di Emilio Quadrelli
“La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie” ( Keny Arkana – La Rage)
Lo sguardo di un “flâneur”
“Non sei tu che scegli Marsiglia, è Marsiglia che sceglie te”, così i marsigliesi amano parlare della propria città. Da sempre Marsiglia coltiva un fascino dal quale è difficile sottrarsi e che tanto la letteratura quanto la cinematografia hanno non poco contribuito a rendere eterno. Con orgoglio i marsigliesi, o almeno quelli non possidenti, sottolineano che Marsiglia non è la Francia e soprattutto non è Parigi. E con Parigi si intende la “piccola Parigi” ovvero tutto ciò che è estraneo agli sterminati territori nord della capitale con i quali, invece, i rapporti sono piuttosto stretti tanto che, nel periodo estivo, non sono pochi i banlieusards parigini che vengono a trascorrere la vacanze da parenti o amici marsigliesi.
L’antagonismo con Parigi è a dir poco enorme poiché a fronteggiarsi sono due “visioni del mondo” del tutto antitetiche e che nulla hanno a che fare con le pur non secondarie frizioni proprie del “campanilismo” nostrano. Libri come Duri a Marsiglia o la trilogia di Izzo, solo per citarne alcuni, o film come Borsalino e Borsalino &Co, oltre i noir d’autore che hanno visto Marsiglia più come un “luogo dell’anima” e l’esemplificazione di una vera e propria Weltanschauung, piuttosto che un suggestivo paesaggio dove incorniciare delle storie, hanno fatto di questa città qualcosa di speciale. La stessa “cronaca nera” italiana non si è sottratta a ciò: basti pensare ai fiumi di inchiostro, al limite del poema epico, versati per narrare l’epopea del Clan dei marsigliesi e dei suoi principali esponenti, Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer i quali, in fuga da Marsiglia, avevano fatto base a Roma dove diedero prova di quanto meritata fosse la loro fama. Nelle cronache dell’epoca, infatti, i loro nomi primeggiano al fianco di figure di un calibro, solo così per dire, come quello di Francis Turatello1.
La fama di Marsiglia è tale che anticipa di gran lunga i suoi abitanti. Sola città europea capace di competere, per “insicurezza” e “criminalità”, con le più turbolenti città sudamericane, Marsiglia ha sicuramente qualcosa di magico e speciale tanto che il detto: “Marsiglia o la si ama, o la si odia”, contiene più che un grano di verità. Difficile, pertanto, sottrarsi al fascino che, sin dal momento in cui si scende la scalinata di Saint-Charles, la città ti obbliga a respirare. Nello scrivere di e su Marsiglia vi è sempre il rischio di finir catturati dal mitologema che la città si porta appresso, finendo così con l’essere influenzati in ogni tentativo di narrazione. Sicuramente il breve resoconto etnografico che segue potrebbe non risultarne del tutto immune. Tuttavia, con tutte le cautele del caso, chi scrive ha cercato di mantenere una certa sobrietà prona ai dettami dell’ “oggettività” e dell’ “avalutatività”2.
Frutto di un soggiorno di circa un mese (dal 9 gennaio al 4 febbraio 2023) nella città del minstral, la ricerca si proponeva l’obiettivo di descrivere alcuni aspetti della vita sociale delle masse subalterne e il loro rapporto con i movimenti politici antagonisti, tutto ciò in scia a un testo, Rosso banlieue3, il quale, per molti versi, ha aperto un filone di ricerca sulla “marginalità sociale” in aperta controtendenza alle retoriche convenzionali proprie della pubblicistica di buona parte della sinistra e degli stessi movimenti antagonisti. La ricerca si è svolta adoperando le tecniche proprie dell’etnografia sociale, a partire dall’utilizzo di alcuni gatekeeper che hanno consentito l’accesso all’interno di determinati contesti sociali e urbani, oltre alla consolidata pratica della “osservazione partecipante”4. La ricerca ha avuto l’ambito sportivo (una sala boxe) come base operativa il che, essendo chi scrive un ex atleta agonista, ha consentito di stabilire sin da subito una buona dose di empatia e fiducia con un certo numero di attori sociali. La raccolta di “storie di vita” e alcune “interviste in profondità” costituiscono l’io narrante del testo5. Detto ciò, prima di calarci nel racconto degli attori sociali, proviamo a inquadrare il contesto di cui parliamo attraverso tre brevi flash di vita urbana.
