di Gioacchino Toni
Nei confronti della “Quarta rivoluzione industriale” – modellata da informatica, telematica, robotica, Intelligenza Artificiale ecc… –, con notevole semplificazione, si tendono a contrapporre una posizione cyber-apocalittica, propria di inguaribili nostalgici del mondo analogico inclini, almeno a parole, al rifiuto se non al luddismo digitale, e una cyber-integrata, riferita a quanti sono convinti che la tecnologia risolverà ogni tipo di problemi, compresi quelli scaturiti dal suo utilizzo. Trattandosi di una polarizzazione del tutto semplicistica, utile più per ritrarre in maniera stereotipata chi manifesta nei confronti delle tecnologie posizioni ritenute distanti dalle proprie, varrebbe la pena prendere in esame la percezione che i tanti utilizzatori di Internet e dei social hanno del contesto tecnologico con cui si rapportano quotidianamente.
In un panorama come quello italiano, in cui si stima che siano oltre l’ottanta per cento coloro che navigano su Internet e accedono ai social almeno una volta al giorno, a partire da alcune delle questioni più dibattute in ambito accademico e specialistico, il volume Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani (Meltemi, 2022) di Alex Buriani e Gabriele Giacomini ha approfondito, su un campione rappresentativo della popolazione, cosa pensa chi vive in questo Paese a proposito di «dieta mediale, nuove forme di intermediazione e di comunicazione, fake news, profilazione, personalizzazione dei contenuti, disinformazione, polarizzazione, raccolta dei dati personali, echo chambers, rapporto tra ICT [Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione] e democrazia, ruolo dello Stato nei confronti di Internet e delle piattaforme, legislazione, politiche pubbliche nei confronti delle ICT, educazione e formazione» (p. 22).
Dall’indagine demoscopica condotta dai due studiosi nel periodo compreso tra il 2020 e il 2021 emerge come nonostante si critichino spesso le piattaforme digitali, soprattutto i social, non si rinunci a ricorrervi quotidianamente, ci si informa soprattutto attraverso i social media ma si teme che tale informazione sia viziata da fake news, si caricano immagini, video e pensieri personali ma si vorrebbe al tempo stesso poterli cancellare a piacimento, si accetta di concedere i propri dati alle piattaforme online pur auspicando un maggior controllo su di essi, si permette la personalizzazione dei contenuti trovando persino utile la profilazione a fini commerciali ma si desidera un universo digitale maggiormente diversificato ove poter incontrare contenuti e utenti non in linea con le proprie posizioni, si è consapevoli che con la propria presenza online si concorre a incrementare i profitti delle big tech ma si vorrebbe almeno l’imposizione nei loro confronti di una tassazione più giusta.
Secondo gli autori del volume tali posizioni manifestano come a fianco di un convinto riconoscimento dell’imprescindibilità dell’universo Internet vi sia una ferma consapevolezza della necessità di un suo miglioramento. Insomma, dall’indagine emergerebbe, secondo Buriani e Giacomini, un’estesa e trasversale volontà “riformatrice” dell’universo mediatico digitale che però non torva uno sbocco politicamente organizzato e definito.
La maggior parte dei pareri emersi dal campione interpellato non è riconducibile né a posizioni cyber-apocalittiche, né a quelle cyber-integrate, ma sembra piuttosto collocarsi tra tali due estremi; una sorta di “terza via” in cui non si intende fare a meno delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione ma piuttosto le si vorrebbe migliorarle evitando di delegare alla tecnologia le soluzioni e rivendicando, piuttosto, il diritto di partecipare a indirizzare il cambiamento verso quanto desiderato.
Tali auspici, sostengono i due studiosi, non andrebbero sottostimati leggendoli come frutto di una sorta di “ingenuità popolare”; dopotutto, ricordano Buriani e Giacomini, tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno necessitato di essere ripensate, riformate e ricalibrate anche in funzione dei desideri, dei valori e degli interessi degli individui e delle società in cui si sono manifestate.
Le tecnologie non si sviluppano meramente assecondando le architetture pianificate da qualche oscura centrale di potere dalle idee chiare; il loro percorso è costellato di ripensamenti, ripiegamenti e variazioni improvvise derivate non solo da interessi contrastanti all’interno del sistema politico ed economico ma anche da parte dei “fruitori” che si sono rivelati “attori”, forse inattesi, del mutamento.
Buriani e Giacomini sottolineano come molte questioni poste dal campione interpellato risultano dibattute a livello politico e legislativo soprattutto a livello di Unione Europea, forse perché, a differenza degli Stati Uniti, non ospita al proprio interno le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft).
La storia di Internet e delle tecnologie digitali ha vissuto una prima fase prevalentemente pubblica; le infrastrutture e il linguaggio di Internet sono nati negli Stati Uniti ove il settore ha goduto di una massiccia politica di investimenti pubblici diretti o di supporto indiretto, attraverso politiche fiscali, commerciali e tecnologiche a beneficio delle aziende. Una seconda fase digitale, coincidente con gli ultimi tre decenni, ha come protagoniste le GAFAM non a caso cresciute sul terreno fertile reso disponibile dalla precedente fase pubblica statunitense. Come da tradizione, del resto, ricordano i due studiosi, il capitale privato è disposto a investire e rischiare soltanto quando si palesano le possibilità di profitto.
