di Paolo Lago
Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, prefazione di M. Longobardi, trad. it. di R. Pellerino, La Noce d’oro, Rocca di Papa, 2022, pp. 139, euro 16,00.
Alcuni brani di La Bestia del Vacarés, uno straordinario romanzo dello scrittore in lingua occitana Joseph D’Arbaud (1847-1950), uscito nel 1926, erano stati tradotti in italiano da Monica Longobardi nel suo “Viaggio in Occitania” del 2019. Adesso possiamo leggerlo per la prima volta in versione integrale grazie alla bella traduzione di Rosella Pellerino, uscita recentemente per La Noce d’oro con una prefazione della stessa Longobardi. Come Pellerino osserva in una “nota alla traduzione”, è necessario restituire una dignità perduta all’occitano, ormai trasformatasi in “patois”, in una “lingua minoritaria di Francia”. Se la letteratura occitana medievale è divenuta da molto tempo un importante oggetto di studio anche in Italia, nell’ambito della Filologia romanza, quella moderna e contemporanea è rimasta pressoché sconosciuta. Ecco perché – continua la traduttrice – “quando una lingua è in pericolo, anche il compito del traduttore assume un ruolo cruciale di testimonianza e di responsabilità”.
Il romanzo di Joseph d’Arbaud è la storia di un incontro che – come sottolinea Longobardi nella prefazione – “fa tremar le vene e i polsi”. Si tratta di un incontro con l’Altro, con un’alterità selvaggia e sconosciuta, emersa da un mai sopito sostrato pagano. Siamo nella Camargue del Quattrocento e la narrazione in prima persona, per mezzo dell’espediente letterario del manoscritto ritrovato, è affidata al “gardian” (il guardiano di una mandria di tori e di cavalli) Jaume Roubaud, un solitario mandriano che percorre notte e giorno quei misteriosi territori alle foci del Rodano sospesi fra acqua e terra. Mentre vaga nelle campagne cavalcando il suo cavallo Clar-de-Luno, Jaume incontra un misterioso essere selvatico, una incarnazione del dio Pan, dagli “occhi feroci in cui ardeva una fiamma velata di tristezza che il mio sguardo a malapena riusciva a sostenere”. Se dapprima il mandriano, di cultura cristiana, lo scambia per un’apparizione diabolica, la creatura comincia a parlare dicendo di non essere un demonio e di appartenere ad un’altra cultura, quella pagana, estremamente più arcaica e sconosciuta nella Camargue medievale dominata dall’Inquisizione. Ormai vecchio e stanco, il “semidio” ha trovato un po’ di pace in quel territorio e in esso ha potuto riconoscere “quella vastità sacra nella quale un tempo mi compiacevo a esercitare la mia giovane forza, quando signoreggiavo, padrone del silenzio e delle ore, maestro di quel canto sterminato che dagli insetti della piana sale verso le stelle, riecheggia e risuona nei gorghi dell’immensità”.
La “Bestia” incontrata da Jaume Roubaud non è un’apparizione terribile e misteriosa come quella che Arthur Machen rappresenta nel suo racconto Il grande dio Pan (The Great God Pan, 1894), una terribile divinità pagana rivestita di orrore che conduce alla pazzia. Si tratta, invece, di un essere stanco e decrepito che implora aiuto e pietà, ergendosi a difensore di una natura selvaggia che sta per essere violata dall’uomo. Come un’antica divinità che si credeva spazzata via dall’avvento del cristianesimo, la “Bestia” ricompare sulla terra per riprendersi, forse per l’ultima volta, l’antico dominio sul regno animale. In un rituale notturno ed oscuro cui Jaume assiste con orrore, il misterioso essere, suonando un flauto, riesce a domare e controllare tutti i tori selvaggi della Camargue. E Jaume si porta dentro di sé l’orribile segreto: sia questa scena notturna che la presenza stessa della “Bestia”. Dopo aver visto il misterioso essere, il personaggio appare preda di un contagio di natura quasi dionisiaca: è spesso attanagliato dalla febbre e i suoi giorni sono dominati dall’angoscia. Ma, come già accennato, la “Bestia” non è un personaggio dalle connotazioni negative: vecchio, stanco e affamato, chiede aiuto al mandriano. Jaume, allora, mosso da pietà, lascerà spesso appeso al ramo di un albero un sacco con delle provviste. È così che si instaura una sorta di “amicizia” tra il decrepito semidio e l’umano: non a caso, ad aiutare l’essere pagano e primordiale è chiamato un mandriano, un uomo che vive a stretto contatto con la natura e con l’universo animale e selvatico. Nonostante la vicinanza e l’amicizia, essendo venuto a contatto con un’alterità assoluta, Jaume viene contagiato da una misteriosa malattia, un po’ come il protagonista del racconto di Daphne Du Maurier intitolato Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), il quale appare preda di un misterioso male contratto dopo essersi avvicinato ad un universo arcaico e pagano nell’isola di Creta. Infatti, “dal giorno in cui non ho potuto resistere alla sua miseria, in cui l’ho aiutato, in cui ho visto davanti ai miei occhi scorrere sul volto lacrime d’uomo, malgrado una repulsione, un orrore di cui, a tratti, non ho il controllo, porto la sua amicizia come un male nel mio sangue”.
