di Jack Orlando
Evento. Ripetizione. Cronaca. Normalizzazione.
Panico. Ansia. Accettazione. Assuefazione.
Nell’epoca della crisi permanente e dell’ipertrofia dell’infosfera ogni catastrofe è merce deperibile.
Ogni “evento” è destinato alla ripetizione seriale fino allo svuotamento di potenza, anticamera della sua normalizzazione e messa a sistema nella sua conversione in dispositivo di controllo.
Crack finanziario, crisi ambientale, pandemia, guerra.
Al panico diffuso dallo schermo si accoda la reazione scomposta tra chi si stringe attorno al re, colpevole della catastrofe stessa, chi tenta di denunciarne la responsabilità e chi diserta ritirandosi nel proprio guscio.
E passano i giorni senza che mai il baratro che si preannuncia dietro l’angolo arrivi mai a compimento, e la catastrofe finisce per essere metabolizzata ed accettata: attorno ad essa si rinsalda il legame sociale, più stretto, soffocante e fragile che mai.
È forse una cattiva abitudine di cultura e immaginario, quello di pensare l’evento come interruzione definitiva del continuum che porti alla fine di tutto. Apocalittismo holliwoodiano.
La realtà, più cruda, come scritta su un muro, è che la catastrofe è ogni giorno in cui non succede nulla.
A distanza di quasi un anno dall’inizio dell’operazione speciale in Ucraina, assistiamo alla normalizzazione dell’evento bellico nelle sempre più rachitiche democrazie occidentali. La Zeta segnata sui carri russi ha varcato i patrii confini inaugurando una nuova fase. E poi si è impantanata nel fango delle trincee. L’evento si è incastrato, si è replicato ed ha amplificato, anestetizzandola, la sua atrocità.
Le edizioni speciali del telegiornale, dopo il primo ossessivo clamore, sono terminate; la possibilità di una escalation termonucleare, potenzialmente definitiva per la vita sul pianeta, da minaccia terrificante si riduce a banale possibilità nel ventaglio delle variabili.
Così l’opposizione alla guerra, dai latrati scomposti, è ridotta a marchetta elettorale prima, a rivendicazione sfocata su carta da volantino poi.
La catastrofe del quotidiano, resa più insopportabile dal senso di ovattamento generale. E intanto fiumi di armamenti viaggiano verso est, piove fuoco e si accumulano cadaveri ai confini orientali della vecchia Europa, le cui fondamenta scricchiolano sempre di più lasciando presagire nuove tornate di disastri.
Afferrare il diavolo per la coda allora. Come su queste pagine abbiamo provato a fare più e più volte: cercare il punto focale da cui diramare una indagine che è azione, che si proietti oltre il futuro di oggi. O almeno, uno dei possibili punti focali.
La guerra. Già detto. Come questione divisiva e dirimente.
È desolante guardare con quanta poca verve si è accolto questo elemento, con quale grado di confusione lo si è lasciato entrare in casa.
Perché? Una prima ipotesi, avanzata da Maurizio Lazzarato nel suo ultimo libro1, perché abbiamo smesso di pensarla.
Si è smesso di pensare che la guerra potesse far parte ancora della civiltà occidentale, che non fosse uno dei presupposti della sua stessa esistenza. Che in un sistema basato sulla competizione e la supremazia la pace non sia che una parentesi, armata, tra l’esplodere delle ostilità.
Ci si è coccolati in questo pensiero, che non fu solo dei cantori del neoliberalismo con le sue magnifiche sorti e progressive, ma anche di chi avrebbe dovuto sovvertire la tendenza e rovesciare l’esistente tutto.
Tagliando fuori l’elemento bellico dal pensiero politico, non si è ottenuto altro che una immagine pacificata dello Stato e del Capitale e ci si è consegnati, disarmati, ad un nemico che si è ad un tratto creduto tollerante, nonostante la sua superiorità poggiasse sulla sconfitta truce e violenta delle classi subalterne e sulla messa al bando di ogni tentativo rivoluzionario.
E la sua superiorità non è nemmeno coincisa con una cessazione delle ostilità, anzi, più uno dei due poli è andato mostrandosi debole, più l’avversario ha colpito forte e senza pietà.
Tendenza alla guerra, inimicizia assoluta, volontà di annientamento del nemico. Lo scriveva bene il giurista tedesco.
Guerra di classe. Ma mossa dall’alto in basso.
Ed ecco allora il deprimersi delle condizioni di vita della classe lavoratrice, mentre in alto i profitti si vanno accumulando vergognosamente; ecco il restringersi degli spazi di democrazia e partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica; ecco l’esclusione di ogni critica sociale dal rango delle ipotesi accettabili; ecco la polizia come unico volto dello Stato.
