di Serena Penni
Quando ero bambina mi volevi un bene immenso. Ritrovo tutto quel bene in una serie di immagini: tu che mi compri un gelato al cioccolato, tu che mi asciughi le lacrime dopo una caduta dalla bicicletta, tu che mi stringi la mano mentre mi trascini sicura in mezzo a una folla di sconosciuti. La domenica andavamo sempre a trovare i nonni. A me quelle giornate lunghe, fatte di film per bambini, giochi da tavolo, torte margherita e baci sulla guancia non dispiacevano. Mi dispiaceva però sentirti parlare con tono alterato, vedere i lineamenti del tuo viso tendersi, il tuo sguardo inquieto cercare invano un appiglio tra volti annoiati e sospiri di impazienza. Il mio mondo era ancora altrove. Coccolavo la cugina piccola, ammiravo la grande. A quei tempi non capivo che cosa ogni domenica ti portasse nella villa sontuosa i cui abitanti ti facevano stare così male. Mi sembravi un mulo ottuso e testardo, un cane che si è autocondannato a inseguire un padrone crudele. Oggi invece mi fai compassione se ti rivedo nei tuoi gesti di stizza, nelle tue porte sbattute, nel tuo tornare ancora e ancora dove avresti trovato solo dolore.
A sera rientravamo a casa nostra, e tu eri quella di prima. Ero felice con te, poi un giorno tutto è cambiato. Deve essere successo in maniera lenta, graduale, ma io me ne sono accorta all’improvviso. Avevo dieci anni, ero seduta sul tappeto della mia camera a vestire e svestire la mia unica barbie. Avevo visto, attraverso la grande finestra, il pomeriggio farsi sera e la sera farsi notte. A un certo punto ti eri affacciata alla porta e mi avevi dato la buonanotte con aria distante. Indossavi una vestaglia a fiori. Ebbi un tuffo al cuore: ti eri dimenticata di prepararmi la cena. Fui sul punto di dirtelo, ma mi accorsi che non avevo più fame. Mi accorsi anche che i miei capelli, i miei bellissimi capelli biondi, così simili ai tuoi, di cui eri andata tanto fiera e che un tempo mi spazzolavi per ore, erano acciocchettati e unti: da quanto non mi dicevi di lavarli? Mi spogliai, piegai con cura i vestiti e mi infilai sotto la doccia. Mentre lasciavo che l’acqua mi scorresse addosso, piangevo. Da quella sera ho iniziato a sentirmi sola e non ho più smesso.
Fare l’attrice era sempre stato il tuo sogno; un brutto giorno qualcuno ti aveva detto che forse era possibile, aveva acceso in te la luce ingannatrice della speranza. Allora ti eri buttata anima e corpo nella recitazione, vi avevi riposto tutte le tue aspirazioni, tutte le tue velleità puerili di donna fallita. Recitare ti era sembrata una buona cura per le tue frustrazioni. La rivincita su una famiglia che non ti aveva mai capito, su un fidanzato che ti aveva lasciato ancora prima che io nascessi, su una bellezza e una grazia inutili. E così io mi ritrovavo una madre che aveva deciso di dedicarsi al culto ossessivo della propria realizzazione, della propria rivalsa. Era durissimo starti accanto, dal momento che ero diventata invisibile; ormai non potevo fare altro che contare gli anni, i mesi, le settimane, i giorni che mi separavano dal momento in cui me ne sarei potuta andare.
Quando poco fa ti ho vista qui in aeroporto in fila per il check in, mi sono detta che la chirurgia estetica fa miracoli. Sono passati vent’anni e mi sembri uguale a un tempo. Hai solo preso qualche chilo. Hai ancora gli occhi e la bocca molto truccati. Ti osservo per qualche istante, poi mi giro dall’altra parte. Ti ho abbandonato una mattina fredda, d’inverno. Quando mi sono ritrovata per strada tirava forte la tramontana e io non sapevo dove andare. Mentre uscivo ti ho detto: non cercarmi, non tornerò. Ho urtato per sbaglio un bicchiere di vetro arancione che si trovava sul tavolo vicino alla porta. I pezzi di quel bicchiere, sul pavimento di marmo chiaro, sono l’ultimo ricordo che ho della casa dove sono cresciuta.
