di Giovanni Iozzoli
Questa cosa mi successe una decina di anni fa, mi pare, a Modena.
Allora esercitavo al Centro Igiene Mentale di Vignola e mi prestavo volontario a fare un po’ di assistenza presso l’Hospice del Policlinico di Modena. Avevo appena finito il tirocinio, mi serviva farmi vedere in giro, allungare un po’ il brodo del curriculum.
Non sono bei posti gli Hospice; lì si va a morire, punto. Ma alle volte si fanno delle conoscenze interessanti pure in mezzo ai moribondi.
Mi avevano chiamato d’urgenza, una mattina di Gennaio, poco dopo il rientro dalle ferie. Doveva essere il 12 o il 13, non mi ricordo. Faceva un freddo cane. Avevano bisogno all’Hospice di uno psichiatra e quel giorno non avevano nessuno disponibile. Volevano che li si aiutasse a risolvere il mistero di un ospite piovuto lì non si sa come. Ero libero e andai.
Il medico responsabile mi diede le prime informazioni, mentre entravamo nei corridoi asettici e giallognoli, illuminati dalle luci smorte.
– Questo, collega, è un caso piuttosto curioso; si tratta di un signore molto anziano, messo piuttosto male, ovviamente, altrimenti non sarebbe qui; però lucidissimo, molto presente a se stesso. L’hanno trovato due giorni fa accasciato sotto il portico del Teatro Comunale; non aveva più neanche la forza di alzarsi.
– Ma cos’ha, precisamente?
– Un tumore al cervello, allo stadio terminale. Ci ha detto che era ricoverato al San Raffaele di Milano, da dove praticamente è scappato; da lì ci hanno spedito tutta la documentazione. Dai primi accertamenti, oltre che dalle carte, ci sembra proprio questione di giorni. Però è lucido. Ed evidentemente, chissà come, aveva ancora la forza di arrivare alla stazione di Milano e prendere il treno per farsi portare qui…
– Ma che è venuto a fare a Modena, ha qualcuno qui?
– No, nessuno. Ma nessuno neanche a Milano. Non è sposato, non ha figli, o parenti in rapporti con lui. Dice che della sua famiglia non è rimasto più nessuno e quelli che ci sono si vergognerebbero di lui – ma secondo me non parlava della sua vera e propria famiglia..era un’allusione a qualcos’altro… Anche a Milano ci hanno confermato che non sono conosciuti recapiti di parenti o amici; è solo, solo al mondo; venga collega… è qui… la stanza 4… dentro c’è solo lui.
– Quindi non si capisce perché è venuto proprio a Modena?
– Non lo sappiamo… forse un posto vale un altro… forse la lucidità va e viene e si è ritrovato qui senza sapere neanche lui perché. A volte capita, agli anziani che non ci stanno più con la testa. Salgono sul primo treno e via. Ha 87 anni, deve essere un ex militare, colto e distinto, anche di buon umore – considerata la criticità della sua situazione. La prego solo: non lo faccia agitare, non gli stia addosso… senta solo se ha bisogno di qualcosa, se le confida che c’è qualcuno da chiamare…
– E l’assistenza religiosa?
– Cortese ma fermo, non ha voluto saperne del prete; e anche con noi non va meglio…forse lei riuscirà a stabilire un contatto… non vorrei che dopo la morte saltasse fuori, che so, che era uno importante… se ha qualcosa da dire, vorremmo che la dicesse a lei…
– Ah… ho capito. Avete paura che vi muoia qui, abbandonato da tutti, un grande musicista in incognito, o un poeta di 50 anni fa…
– Lei scherza, ma vedrà che non sembra una persona ordinaria… dà l’idea di un politico; sui documenti c’è scritto che è un pensionato del Ministero dell’Interno; veda un po’ lei, se riesce a farsi dire qualcosa… prego dottore, da questa parte.
