di Valentina Cabiale
L’archeologia è una fonte inesauribile di metafore a cui hanno attinto molti autori: Sigmund Freud, Michel Foucault, Bruno Latour, Wislawa Szymborska, Giorgio Agamben, Umberto Eco, Italo Calvino, Gianni Celati, per citarne soltanto alcuni. Lo scavo in profondità; la stratificazione del sepolto, di ciò che è andato perduto o è stato abbandonato; il ritorno del passato e del represso; il fascino della rovina e il culto della frammentarietà: tutti concetti, categorie visuali e di pensiero, che rapidamente dal materiale possono essere trasposti ed esperiti nell’interiorità, nella psiche, nella dimensione filosofica della modernità, e talvolta sono così potenti da essere usati anche inconsapevolmente o quantomeno non dichiaratamente.
Nella 59esima Biennale Arte di Venezia, conclusa a fine novembre 2022, diversi erano gli spunti interessanti sull’uso a livello metaforico, immaginativo e creativo dell’archeologia. In particolare in due padiglioni, quelli spagnolo e tedesco. La riflessione che segue non ambisce a una critica d’arte; è congetturale, alternativa, volta a una lettura e più che altro a una rivendicazione archeologica dei concetti alla base delle scelte dei due artisti.
I due padiglioni permanenti sono localizzati nei Giardini nel Sestiere Castello, sede storica della manifestazione artistica; sono stati costruiti quello tedesco nel 1909 (progettista Daniele Donghi), quello spagnolo nel 1922 (Javier de Luque). Nell’ultima Biennale gli artisti, rispettivamente Maria Eichhorn e Ignasi Aballì, invece di utilizzare il manufatto architettonico come il contenitore delle opere d’arte, delle installazioni o performances, hanno scelto di mettere in discussione il padiglione stesso. Hanno trattato l’edificio, analizzato e manipolato le sue forme materiali e planimetriche, le murature e gli spazi interni. I due padiglioni erano gli unici, in tutta la Biennale, che di fatto risultavano vuoti.
Nel padiglione della Germania il progetto artistico, denominato Relocating a Structure, è consistito in un progetto (rimasto a tale stadio e non realizzato) di delocalizzazione dell’edificio: l’idea, cioè, di spostarlo per il periodo di apertura della Biennale e solo successivamente ricollocarlo nel sito originario. Una traslazione temporanea che avrebbe comportato – e ha in effetti comportato, anche se solo a livello di immaginario e di ipotesi – l’assenza del Padiglione Germania, lo spazio vuoto lasciato da esso.
In parallelo al progetto di delocalizzazione è stato effettuato uno studio “archeologico” dell’edificio stesso, la cui storia è ben nota (costruito nel 1909, è stato ampliato nel 1938) ma delle cui fasi più antiche sono state messe in luce tracce materiali sotto gli intonaci dei muri e al di sotto del pavimento, effettuando un vero e proprio sondaggio di scavo in una parte del salone centrale. La rimozione dell’intonaco ha portato in evidenza i punti di giunzione tra i due corpi architettonici, le aperture delle finestre e delle porte dell’edificio originario, rendendo così visibili parti di un edificio che risultava del tutto nascosto dalla ristrutturazione in età nazista. Nella specifica messinscena artistica, per svelare l’evoluzione storica del padiglione e gli aspetti connessi (l’ampliamento del 1938 e il rifacimento della facciata hanno determinato la realizzazione di un edificio molto meno proporzionato alle dimensioni umane e nel quale è sottointesa una valenza di potere, di prevaricazione), si è ritenuto necessario fornire una “prova archeologica”, ovvero delle tracce materiali, non discutibili. Una memoria materica alla quale facevano da contraltare, tra gli elementi costitutivi del contributo artistico per il Padiglione Germania, anche le visite guidate ai luoghi della Resistenza e della memoria di Venezia, che si sono svolte due volte a settimana per tutto il periodo di apertura della kermesse.
L’intervento di Maria Eichhorn è quindi consistito nella messa in scena artistica di uno scavo archeologico e di un’analisi della stratigrafia muraria. Sfogliando il catalogo, però, di archeologia non si parla.
Il padiglione della Spagna, Correction, appariva ancora più straniante. Completamente vuoto, le pareti tutte bianche, gli spazi altissimi inondati dalla luce diffusa dal tetto vetrato, con i giochi di luce determinati dalle capriate del soffitto. I pochi visitatori si aggiravano smarriti, cercando oggetti in esposizione. Chi non ha letto il pannello iniziale è uscito senza essersi reso conto delle correzioni messe in opera dall’artista. Egli ha infatti modificato lo spazio interno del padiglione, costruendo nuovi muri alti dal pavimento al soffitto e di orientamento leggermente variato: il nuovo edificio temporaneo era ruotato di 10° così da risultare allineato con i padiglioni adiacenti. L’artista ha quindi creato, dentro alla struttura esistente, una fase costruttiva successiva del padiglione: nuovi muri che in parte si appoggiavano a quelli esistenti, in parte li raddoppiavano, li nascondevano alla vista, li de-funzionalizzavano.