Marsiglia, un qualunque pomeriggio infrasettimanale, tram 1, fermata George. Davanti agli occhi di chi non è marsigliese si presenta una scena foriera di facili malintesi. Una trentina di persone in divisa blu, facilmente scambiabili per flics, occupano per intero la fermata e gli spazi a questa adiacenti. La cosa più ovvia da pensare è che sia accaduto qualcosa di piuttosto serio. Una rapina, un conflitto a fuoco, forse un omicidio. Sul tram nessuno mostra un qualche interesse per ciò che accade, solo lo sprovveduto straniero si mette a osservare il tutto con non malcelata curiosità. Pochi attimi e tutto si chiarisce, e quella che, a un primo sguardo, poteva apparire come una maxi operazione di polizia, si rivela per qualcosa di assai più prosaico: gli uomini e le donne in divisa blu non sono flics ma verificatori dei titoli di viaggio. Bloccando e circondando i pochi passeggeri scesi dal tram, controllano che gli stessi non siano “portoghesi”. Uno spiegamento di forze apparentemente sproporzionato ma che, come in seguito mi verrà spiegato, non ha nulla di eccezionale. Quello è il modo abituale in cui operano i “controllori” e lo è a ragion veduta. Agire in gruppi numerosi, non salendo sui mezzi pubblici, ma verificare i titoli di viaggio solo a terra e quando i rapporti di forza si mostrano estremamente favorevoli, rappresenta il solo escamotage per evitare di venire sopraffatti da viaggiatori senza biglietto. Una esposizione dei fatti che, tra gli abitanti di Marsiglia, non suscita particolare apprensione. Come tutte le pratiche sociali consolidate, alla lunga, diventano semplice routine.
Marsiglia, un normale sabato sera nel quartiere La Plaine. Prima di addentrarci nella breve descrizione degli eventi, occorre dire due parole su questo quartiere poiché, in maniera tanto sintetica quanto efficace, è in grado di focalizzare due aspetti della vita di questa città particolarmente significativi: i processi di esclusione e marginalizzazione sociale e, in seconda battuta, la non secondaria aporia tra “movimento” e classe. La Plaine, infatti, non è il classico territorio dove una borghesia benpensante e conservatrice conduce la sua esistenza mantenendo il più possibile le distanze, anche attraverso una rigida sorveglianza armata, dalle classi sociali subalterne, bensì un quartiere di sinistra, progressista, alternativo e assai distante dalle retoriche reazionarie. Una realtà che, per usare un termine à la page, fa tendenza e che, per molti versi, sembra indicare il futuro prossimo di Marsiglia che, negli ultimi tempi, è diventata la principale meta dei bobos, di quel ceto medio mediamente ricco di “capitale culturale” al quale, per lo più, non corrisponde un “capitale economico” di pari valore6. Usando una terminologia forse un po’ datata, questo ceto incarna il volto contemporaneo del riformismo e della socialdemocrazia ed è alla ricerca di un “modello” sociale e urbano in grado di cogliere le opportunità offerte dalle società postmoderne smussandone al contempo le aporie7. La Plaine, di tutto ciò, ne incarna una felice sintesi seppure, a uno sguardo neppure troppo attento, le aporie della postmodernità non sembrano trovare una qualche felice soluzione, semmai il contrario. Nel fine settimana, infatti, i ragazzi dei quartieri Nord piombano come barbari8 nel “quartiere alternativo”, con intenti non proprio pacifici. Benché le cronache focalizzino gli sguardi sui furti e le rapine, che sicuramente accadono ma sono di portata assai limitata, ciò che in questi comportamenti sembra emergere è soprattutto “la sfida”. Si tratta, cioè, di penetrare in un territorio che, per come pensato e organizzato, è deputato a tenerli fuori. Di ciò, la sintetica descrizione che segue offre una buona esemplificazione.