– Grazie…
Mi avvicinai con una certa cautela alla soglia della stanzetta e infilai piano la testa nella porta socchiusa; le pareti erano bianche e rosa, con una bella vetrata, tutta luminosa; l’odore dei medicinali era dolciastro ma sopportabile.
Anche se ero già con tutti e due i piedi dentro la stanza, battei rispettosamente le nocche sull’anta della porta ormai aperta:
– permesso, si può entrare…?
– Preg-go… preg-go… – rispose una voce forte, roca, un po’ tremante, ma ancora decisa.
Avanzai prudente:
– mi scusi se la disturbo, sono il dottor Coppola.
– Oh… bene… ancora un altro dottore… preg-go… dov’è il suo camice, la sua divisa?
Lo sguardo dell’uomo era dritto e fermo, e ti fissava senza soggezione, mentre le folte sopracciglia nere e grigie, attraverso un loro impercettibile movimento, davano un ombra dura e ironica al suo guardare.
Era un uomo forte, sicuro di sé, abituato a comandare, nonostante gli 87 anni, il pannolone e la consapevolezza della fine vicinissima.
Un chiaro accento sardo – quell’inconfondibile incatenamento delle sillabe, che rende le frasi scandite e quasi faticose – ben si legava al suo nome: Gavino Atzori.
In un attimo capì di non avere davanti un vecchietto rincoglionito da far piangere e consolare.
Giocai subito a carte scoperte.
– Io sono uno psichiatra, non un oncologo, sig. Atzori. L’Hospice mi ha chiamato qui per capire quali sono i suoi bisogni… se c’è qualcuno da avvisare.
– No, grazie dottore (il vecchio sembrava apprezzare la mia franchezza). Ho già spiegato anche agli altri suoi colleghi: voglio finire qui, a Modena, il tempo che mi resta, tanto un posto vale l’altro… e poi… a Modena ho dei ricordi. Dei ricordi importanti.
– Giusto – dissi sedendomi sulla sedia a fianco al letto – com’è finito proprio a Modena?… ha qualcuno qui che desidererebbe…
– No… non precisamente… Da 50 anni vengo tutti gli anni, per una ricorrenza speciale. Negli ultimi due o tre anni purtroppo avevo saltato, sa’, il decorso della malattia me lo aveva impedito; ma ormai sentivo che questo era il mio ultimo anniversario e allora mi sono deciso: ho preso il treno e sono venuto fin qui, per onorare l’ultima commemorazione… Certo, la mia uscita dal San Raffaele è stata poco regolamentare – ammiccò Gavino -, ma ogni tanto bisogna anche aggirare le regole, se creano troppi intralci… mi capisce, no?
Mi protesi un po’ in avanti e notai bene la forza di quel volto squadrato. La pelle era cuoio secco e scuro, maculata di chiazze marroni, ma i lineamenti non erano quelli cascanti un vecchio; e anche i capelli argentei erano abbastanza folti per un uomo della sua età.
– ma davvero non ha nessuno qui… un parente… un fratello… un figlio che possiamo avvisare?
– No. I miei conoscenti sono tutti al Cimitero da tanti anni… di vivo non c’è più nessuno che conosca a Modena… ma lei è meridionale, vero dottore?
– Si… sono di Napoli…
– Ovviamente… dovunque sono andato in vita mia – e ne ho girati di posti – c’era sempre “uno di Napoli”…
– E lei è sardo, sig. Atzori?
– Si, sono della provincia di Sassari… ma ormai vivo in continente da più di 60 anni.
– e perché è venuto qui, Gavino? – ripetei la domanda, a costo di sembrare insolente, perché intuii che quello era il punto cruciale della storia da chiarire.
Atzori esitò un attimo, lasciando trapelare un indecifrabile sorrisino; aveva qualcosa da dire, e aveva anche deciso di dirla, ma voleva anche far capire al suo sconosciuto interlocutore che quella parte del discorso non apparteneva più al semplice “pour parler”, si entrava in un’altra zona più delicata e solenne, che meritava rispetto e cautela.