Qui la metafora archeologica è più sottile e, probabilmente, più inconsapevole di quanto osservato nel padiglione tedesco. La compresenza di più fasi strutturali caratterizza molti siti archeologici musealizzati, immobilizzati nella situazione raggiunta dallo scavo archeologico che è spesso incomprensibile allo sguardo, poco leggibile perché corrispondente alla compresenza di più temporalità che, tutte insieme, non sono indicative di nessun tempo reale, di nessuna concreta umanità passata. La planimetria del nuovo padiglione corretto, rappresentata nel pannello all’ingresso della mostra, sembrava la pianta di un edificio antico scoperto in uno scavo, con le sue due fasi. L’artificiosità messa in atto da Ignasi Aballì nel doppio padiglione spagnolo richiama l’artificiosità di uno scavo archeologico musealizzato con conseguenze e rompicapi visivi in qualche modo simili: la difficoltà di fruibilità degli interni, la creazione di spazi non percorribili e di volumetrie assurde create dalla compresenza di vecchio e nuovo.
L’idea di mettere in discussione il padiglione stesso, proposta dai due artisti, può essere letta da molti punti di vista e forse apparire un punto di non-ritorno (una volta che il padiglione è stato svelato e destrutturato, potrà ancora essere utilizzato come mero espositore?). Il fatto che per questa messa in dubbio del “contenitore” storico si sia fatto ricorso a metafore e a categorie visive archeologiche fa riflettere sul potenziale eversivo, anche solo (e forse soltanto) a livello immaginativo, dell’archeologia. Quest’ultima è, tra le discipline moderne e occidentali, quella che, per i suoi metodi e la sua stessa ontologia, più mette in discussione e destabilizza lo spazio in cui viviamo, sottoterra e sopraterra (oltre che il concetto stesso di proprietà); attraverso l’atto, per molti incomprensibile e ingiustificabile, dello scavare, del dissotterrare, dell’andare alla ricerca – anche quando non si scava ma si eseguono survey superficiali o si studia l’evoluzione dell’edilizia storica nelle facciate dei palazzi – di tracce, reperti, frammenti materiali di epoche e persone passate e in generale di tutto quello che non è restato. Ha un’essenza o natura controversa, anzi è contro-natura (o meglio, contro-cultura); è un incaponirsi ad andare a riprendere e riportare qui, nella nostra contemporaneità e nel futuro di chi lo riceverà in eredità, qualcosa che il corso naturale delle cose ha lasciato indietro. Una disciplina e un’attività invasiva che però può modificare lo sguardo che posiamo sulle cose, sui paesaggi urbani e rurali – ma solo se impariamo a comprendere, accettare e abitare quella temporalità molteplice che all’inizio appare straniante, un po’ fastidiosa e francamente inutile.
Se non è sorretta dalla conoscenza profonda delle stratificazioni materiali che calpestiamo e guardiamo senza vedere, se viene esperita soltanto come metafora o forma artistica, l’archeologia ha un potere eversivo ed evocativo forte ma brevissimo, veloce, come il taglio nella tela di Fontana. Una cosa che ripensi e analizzi a livello concettuale; ma quel gesto, per quanto sia ripetibile fino alla noia, ti sconvolge e perturba una volta sola. Messa in scena, l’archeologia è malinconica come un padiglione vuoto. O si ha la forza (intellettuale, espressiva) di rivendicare la metafora e innestarla nel reale, nel fare (dare vita a quello sguardo curioso e vivace, che non si spaventa), oppure può servire solo per un po’ di tempo, poi occorre prenderla e metterla da parte.
In uno dei film più belli degli ultimi anni, Scompartimento n. 6 di Juho Kuosmanen, vincitore Gran Premio speciale della giuria a Cannes 2021, l’archeologia è metafora della ricerca interiore e della fuga. Laura, una ragazza finlandese aspirante archeologa, parte in treno da Mosca diretta in Siberia, per vedere i petrogrifi di Murmansk. Non la accompagna la donna di cui è innamorata, che per lei ha avuto una infatuazione passeggera. Nel lungo viaggio Laura stringerà un legame con Ljoha, un minatore russo, sulle prime molesto e antipatico. Lui la accompagnerà a vedere i petrogrifi, sotto la neve, per quanto non gliene importi nulla di quelle incisioni antiche e non sappia che farsene, anche se è rimasto sorpreso della frase un po’ banale che lei gli ha detto in treno: “Penso sia importante sapere da dove veniamo”. Non capiamo se alla fine lei li veda davvero, sulle rocce che digradano verso il mare. Probabilmente sì. Ma la scena che conta è la successiva: Laura e Ljoha che giocano nella bufera, esausti a correre, a lanciarsi la neve addosso – per resistere, per sopportare il vuoto di ciò che andato perduto.
A questo l’archeologia – anche se non la pratichi ma la pensi, la elabori più o meno a tua insaputa, la cerchi (i petrogrifi di Murmansk) – può servire: a farti arrivare in un punto che non è poi tanto importante di per sé ma che per qualche ragione ti serviva raggiungere e vedere; vale come percorso, come viaggio e tentativo; vale certamente come fuga; e dopo un po’ le dai le spalle e ti butti nella vita vera.