Jaume entra in contatto con un essere che appare come un incrocio tra umano, animale e divino, espressione di un’animalità dalle connotazioni demoniche e sovversive. Se guardiamo all’incontro tra il mandriano e la “Bestia” con uno sguardo ecocritico, ecco che possiamo intravedere nel misterioso essere quasi una sorta di arcaico guardiano di un “grande paese selvaggio” – come scrive Longobardi nella prefazione – “insidiato dal disincanto della modernità”. Anche se la storia si ambienta nel 1400, nella figura della “Bestia” decrepita e invecchiata, scacciata dalla presenza umana, possiamo quasi scorgere una rappresentazione metaforica della Camargue contemporanea dell’autore, inserita in un processo di sempre maggiore antropizzazione che giunge fino ai giorni nostri. Quando Jaume entra in contatto con la “Bestia” stabilendo una sinergia con essa, abbandona, per certi aspetti, il suo sistema di riferimento antropocentrico basato su divieti e tabù anche di ordine religioso. Infatti, come nota Serenella Iovino nel suo saggio dal titolo Ecologia letteraria, quando viene abbandonato un sistema di riferimento antropocentrico, la rappresentazione letteraria dell’animale può rimandare a un senso del sacro di fronte al quale l’essere umano è messo radicalmente alla prova. Esito di tale prova è una trascendenza “sovversiva” che spinge a ripensare la stessa immagine dell’umano.
L’Altro, la creatura semidivina con cui Jaume entra in contatto, appare come una vittima del progresso e dell’antropizzazione: Jaume sceglie alla fine di non rivelare a nessuno la presenza del misterioso essere per preservarne intatta l’incolumità. Questa figura arcaica e misteriosa, se guardiamo al cinema, non può non farci pensare al fauno del Labirinto del fauno (El laberinto del fauno, 2006) di Guillermo del Toro oppure all’essere acquatico proveniente dall’Amazzonia di La forma dell’acqua (The Shape of Water, 2017) dello stesso del Toro che, raffigurazione di un’alterità assoluta e inquietante (ma naturalmente ‘buona’ e ben disposta nei confronti degli umani), nella Baltimora dei primi anni Sessanta viene imprigionato e sottoposto a crudeli esperimenti da parte di militari e scienziati. La “Bestia” del romanzo di d’Arbaud sarà destinata a sparire nel “Grand Abime”, il grande abisso, una terribile palude, “uno di quegli orrendi pozzi di fango nero dall’imboccatura non troppo ampia, ma talmente traditore che nessuna sonda potrebbe toccarne il fondo”. Nello stesso modo in cui, forse, era emersa, questa presenza ctonia e sovversiva sarà destinata a tornare alla terra tramite interstizi putridi e paludosi. D’altra parte, se ancora guardiamo al cinema, il mostruoso è stato spesso associato all’ambiente della palude, dove la terra inghiotte fin nelle sue insondabili profondità. Basti pensare al classico Il mostro della laguna nera (Creature From the Black Lagoon, 1954) di Jack Arnold, al quale si ispira lo stesso film di Guillermo del Toro, ma anche a una produzione Hammer del 1959 come La mummia (The Mummy, 1959) di Terence Fisher, in cui la mummia, dopo essere emersa da una palude alle porte di Londra (dove il suo sarcofago era stato perduto dal carro che lo trasportava), alla fine si inabisserà proprio in quella stessa palude, sparendo per sempre.
L’incontro con l’Altro cui assistiamo in La Bestia del Vacarés avviene entro un contesto dalle tonalità languide e sfumate, un paesaggio tratteggiato con tinte intrise di vera poesia. Il mandriano Jaume vive in solitudine, affidandosi ai ritmi della natura e al succedersi delle stagioni, scrutando l’arrivo del mistral, tenendo conto dell’accorciarsi o dell’allungarsi delle giornate, ascoltando il rumore del mare agitato e i fruscii delle bestie nella natura. A sera si ritira nella sua povera abitazione e si sfama con misere e semplici cibarie riscaldandosi al focolare. E, soprattutto, scrive: è tramite la scrittura vergata sul suo diario che Jaume si trasforma in personaggio letterario; è dalla sua penna che, affidandosi all’espediente del manoscritto ritrovato, d’Arbaud fa scaturire la sua storia intrisa di un sottile e lancinante mistero. Una scrittura che testimonia il perpetuarsi della vocazione ‘sovversiva’ del personaggio: la sua volontà, cioè, nonostante la probabile sparizione definitiva dell’essere (Jaume vede inghiottito dalla palude una specie di tronco dalle fattezze umane), di “cercare e cercare ancora, senza scoramento né fatica”. Cercare la “Bestia”, certo, ma cercare anche un’immagine ed un’essenza ‘altra’ che lo ha fatto uscire da sé stesso, che ha scardinato in lui la sua visione antropocentrica e che, tramite un contagio dionisiaco, lo ha fatto guardare al di là, verso un senso di empatia nei confronti dell’alterità più assoluta.