– vengo ogni anno, come le ho detto, perché qui è cominciata la mia… come dire, la mia carriera. Nove gennaio del 1950. Le dice niente?
– La sua carriera?
– Si, la mia carriera nello Stat-to, nelle istituzioni… – e pronunciò la parola Stato con una marchiatura forte, come parola sacra, non mediabile.
– Che mestiere faceva sig. Atzori?
– Sono stato in Polizia e poi sono passato alle dipendenze dirette del Ministero degli Interni. Tutta la vita per lo Stat-to. Tutta una vita in trincea, caro dottorino.
Riusciva ad essere solenne senza essere pedante, anche se non mi aveva ancora lasciato capire granchè. Pur senza grandi esperienze professionali, sapevo essere un buon ascoltatore. Per qualche strano motivo, quel distinto vecchio funzionario, mi aveva scelto come depositario di una qualche confessione laica, quel genere di cose che spesso, negli Hospital, le persone vicine alla fine sentono di potersi permettere.
Avvicinai la sedia al letto, aguzzai lo sguardo e l’attenzione, come a dare l’ok al sig. Atzori.
Lui capì e continuò:
– è cominciato tutto qui a Modena, 59 anni fa… tutta la mia vita; io ero un giovane agente di PS, avevo 24 anni. Non avevo fatto le scuole, non avevo speranze o prospettive. Avevo indossato la divisa solo per la sopravvivenza e mi sarebbe toccata sicuramente in sorte una vita meschina, mediocre, uno tra i tanti nella truppa – e lo diceva storcendo la bocca carnosa e livida, come se l’evocazione di quella mediocrità ancora lo riempisse di disgusto.
– Quella mattina c’era freddo e nebbia, e fumi neri, perchè i picchetti li facevano bruciando legno vecchio, pneumatici e tutto quello che si trovava. Povera gente. Erano come i miei, che avevo lascito a casa, in campagna. Ma in mezzo a loro, dietro alle loro file, c’erano gli altri, il nemico…
– Come il nemico… quale nemico?
– Volevano solo lavorare, io li capivo; era dura davvero a quell’epoca. Poi all’improvviso, dopo tante piccole scaramucce, successe la tragedia. Le mitragliatrici entrarono in azione. Io non ci capivo più niente. Però non scappavo. Tenevo la posizione. In mezzo alla nebbia, alle pietre e agli spari. Portavamo certi cappottoni pesanti come bare, con le bandoliere, gli schiavettoni, non riuscivamo neanche a muoverci…
Ormai il vecchio non mi guardava più negli occhi. Parlava da solo, fissando il povero Gesù Cristo rinsecchito, sulla parete vuota, di fronte a lui.
– Lei ha parlato di tragedia, Gavino: ma quale tragedia…?
– I fatti di Modena, il cosiddetto “eccidio delle Fonderie”, non se li ricorda?
Un po’ stupito, feci segno di no con la testa, vergognandomi (mi ricordavo i morti di Reggio Emilia, quelli della canzone, e poi vagamente quelli di Battipaglia, Avola, e qualche altro, ma quelli di Modena proprio no…).
– E già… voi giovani… non ricordate… ignorate la storia del vostro paese. Eppure, a mio modesto avviso, quel 9 Gennaio andrebbe ricordato, come le date delle battaglie importanti. Cominciò lì, cominciò tutto quel giorno – almeno per me. Eravamo nel vivo dello scontro. Eravamo sul crinale della storia, senza saperlo. Io mi trovavo vicino a un fossato, più in basso rispetto ai binari, in fondo allo stradello dove adesso c’è la farmacia. Lì, nei pressi, un ufficiale e un paio di colleghi avevano accerchiato un manifestante con le mani alzate, lo colpirono col calcio del fucile sulla faccia e sulla testa, poi lo spinsero nel fosso e gli spararono: il graduato con la sua Beretta e l’agente con la carabina. Gli spararono a freddo, davanti ai miei occhi; io ero lì, giovane, spaurito, non capivo cosa stesse succedendo, ma stavo al posto mio, stringevo il mio fucile forte, non indietreggiavo. L’esercito nemico era fatto di povera gente, brava gente; ma dietro a loro si combatteva una battaglia gigantesca. C’erano loro e c’eravamo noi. E io stavo sulla linea del fronte, sul terrapieno dei binari che dividevano le Fonderie dalla città. Quella era la linea di combattimento, e io là stavo. E vidi boccheggiare quel povero ragazzo in un lago di sangue, e poi lo vidi estratto dal fosso dai suoi assassini – i miei colleghi – e abbandonato, esanime, sulla strada sterrata.