La “capitalizzazione” privata degli investimenti pubblici nel settore digitale corrisponde, storicamente, all’ondata neoliberista […] caratterizzata da vari processi connessi tra loro: la globalizzazione della produzione, del commercio e dei servizi pubblici, la finanziarizzazione dell’economia. Soprattutto, i governi (da destra a sinistra, da Reagan a Thatcher a Clinton, Blair e Schröder), con l’obiettivo di rafforzare le imprese private, hanno perseguito una politica di deregolamentazione, ispirata dal settecentesco principio del laissez faire, secondo cui bisognerebbe abolire ogni vincolo all’attività economica e all’iniziativa privata. Di questo approccio ha beneficiato certamente il rampante settore digitale (pp. 258-259)
Ciò ha consentito agli Stati Uniti di generare le imprese delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione più potenti al mondo. L’imposizione fiscale di favore applicata al settore digitale e le responsabilità delle sue grande piattaforme sulla sfera pubblica e sui singoli individui in termini di controllo rappresentano, secondo i due studiosi, “effetti collaterali” della deregolamentazione. «Il punto è che deregolamentare un settore significa, di fatto, regolamentarlo a favore di un gruppo di attori (nel nostro caso, le grandi piattaforme digitali) che preferiscono essere liberi da vincoli esterni. Dal punto di vista politico, le istituzioni pubbliche, pur continuando a esercitare il lor ruolo legislativo e di governo in maniera formalmente legittima, “arretrano” effettivamente a favore di altre organizzazioni » (p. 260).
Il laissez faire libertario permesso alle piattaforme nella seconda fase della diffusione del digitale sembrerebbe trasformarsi nel suo opposto. Altro che fervore concorrenziale, le gradi piattaforme stanno sfruttando la libertà loro concessa a proprio unico interesse; d’altra parte agli apologeti della libera concorrenza i monopoli non sono affatto sgraditi, basta non siano di origine pubblica. «I presupposti del laissez faire, nell’attuale fase digitale, sembrano ribaltarsi nel loro contrario. [Il] capitalismo delle piattaforme, basato sulla registrazione dei dati, afferma una forma di vita che, sotto molti aspetti, appare più vicina alla pianificazione che al libertarismo» (p. 261)
L’eterogenesi dei fini del laissez faire, suggeriscono gli autori del volume riprendendo Marco Delmastro e Antonio Nicita, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo (Il Mulino, 2019), «potrebbe essere stata innescata da almeno due elementi principali, presenti nell’attuale assetto dell’Internet delle piattaforme: in primo luogo, dalla “privatizzazione della mano invisibile” (effetto della posizione di gatekeeping delle big tech), in secondo luogo, dal “sostegno tecnologico alla pianificazione”» (pp. 261-262).
Nonostante le apparenze, la rivoluzione digitale non sembra andare nella «direzione di potenziare la mano invisibile di Smith e la rivelazione delle informazioni di Hayek» (p. 262), vista l’asimmetria informativa imperante nell’universo digitale. La conoscenza dei gusti e degli interessi degli individui, derivati dall’elaborazione dei dati digitali che li riguardano, avvicinano il capitalismo delle piattaforme al paradigma della pianificazione. Una pianificazione in effetti sempre più tecnicamente praticabile e capace di scavalcare l’ideale del mercato concorrenziale e trasparente.
La conoscenza del mercato non sembra più essere un bene pubblico come ai tempi della “mano invisibile” teorizzata dai liberali classici (ad esempio attraverso il sistema dei prezzi), ma resta soprattutto al servizio di un’oligarchia di enormi piattaforme, dotate degli strumenti infrastrutturali e cognitivi necessari per gestire un tale genere di conoscenza e di valore. Così, la “mano invisibile” si “nasconde”, viene privatizzata e al tempo stesso è sempre più fattibile pianificare, dando linfa al potere degli neointermediari digitali. Il paradigma del mercato “libero da vincoli” viene sfidato dall’Internet delle piattaforme sia internamente, attraverso la privatizzazione della “mano invisibile”, sia esternamente, dalla novità della praticabilità della pianificazione (pp. 264-265).
Potrebbe dunque prospettarsi, sostengono Buriani e Giacomini, una terza era digitale contraddistinta dal superamento del laissez faire precedente, una nuova fase in cui le autorità pubbliche si propongono di temperare, attraverso un’opera di regolamentazione, il capitalismo delle piattaforme. E ciò parrebbe essere in linea con la richiesta diffusa, come testimonia l’indagine svolta sul campione italiano esaminato, di una maggiore attenzione a proposito dei diritti digitali e di una più decisa regolamentazione pubblica del settore.
Il futuro “governo di Internet”, però, dipenderà anche da come i desiderata della popolazione si tradurranno in “politica effettiva”. La spinta popolare, sostengono gli autori del volume, potrebbe essere interpretata in senso “liberale classico” (es. difesa della privacy e antitrust), in senso “repubblicano” (es. tassazione a fini ridistribuivi), “autoritario” (es. eliminazione del dissenso in nome della lotta alle fake news) e “conservatore” (nel senso stretto del termine, ad es. consentendo alle piattaforme di conservare, appunto, la loro propensione espansiva senza interventi pubblici).
Per chi non si accontenta delle opzioni sopraelencate non resta che interrogarsi, anche alla luce dello scemare degli “entusiasmi alternativi” della prima ora, circa la possibilità di pensare a un “governo di Internet” in termini radicalmente altri.