Ecco che, per un petardo del cazzo, si finisce sepolti vivi nelle galere di un paese democratico.
E non dovrebbe esserci nulla di stupefacente in fondo. Non è vero che quanto successo al confine europeo è un incidente della globalizzazione.
Il capitale è nato come guerra di rapina e come sopruso. È stato forgiato in un continente cui la modalità storica della relazione tra attori in campo, la loro stessa identità, si è incentrata sulla guerra e sempre solo sulla guerra.
Dai campi recintati che hanno costretto contadini affamati e privati di terre a buttarsi nel tritacarne della fabbrica alle case di correzione per disciplinarli ad un lavoro inumano, fino ai roghi che bruciano corpi di donne per estirpare ogni traccia di cultura ed identità autonoma; il capitalismo si è imposto nella realtà europea come rapina e come brutale sottomissione di corpi ed energie collettive. Si è espanso nel globo con la guerra di corsa, con il mercato schiavile, con lo sterminio di popoli indigeni e le catene ai polsi dei popoli colonizzati.
Fabbrica, carcere, colonia, patriarcato. Le colonne portanti del sistema capitalista non si sono imposte col denaro ma col ferro. Nessun mercante avrebbe ottenuto nulla senza il servizio di un braccio armato.
Il vangelo si è diffuso nei secoli a fil di spada, come la democrazia ieri la si faceva cadere con le bombe a grappolo.
Ed è ormai da oltre un secolo, e precisamente dalla prima guerra mondiale, che è chiaro come la guerra, intrecciatasi alle potenze di industria e finanza, non rivesta più un carattere contingente e specifico, che non interessi semplicemente una parte della macchina statuale deputata, appunto, alla conduzione bellica. Ma sia affare totale.
Nell’esplosione guerresca, la distruzione dei e nei campi di battaglia, attira attorno alla macchina stato-capitale, tutte le forze e le energie creative e produttive del corpo sociale; cattura la tecnologia e la ricerca, catalizza il consenso e ammutolisce l’opposizione, scavalca gli orpelli giuridici e pone, nuda e cruda la necessità di produrre per la patria. Di dissanguarsi per la vita dei padroni.
Mettere a fuoco la guerra, la sua relazione intima e imprescindibile con il modo di produzione del capitale è un passaggio imprescindibile per poter pensare di spezzarne la tendenza mortifera.
Ed ora che il piano inclinato delle armi si è messo in moto e la sua generalizzazione si fa sempre più probabile, pur se meno rumorosa, allora diventa questione di urgenza fatale.
Non che non ci tocchi la tragedia umana di chi si vede piovere missili sopra la testa. Ma non è al cessate il fuoco sui campi di battaglia che pensiamo quando diciamo opposizione alla guerra.
Quando diciamo opposizione alla guerra intendiamo la necessità di battere alla propria latitudine il proprio padrone collettivo per farne tacere i cannoni.
Non c’è alcuna presa di posizione da fare negli schieramenti in guerra, se non quella dei disertori e della truppa che spara sui propri generali.
Zimmerwald. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile. Parigi. I comunardi contro cannoni prussiani e soldataglia francese.
Frammenti del passato per rischiarare il presente. Inattuabili allo stato dell’arte, non fosse altro che per l’impotenza delle forze antagoniste.
Eppure questo è il momento in cui, cadute le maschere, finalmente si può guardare il mondo per quello che è e la politica per la sua reale funzione. Laboratorio permanente dei rapporti di forza, dispiegamento dell’inimicizia sul piano reale.
La guerra non è una fase, la guerra è nella trama dell’esistente, ne siamo immersi.
È questo uno dei punti attraverso cui inseguire e ricucire le contraddizioni sparse sul tavolo. Uno dei fili attraverso cui ricomporre il disegno.
La pace non è mai stata un’opzione con chi ha deciso di tenere il pianeta con uno scarpone sul collo. Qui la politica, la militanza, l’azione o decidono di portare il segno dello scontro o, semplicemente, non sono.
Per imporre le condizioni per la fine della guerra, bisogna prima disarticolare l’apparato del dominio. Il famoso coltello puntato al collo dell’imperialismo.
In caso contrario, l’unica pace possibile è quella incisa nella pietra, all’ingresso dei cimiteri.
Maurizio Lazzarato; Guerra o rivoluzione. Perchè la pace non è un’alternativa; DeriveApprodi; Roma 2022;141 pp. 13€ ↩