Ero allibito, non riuscivo a cogliere il senso di quella rivelazione, come giustificasse la sua presenza qui, che parte in commedia avesse svolto quel vecchio moribondo.
Gavino colse il mio stupore e provò a spiegare:
– era una guerra; ma era un nemico onorevole, pieno di valore, con le sue ragioni. E’ per quello che non ho mai smesso di onorarli, tutti gli anni, da 59 anni, appunto.
Continuava a non capire come quel dramma di mezzo secolo fa avesse influenzato così potentemente la vita del sig. Atzori, fino ad indurlo, addirittura, a venire a morire là, in quella specie di luogo del delitto che era per lui la città di Modena.
– Per me cominciò tutto in quella mattina di fumo e di piombo. E di lutto. Quella mattina fu per me come una rinascita, ero venuto al mondo una seconda volta tra i binari e le mura delle vecchie Fonderie Riunite. Dopo i tragici fatti, come si diceva allora, tornati nella caserma di Bologna, l’ufficiale che avevo visto sparare – me lo ricordo ancora, si chiamava Marchini, è morto tanti anni fa – mi avvicinò e mi disse con forza che dovevo tenere la bocca chiusa, perché quello a cui avevo assistito non era stato un omicidio, ma un legittimo atto di guerra. Perché eravamo in guerra. E a me, soldato e patriota (Gavino spalancava gli occhi con solennità) era richiesto silenzio e collaborazione. Così disse. Io ero emozionato. Era la prima volta che un graduato veniva da me e si rivolgeva in modo diretto a questo piccolo capraio sardo.
Gavino sorrideva piano, ricordando la sua gioventù di fame e obbedienza cieca, quando per la prima volta in vita sua ebbe l’occasione di servire la Repubblica delle baionette.
– fui talmente concorde e risoluto che Marchini cominciò a fidarsi sempre più di me, mi prese a benvolere e cominciò a inserirmi nel suo giro riservato di uomini; poi mi fece prendere la terza media e dopo 5 anni ero già al servizio degli Affari Riservati, avevo svoltato verso la direzione giusta. Certo, l’avvio della mia carriera era dipesa da una circostanza fortuita – l’aver assistito a un omicidio; ma tutto quello che venne dietro, l’ho costruito io, passo dopo passo, giorno dopo giorno, con abnegazione, lavoro duro. E tanta fede nelle istituzioni e nello Stat-to, per cui avevo una venerazione. Certo, non ero cieco, vedevo anche io le cose storte. Ma il peccato dentro la Chiesa è segno della sua Santità, così ragionavo allora, con una mentalità da clericale, più che da soldato.
La lucidità di Gavino, a un passo dalla morte era impressionante.
Parlava piano e non sbagliava un termine o un congiuntivo. Era davvero un uomo notevole, che doveva aver passato la vita nello sforzo di imparare, di migliorarsi, in mezzo a migliaia di rapporti da battere a macchina, su carta copiativa, e in quel training doveva aver preso confidenza profonda col mondo astruso delle parole, della narrazione burocratica.
– Certo, non ho mai dimenticato da dove sono partito, la mia origine…
– Parla della Sardegna?