Verso le 23 di venerdì 20 gennaio, accompagnato da due ragazze del Collectif boxe, mi reco sulla spianata del quartiere La Plaine. I locali traboccano di persone che entrano ed escono, molti i giovani che si passano qualche “canna” seduti sui muretti che delimitano il piccolo “parco giochi” dei bambini. Gli ingressi dei locali sono presieduti da “buttafuori” che regolano l’entrata e l’uscita mentre altri ne sorvegliano gli interni. Gruppi di polizia mobile stazionano ai bordi del quartiere operando, di quando in quando, dei fermi e dei controlli. La prima impressione che capita alla mente del casuale “flâneur” è di trovarsi di fronte a una “Disneyland dell’alternativo” dove, all’interno di un perimetro ben delineato, “stili di vita” non convenzionali possono essere consumati in piena tranquillità. Una sorta di “oasi liberata”, ma socialmente e culturalmente perimetrata9, che non presuppone l’irrompere di alcun guastafeste10 ed è esattamente qua che entrano in ballo i “ragazzi dei quartieri Nord”. Un gruppo di questi, una decina, tutti maschi (prevalentemente di “pelle scura” anche se era visibile la presenza di almeno due blanc) è riuscito a intrufolarsi nei perimetri della “Disneyland dell’alternativo”, entrando immediatamente in contatto con la sicurezza. Immancabilmente ne scaturisce una rissa nella quale la piccola gang ha la peggio tanto che, in fretta e furia, è costretta a ripiegare. Nella fuga i ragazzi rovesciano tavoli, si appropriano di ciò che trovano a portata di mano e riescono a dileguarsi. A questo punto la nottata prosegue seguendo tranquillamente i suoi ritmi e i suoi rituali. Verso l’alba, la “Disneyland dell’alternativo” smobilita.
Queste cose, per molti versi e avendo in mente il panorama italiano degli anni Sessanta e Settanta, non sono certo nuove11. Le incursioni delle giovani gang dentro i quartieri borghesi erano pressoché all’ordine del giorno, così come l’irrompere di queste nei locali e nelle discoteche frequentati dai “ragazzi bene” erano una delle tante “sfide” che facevano da sfondo ai loro “rituali”. Una pratica sociale che trovò, almeno per un certo periodo, anche una sua concretizzazione politica attraverso i “Circoli del proletariato giovanile” milanese, il cui apice fu raggiunto con l’ “attacco alla Scala”12. Ciò che distingue quanto accade a La Plaine da quel che abitualmente andava in scena dentro i “quartieri bene” delle metropoli italiane è il blocco sociale con cui le gang contemporanee si scontrano. Nel primo caso era la borghesia in doppio petto e pelliccia a essere l’oggetto delle incursioni barbariche, oggi si tratta di un ceto sociale decisamente casual che sfoggia con un certo compiacimento piercing e tatuaggi13. Si tratta, almeno in apparenza, di episodi del tutto marginali che tuttavia sono in grado di raccontare qualcosa di non secondario sul modello sociale che governa la città. Ad andare in scena, al di là delle volontà degli attori sociali in gioco, è una nitida fotografia delle relazioni di potere che fanno da sfondo alla società contemporanea dove linea di classe e linea del colore si intersecano, ma non solo.
Ciò che a prima vista può apparire come l’eterna reiterazione de I ragazzi della via Pál14 in realtà sottende a qualcosa di ben diverso; da una parte un blocco sociale socialmente legittimato e, in virtù di ciò, detentore a pieno titolo di linguaggio (politico), dall’altra una massa informe, priva di volto e dai tratti barbarici, marginalizzata, socialmente esclusa e in grado di esprimersi solo con e attraverso la semplice voce15. Non per caso, qualche anno addietro, Sarkozy, per definire questa massa senza volto usò il termine racaille, ovvero qualcosa che è fuori dai perimetri della vita civile ed è priva di legittimità politica e sociale16. Una massa prevalentemente in “pelle scura”, dove i retaggi del colonialismo si fondono con la condizione proletaria. Una condizione alla quale non sfuggono, nonostante il loro essere blanc, i giovani “francesi francesi” poiché, come in La Haine è stato molto ben narrato, la condizione di marginale scurisce, di fatto, anche la pelle dei blanc17. Questo lo scenario razzista che fa da sfondo a Marsiglia e che, come vedremo meglio in seguito, è diventato un fronte di lotta non secondario di alcune realtà operaie e proletarie.
