorno ai quali si aggregano gli altri motivi: la guerra infinita, l’inganno del cavallo di legno, la festa della liberazione, la persis della città”.
Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.
Nel racconto della caduta di Troia c’è un oggetto che spicca sopra tutti gli altri: è il gigantesco cavallo di legno che serve per la conquista e che costituisce il secondo nucleo tematico analizzato dall’autore. Il cavallo è altissimo, grande come un monte; il suo ideatore è Odisseo, mentre il costruttore è Epeo. Il cavallo rappresenta il trionfo del dolos, dell’inganno, l’unico modo per concludere una guerra di dieci anni. Esso, nei racconti di Virgilio e di Trifiodoro, assume anche connotazioni mostruose perché produce, appunto, un ‘parto’ mostruoso, i guerrieri che escono dal suo ventre: “c’è qualcosa di inquietante, è l’immagine spaventosa della vita che genera la guerra e la morte. Sono le contaminazioni che annunziano la persis”.
D’altra parte, contaminazioni inquietanti sono presenti anche nella descrizione della festa della città. I Troiani, infatti, introducono il cavallo in città convinti che si tratti di un dono dei Greci in occasione della fine della guerra e preparano una grande festa per accoglierlo. Gli avvertimenti di Laocoonte e Cassandra non vengono ascoltati e gli strepiti della festa si diffondono dappertutto travolgendo agni freno, ogni allarme, ogni resistenza. Nel momento in cui i guerrieri achei escono dal ventre del cavallo e cominciano ad uccidere i cittadini inermi, i cibi, il vino, le armi e il sangue, le grida di festa e quelle di dolore si mescolano in una inquietante antitesi: “Si muore come i maiali sacrificati nel banchetto infinito di un ricco signore, nella festa più grande” e “il vino rimasto nelle coppe si confonde col sangue”. La categoria della guerra si mescola con quella della festa: gli stessi oggetti (le tavole, i tizzoni dei bracieri, gli spiedi delle carni) che prima erano serviti per banchettare si trasformano in armi. Nella festa fa irruzione la morte: sembra di trovarsi di fronte al “vicinato” festa-carnevale-morte che Michail Bachtin intravede nel racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), nel momento in cui la stessa “Morte Rossa”, la terribile pestilenza, sterminando tutti i partecipanti di una festa in maschera, riesce a penetrare nel castello dove un gruppo di giovani nobili si era rifugiato illudendosi di sfuggire all’epidemia.
L’ultimo motivo su cui si concentra l’attenzione dello studioso è il momento della caduta vera e propria di Troia che, è vero, “è solo una notte. Ma è qualcosa di più terrificante di dieci anni di guerra. Sono necessarie altre categorie per interpretare ciò che avviene. È un altro racconto”. È un momento in cui “ogni figura diventa un simbolo dell’immaginario della persis. Si ripete sempre, a ogni nuovo racconto”. Ogni individuo diventa una metonimia della sanguinosa caduta della città: ad esempio, Deifobo sta per i difensori, Priamo per la città e per i vecchi, Astianatte per la sorte dei bambini, Cassandra per il destino delle donne. Sono nomi famosi ai quali il nostro immaginario può associare i genocidi di esseri indifesi di ogni tempo: Astianatte, il figlio di Ettore scagliato giù dalle mura di Troia da Neottolemo su consiglio di Odisseo (il quale, adesso, appare come un efferato criminale di guerra e non come l’eroe errante perseguitato dagli dei consegnatoci dall’Odissea), diventa l’emblema dei bambini vittime delle guerre; Cassandra, la figlia di Priamo, profetessa condannata a non essere creduta, delle donne vittime di stupri e violenze. Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.