– No, no… parlo del terrapieno, dei binari, parlo di Modena e del sangue innocente di sei ragazzi: tutto cominciò da lì. E io tutti gli anni, in incognito, ogni 9 gennaio, mi recavo alle pubbliche celebrazioni per onorarli, per ricordarli; Arturo Chiappelli, Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Ennio Gragnani, Arturo Malagoli, Renzo Bersani. E raccoglievo anche notizie sui figli dei deceduti. Una, la piccola Marisa, ne avrà sentita parlare, andò a stare bene, se la prese in casa quel gran signore di Togliatti, un galantuomo – nemico si, ma galantuomo, gente di altri tempi, di altra pasta… Tutti gli anni, il 9 gennaio, mi infilavo in incognito, in mezzo al corteo delle bandiere rosse, e stavo lì, come a dire a quei ragazzi: io sto facendo strada nella vita, a me è andata bene e a voi è andata male, ma non mi dimentico di voi. Per molti anni le memorie dei vivi, dei compagni, dei parenti, facevano di quelle cerimonie qualcosa di molto toccante, di molto vivo. Poi il tempo passa; il ricordo di quella strage era offuscato dal sopraggiungere dei fatti nuovi, dei tempi nuovi, spesso altrettanto terribili: nel ’60 c’erano stati anche i morti di Reggio Emilia, e poi Genova e via via avanti, un Paese in continuo sussulto, indomabile, una battaglia ogni giorno. A Modena, più o meno nell’area della strage, costruirono un grande cavalcavia. Il cippo delle celebrazioni era sempre pieno di fiori, ma si era come ristretto lo spazio di quella memoria. E anche le manifestazioni diventavano sempre più rituali, una faccenda da amministratori, da fasce tricolori e discorsi ufficiali. Del resto, dopo gli anni ’50, tutto era cambiato. La città stava diventando ricca, pasciuta, nessuna guerra era più in corso, né fredda né calda; i comunisti erano diventati tutti amministratori, cooperatori e quant’altro: non onoravano più con fervore i loro morti, li utilizzavano solo per nobilitare il loro passato, per giustificare l’ascesa sociale che avevano fatto. Solo io ero davvero commosso e partecipe – sempre, tutti gli anni.
Io ricordavo, io sapevo che voleva dire quel cippo, solo io riconoscevo in quell’evento un grande passaggio, per l’Italia e per la mia modesta vita.
– Perché dice “per l’Italia”?
Gavino assunse un tono didattico, tremendamente serio; era capace di passare dal ricordo disincantato al ragionamento logico in una frazione di secondo; quel tumore stava succhiando la sua vita, ma non era riuscito a corrodergli il cervello.
– Vede, furono quelle azioni, quelle simili a quella a cui mi trovai a partecipare io, e tutte le altre, tante, successive, di cui fui esecutore consapevole, che determinarono davvero il corso della vita repubblicana. Eravamo noi, in quelle trincee improvvisate, che facendo un lavoro indubbiamente sporco, spostavamo piano piano l’asse del timone. La nostra determinazione – migliaia di giovani e meno giovani armati, pronti davvero a tutto, anche a sparare sui compatrioti civili – portò quell’uomo intelligente di Togliatti a riflettere bene sulla situazione, sulle conseguenze delle sue scelte. Gli avevamo fatto capire che nessuna forzatura sarebbe stata consentita, nessun Soviet sarebbe mai nato in Italia. E anche uno sciopero, se superava una certa sottile linea di demarcazione, poteva diventare un atto di guerra e finire male. Noi eravamo pronti: elezioni o non elezioni. Lui lo sapeva.
– Ma lui chi?
– Togliatti. Era intelligentissimo. Sapeva che era arrivato al punto limite e non poteva fare un passo oltre. La Patria era presidiata, sempre, notte giorno. Davanti ad ogni cancello di stabilimento dove loro costruivano una cellula di fabbrica, lì c’eravamo noi. Soldati, con e senza divisa, ma sempre soldati. Pronti a tutto.