Un normale giovedì pomeriggio nei pressi de La Castellane, la banlieue Nord di Marsiglia divenuta famosa nel mondo perché vi è nato e cresciuto Zidane. Ciò che per un abitante di Marsiglia appare come semplice routine, agli occhi di un ospite casuale assume ben altri aspetti. All’improvviso al visitatore sembrerà di essere davanti a un televisore e osservare le abituali immagini di un check point israeliano in prossimità di un “valico palestinese”. L’ingresso in banlieue, infatti, è regolamentato, in entrata e in uscita, da un imprecisato numero di forze di polizia in pieno assetto tattico. Ogni persona, ogni macchina, sono attentamente identificate e perquisite. L’operazione può andare avanti per ore senza che sia accaduto un qualche fatto che potrebbe giustificare un tale spiegamento di forze. Molto di rado, e solo con una notevole supplenza di mezzi, le forze di polizia si azzardano a penetrare all’interno dell’agglomerato urbano, poiché il rischio di andare incontro a conflitti armati di non secondaria intensità non è irrisorio. Il grado di armamento presente tra la popolazione di questi territori è tanto noto quanto ampio. Per questi motivi il controllo del territorio avviene prevalentemente sigillandone i bordi. L’operazione, come mi viene spiegato dalla mia accompagnatrice, non è collegata ad alcuna situazione particolare: ciò a cui si assiste è la normale routine del “lavoro di polizia” nei confronti degli abitanti dei “quartieri Nord” ma che, per chi non vi è abituato, appare come una vera e propria operazione di guerra.
Queste brevi descrizioni ci consentono di dire già qualcosa sulla città e il modello sociale che la caratterizza. A fronte di una retorica mainstream che fa di Marsiglia una città turistica esemplificata dalla cartolina del Vieux port, emerge una metropoli densa di conflitti e per nulla pacificata, nella quale si annida una non secondaria carica esplosiva. Si tratta tuttavia di un potenziale che il più delle volte non va oltre la rage. Attraverso questa ricerca si è provato a raccontare le attività di alcune realtà sociali e politiche che stanno lavorando per dare progettualità politica e forza a la rage.
(1 – continua)
Al proposito si veda: A. D’Agostino, Francis Faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milieu, Milano 2012 ↩
M. Weber, Il metodo delle scienze storico – sociali, Einaudi, Torino 2014 ↩
A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi, Ombre Corte, Verona 2022 ↩
Praticamente impossibile, vista la vastità dei testi che la riguardano, stilare un elenco in grado di rendere conto della densità di argomentazioni che questo tipo di ricerca ha e continua a suscitare. Per una buona esemplificazione teorica, suggellata da una non secondaria esemplificazione empirica, si può vedere: A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Roma – Bari 2006. ↩
Per molti versi lo “stile di lavoro” qui adottato si colloca sul solco di un testo come La città e le ombre, A. Dal Lago, E. Quadrelli, Feltrinelli, Milano 2003, che ha provato a narrare la storia di una città (Genova) attraverso la voce delle ombre, ovvero di quella quota di popolazione invisibile ma costantemente evocata, in quanto foriera di insicurezza urbana e degrado sociale, dalla teoria politica e sociale ufficiale. Con tutti i suoi limiti, quindi, anche questo lavoro ha provato a dare linguaggio a coloro i quali l’ordine discorsivo dominante obbliga al mutismo. ↩
Su questo aspetto, per quanto datato, rimane fondamentale un “classico” della sociologia, P. Bourdieue, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001 ↩
Paradigmatico, al proposito, S. Stavrides, Spazio comune. Città come commoning, Agenzia X, Milano 2022 ↩
Sui barbari rimangono del tutto attuali le suggestioni di Foucault e, in particolare, quelle esposte in Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009. ↩
Cfr., E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969 ↩
Utilizzo il termine di guastafeste facendo riferimento a H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000 ↩
Cfr., E. Quadrelli, Andare ai resti, Derive Approdi, Roma 2004 ↩
Cfr.: G. Martignoni, S. Morandini, Il diritto all’odio, Bertani, Verona 1977 ↩
La “divisa” degli abitanti dei “quartieri Nord” è ampiamente riconoscibile poiché indossano tute, soprattutto Adidas e Puma, completi dell’Olympique de Marseilles o completi mimetici mentre il look degli abituali frequentatori de La Plaine è quello del casual finto trasandato, il termine dégagé lo rende al meglio, oltre a avere tagli di capelli del tutto diversi, corti e rasati quelli dei “quartieri Nord” lunghi o con i dred gli altri, il che rende immediatamente identificabili i due gruppi sociali. ↩
F. Molnar, I ragazzi della via Pál, Feltrinelli, Milano 2013 ↩
Su questo aspetto rimangono fondamentali le argomentazioni di Agamben in Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Miano 2005. ↩
Questo l’appellativo utilizzato da Sarkozy nei confronti degli abitanti della banlieue in occasione degli émeutes del 2005. Cfr., A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”, cit. ↩
Cfr., A. Bugliari Goggia, Rosso banlieue, cit. ↩