Ti ho abbandonato a te stessa e non so se hai provato rabbia, dispiacere o indifferenza. Avevi all’incirca la mia età di adesso. Eri bella, però non ti bastava. Non ti rassegnavi alla tua mediocrità. Non avevi talento, lo sapevi ma non lo accettavi. Ed era penoso per me, diciottenne magra e sgraziata, essere l’unica spettatrice del tuo quotidiano, squallido spettacolo. Anche se avessi voluto, non ci sarebbe stato modo di mettermi al riparo dalle tue esibizioni, perché abitavamo in un monolocale. La tua voce impostata mi rimbalzava continuamente nelle orecchie, la tua faccia trasformata da espressioni grottesche mi osservava da ogni angolo, si rifletteva in ogni specchio possibile.
Quando ti ho lasciato, la tramontana per me sapeva di libertà. Tu eri chiusa nella tua gabbia, intenta a leccarti ferite per me inesistenti. Ero maggiorenne da quattro giorni. Ti ritrovo solo adesso, mentre aspetti il tuo turno per imbarcarti per Parigi. Non posso fare a meno di chiedermi se la borsa rossa che stringi nella mano destra sia il tuo unico bagaglio. Non hai avuto fortuna nel teatro: la tua espressione non dà adito ad alcun dubbio.
Quando me ne sono andata di casa, ho capito subito che non avevo molte possibilità. Ero bruttina, non sapevo fare niente e non avevo amici. Ho chiesto aiuto ai nonni; le persone che tu alla fine eri riuscita a lasciarti alle spalle, le comparse scialbe delle domeniche della mia infanzia. Ho rivisto il lusso, le tende pesanti, i mobili antichi, le tovaglie ricamate, le posate d’argento e i piatti di porcellana. Qualche volta ho sentito la tua mancanza, in quel vuoto senza luce, senza conforto. Eppure sapevo che no, da te non potevo tornare.
Una mattina sono scappata anche da lì. Nessun bicchiere si è rotto, non tirava vento e anzi il tempo era primaverile. Non c’è stato bisogno di dire di non cercarmi perché tanto sapevo che a nessun abitante di quel mondo morbido e setoso sarebbe venuto in mente. In pochi mesi ero cresciuta. Avevo imparato che nessuno avrebbe potuto salvarmi. La notte prima di andarmene ho fatto un sogno. Indossavo un tutù bianco e delle scarpette rosa. Ballavo su un palcoscenico illuminato. A un tratto sentivo un applauso fragoroso e, nello stesso momento, una tromba d’aria mi avvolgeva; mi sollevava da terra e mi scaraventava con una violenza inaudita su uno scoglio in riva al mare.
Dopo aver lasciato la villa dei nonni, ho iniziato a girare, a farmi ospitare da qualche conoscente, a chiedere asilo nelle case di accoglienza, ma finivo sempre per sentirmi fuori posto. La mia storia è triste a banale, e se potessi raccontartela forse ti annoierei. Magari invece saresti curiosa, e allora ti direi: Proprio non riesci a indovinare? E poi: Scusa, prova a riflettere. Cosa sapevo fare? Niente. Cosa avevo di speciale? Niente. Possedevo solo un corpo, che a quei tempi non era né bello né brutto, ma era il corpo di una donna giovane. E gli uomini erano disposti a pagare per fare l’amore con me.
Rivedo appartamenti bui, sordidi, con troppa roba accatastata. Materassi consumati, angoli umidi, macchine che puzzano di sigaretta e di gomme da masticare alla menta, foglie secche sull’asfalto bagnato, grandi pozze d’acqua in cui si riflette il cielo plumbeo. Non ricordo più le mani, le bocche, i corpi; non sento le risate, i sospiri che pure devono esserci stati. Non ricordo i soldi con cui sono stata pagata. Le parole cattive, o ironiche, o di commiserazione che mi sono state dette. Non ricordo la faccia della persona che mi ha colpito, tranne i suoi occhi nerissimi e fissi nei miei. Ricordo invece la botta che ho preso alla testa contro lo spigolo del marciapiede; lo smarrimento, la paura e il pensiero rassicurante, venuto subito dopo, che se non c’era sangue, se non provavo dolore, non potevo essermi fatta davvero male.
Adesso che ti guardo stanca e annoiata fare la fila al check in, mi sembra strano averti tanto disprezzata, dopo tutto la mia vita non è stata migliore della tua. Almeno tu avevi un sogno, per quanto sciocco. Chissà quanto vivrai. La mia esistenza terrena si è fermata contro un marciapiede all’ora del crepuscolo, un venerdì sera. La mia anima vaga ancora, ma presto troverà pace, lo so, lo sento. Avevo solo bisogno di vederti un’ultima volta, di dirti addio.