– Ma mi scusi, per capire meglio: perché sente il bisogno, tutti gli anni…
– Lei è disorientato, perché voi giovani non avete il senso dell’onore… quello lo capisce solo chi ha respirato l’aria della guerra. E’ cominciato tutto lì, da fatti come quelli di Modena. Loro dicevano: strage operaia… quanti scioperi, quanta demagogia, boicottavano l’economia nazionale… Ma alla fine vincemmo noi.
Secchia fu messo in disparte. E gli agitatori diventarono tutti sindaci, consiglieri di amministrazione e presidenti di consorzio. A noi andava bene. Il messaggio era arrivato. La nave era stata faticosamente ricondotta in porto.
La mia carriera era andata avanti, molto avanti.
Fece uno sforzo, come a scegliere dal canestro della sua memoria, un episodio che servisse a spiegare meglio a quello psichiatra ignorante la delicatezza delle sue mansioni:
– dunque… lei avrà almeno sentito parlare del Golpe Borghese… no?
– Beh… sì… più o meno.
– Ecco (e lì fece un sorriso birichino): io ero fra quelli che stavano dentro al Ministero degli Interni ad aspettare i golpisti. Ero confuso nel mucchio – fascistoni, fanatici, militari – ma dietro c’eravamo noi: se fosse andata male coprivamo la ritirata, se fosse andata diversamente, gestivamo la nuova situazione. Dovevamo essere sempre un passo avanti alle cose, saperle e infilarcisi in tempo. Ancora oggi – pensi – so dove sono nascosti un bel po’ di quei fucili che furono rubati quella notte; secondo me sono ancora lì, dove li avevamo sepolti..
– Ma… stiamo parlando di Gladio?
– No… no… quella era una cosa coreografica, per qualche commendatore che invece di andare a caccia, la domenica, andava a fare l’esercitazione paramilitare. Noi eravamo un’altra cosa: noi eravamo l’anello di ferro che difendeva la Repubblica, la nostra storia non è scritta da nessuna parte. Dopo gli anni ’70 andai in pensione. Fui consultato come consulente durante il sequestro Moro – una brutta storia, povero Presidente, praticamente nessuno lo voleva vivo, ed ebbero ragione, perché da quel morto cominciò la disfatta delle BR. E poi misi il naso anche nella trattativa Cirillo. Là si era deciso invece che bisognava salvarlo, quel vecchio trafficante. Ma ormai avevamo vinto. Si poteva anche trattare.
– E così… ogni anno… torna a Modena…
– Sì. Negli ultimi 25 anni, poi, avevo meno impegni, meno riserbo. Dopo la cerimonia mi facevo un giro in centro. Andavo all’Accademia, dove in gioventù un pecoraio come me non sarebbe mai potuto entrare (ma la mia carriera era stata più cruciale e più brillante di quella di un generale). E poi, a pochi passi, c’era la piccola Biblioteca, quella che sembrava un convento. E andavo là a passarmi un’oretta di pace. Mi faceva malinconia, perchè era la classica piccola Biblioteca di provincia; io non sono un letterato, ma immaginavo tutti i mediocri scrittori di provincia stipati dentro gli scaffali; quante piccole storie, magari importanti, belle (come la mia) che però pochi o nessuno avevano mai sentito nominare. La piccola provincia, le sue piccole ombre scure, dove tante cose importanti maturano discrete, ma nessuno le celebra.
– Lei ha dei rimpianti, sento. E’ per quello che è sempre venuto qui?
– Sulla mia carriera e i prezzi, diciamo così, che ho dovuto pagare, non ho niente da rimpiangere. E’ vero, non mi sono mai sposato; viaggiavo molto in Italia e all’estero, non mi era possibile metter su famiglia e come le ho detto, non ho rimpianti in tal senso. Però… però… una piccola cosa… quella mi è rimasta lì… (e si picchiò faticosamente sul torace)… e non scende, non va né su e né giù, e spesso ci ripenso, anche in questi momenti in cui, come si dice, dovrei pensare ad altro.
– Che cosa?
– Quei ragazzi, quelli di Modena. Quelli erano eroi, sono morti da eroi. Hanno delle strade intitolate a loro, hanno le commemorazioni; sono finiti sui libri di storia. Certo, oggi il ricordo è molto ridimensionato, ed è naturale – il tempo passa. Però in generale hanno avuto il loro posto nella Storia patria. Ma di noi? Chi sa niente di noi? Chi si ricorda di noi?
– Voi… voi chi? Cioè, a chi si riferisce in particolare?
– Noi, noi, anonimi, noi migliaia di fanti senza nome, senza volto, senza generalità: noi che abbiamo combattuto, che abbiamo fronteggiato la minaccia, che abbiamo piegato come un ferro caldo la storia repubblicana… Cosa sarebbe stata l’Italia senza di noi? Certo, eravamo collocati nella zona grigia, i nostri mezzi non sempre furono ortodossi, le nostre frequentazioni nell’ombra, i nostri protetti, non era gente raccomandabile: ma proprio per questo, chi mi ringrazierà per essermi dovuto sporcare le mani con bombaroli e mafiosi, chi ricorderà mai i nostri reparti senza gagliardetti? In servizio non è rimasto più nessuno… stiamo morendo tutti. E in tanti anni non c’è n’è uno che ha parlato, fra noi – tanto per farle capire che razza tosta di gente siamo. Noi eravamo dappertutto: entravamo nelle urne… negli armadietti degli spogliatoi delle officine… nelle Università… nelle caserme, nei sanatori… dappertutto: la montagna stava franando e noi tessevamo una rete di sicurezza per evitare che la nazione si sfaldasse… Niente da dire, onore ai morti: ma i vinti saranno ricordati dalle lapidi, mentre noi, i veri vincitori, siamo ignorati, schiacciati nel cono d’ombra del malaffare, nel lavorio delle commissioni d’inchiesta; le nostre storie, a brandelli, sono chiuse dentro vecchi dossier mezzi mangiati dai topi, infilati negli scantinati della Repubblica – e mostrava una ferita leggera al posto del sorriso, di inconsolabile amarezza.
– ah… allora è questo che la turba, che la rende così loquace, con questo dottore sconosciuto…
Ma il vecchio non rispondeva: ormai consumava il suo rimpianto dentro un contegno sobrio, come parlando a se stesso…
– le bombe, le stragi, il golpe… è facile giudicare da fuori, guardare la Storia dalla finestra… ma quando ci sei dentro, è tutta un’altra cosa. La Storia siamo noi, dicevano i comunisti… Non è vero, non è vero: la storia siamo Noi… siamo sempre stati Noi… Ci davano il lavoro sporco da fare, sussurravano ordini a mezza bocca, nessuno parlava chiaro perché nessuno si doveva compromettere: facevano allusioni, ci comunicavano la loro preoccupazione – la situazione è grave, ci dicevano… rischiamo l’abisso. E noi agivamo. Nessuno ci diceva grazie. Però arrivavano le promozioni, e quello era il segno del consenso, della legittimazione…
Conservo ancora dei documenti, delle lettere, che farebbero molta luce su certi eventi, su certi rapporti, su certi grandi statisti che poi facevano finta di non conoscerci.
Ne ho salite di scale, nella vita. Ma erano scale buie, dentro androni di Ministeri e caserme. Nessuno ci ha conosciuto e nessuno ci conoscerà. Stiamo andandocene tutti. E quando noi saremo morti i giovani non conosceranno la vera storia d’Italia.
– Perché, finché…
– Finché vivo, dice?
– Finché… ne ha ancora il tempo, la lucidità, perché non scrive un memoriale…?
Il vecchio rise educatamente e tossì, lasciando filare una piccola scia di bava dall’angolo della bocca:
– Noi non siamo gente da memoriale. Sa dove finirebbe il mio memoriale? In qualche angolo della Delfini, o di qualche altra piccola preziosa sconosciuta Biblioteca di provincia. Siamo stati manovali della storia… I memoriali li facciamo scrivere ad altri… Ma va bene così… dottore, va bene così… ormai… Mi sono solo voluto sfogare un po’, prima di togliere il disturbo… Se avessi parlato con un prete lo avrebbe scambiato per un moto di pentimento, e magari mi avrebbe dato pure l’assoluzione. Meglio lei, che per mestiere non deve giudicare nessuno, né può assolvere nessuno… Mi piace pensare che qualcuno, almeno qualcuno, ricordi la storia vera, la storia giusta, come girarono davvero le cose. Per ogni subbuglio o rivolta o insurrezione, c’è sempre un esercito di difensori che sanno tenere la posizione: sarà sempre così. Sorgiamo come dalla terra, per mantenere l’ordine… non c’è modo di sbarazzarsi di noi. Adesso vada Dottore, secondo me siamo stanchi tutti e due. Se, di quando in quando, le capiterà di ripassare davanti alle vecchie Fonderie, vada a salutare quei ragazzi e porti un fiore a nome mio, sul cippo. Cominciò tutto lì.
Socchiuse gli occhi quieto e malinconico, e infilò entrambe le braccia sotto la copertina leggera, come a chiudersi in un bozzolo che era un congedo definitivo.
Me ne andai, perché il colloquio era finito – tutto stava finendo.
Mentre scendevo le scale, mi accorsi di non averci mai pensato davvero. Tutta la storia patria, soprattutto quella più torbida, non era stata gestita da marziani o da mostri, ma da gente normale, buoni vicini di casa; impiegati dello Stato sempre attenti agli scatti di carriera o ai rimborsi; servitori anonimi di Dipartimenti Speciali senza sigla.
Bloccai sul nascere ogni indignazione: non ero in grado di dare giudizi su nessuno, neanche su un vecchio tagliagole ministeriale; anch’io mi portavo dentro qualche segreto inconfessabile e una lunga scia di dissimulazioni.
Uscii velocemente dall’Ospedale, senza ricontattare il responsabile di turno dell’Hospice; non avevo voglia di chiacchiere e non avevo niente da aggiungere, rispetto a quello che sapevano già. Gli avrei mandato una mail appena tornato a Vignola.
Ma non presi subito la strada di casa.
Rifeci la strada tortuosa del pellegrinaggio annuale di Gavino. Perché tutto era cambiato – i luoghi, le persone – eppure tutto era rimasto misteriosamente immobile. Mi recai al cippo commemorativo, con le piccole foto e la retorica repubblicana stampata sulla lapide; e poi verso l’Accademia, sontuosa e vuota, come una cattedrale. E poi finalmente andai a sedermi un po’ nella Biblioteca che tanto piaceva a Gavino, perché custodiva i piccoli scrittori sconosciuti (perchè anche lui si sentiva un “autore” sconosciuto). In pochi capitoli, in pochi chilometri, era racchiusa tutta la nobiltà e la decadenza di una storia piccola ed essenziale: la vita di Gavino, la provincia minima, le sue Fonderie chiuse e sventrate, le sue piccole Biblioteche, con i ragazzi stravaccati sotto i porticati, che esibivano facce precocemente disilluse, di chi sa che non lascerà segni o tracce – facce forse simili a quella del giovane Gavino, prima che si imbattesse nell’omicidio che avrebbe cambiato la sua esistenza. Questo ci restava: tutto il passato squadernato alle spalle e davanti un futuro insondabile.
La crisi ci stava mangiando il cuore; si capiva che non c’erano più soldi, non c’era più benzina, né gioventù viva, nelle officine, come nelle biblioteche.
Se ne andava languido, il Modello Emiliano, come un macchinario obsoleto, con gli ingranaggi sbeccati, che non girano più. E tutti – i vivi e i morenti – parevano in attesa.