Alessandro Barile
L’uscita, tra il 14 e il 17 novembre scorso, del film a puntate Esterno notte sulla Rai, ha fomentato nuovi dibattiti e conseguenti polemiche sull’interminabile rievocazione del rapimento Moro. Stavolta, però, i clamori sembrano giungere soprattutto da sinistra. Se la rilettura storica di Bellocchio, nella sua commistione onirica di realtà e immaginazione, ha messo d’accordo gli epigoni della «fermezza», chi da questa fermezza venne a suo tempo travolto si è trovato ancor più confuso di prima. Tra i protagonisti reali e gli eredi ideali degli anni Settanta molte cose sembrano fuoriuscire da una certa zona di comfort storico-politica. Ma prima di tutto bisogna riconoscere a Bellocchio, qualsivoglia lettura si abbia della vicenda storica e di come il film la racconta, di essersi opportunamente tenuto lontano dalle scorciatoie complottiste: «dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse» è la sentenza emessa dal funzionario americano in un colloquio con Cossiga. Tanto basta per accostarsi al film con maggiore serenità d’animo. Il banchetto dietrologico di Cia e Kgb, palestinesi e piduisti avrà modo di riconvocarsi in altra sede. E con questo non vogliamo negare le interferenze interessate e i “poteri paralleli” che si attivarono durante il sequestro (nazionali e internazionali). Movimenti e interessi che si scatenarono però dopo e che, in ogni caso, non determinarono gli eventi ma tentarono, per quanto possibile, di non subirli passivamente. Il lungo Sessantotto italiano, il portato della sua violenza politica, è generato e rimane comprensibile storicamente e politicamente solo nella logica di scontro tra la mobilitazione politica e lo Stato, all’interno della quale i diversi attori chiamati ad interpretarne una parte agirono più o meno liberamente.
Il rapporto tra movimento e lotta armata è una delle maggiori controversie. Bellocchio, piegando in maniera disinvolta alcuni eventi simbolici (l’esproprio dell’armeria del 12 marzo 1977 in diretta connessione con il marzo 1978), edifica un collegamento chiaro: il lottarmatismo è il frutto, non storicamente inevitabile, ma politicamente logico, del livello di mobilitazione raggiunto dai movimenti della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta. Con ciò il regista non propone, semplicisticamente (e anche stupidamente), una giudiziaria chiamata in correo, men che meno un legame esplicito e cosciente tra “partito legale” (ma quale?) e organizzazione armata. Bellocchio non è Calogero. Quel che invece emerge è un rapporto di filiazione: da quel livello, già di per sé “esasperato”, di mobilitazione, di violenza politica diffusa, di “consequenzialità” di certe scelte, di militarizzazione delle strategie, poteva sorgere – e infatti è sorto – un piano di lotta ancor più esasperato: lo scontro armato tra una parte della sinistra e lo Stato. Esprimere tale concetto ci sembra dunque affrontare la realtà per quel che è stata, senza celarne i lati spiacevoli o in contrasto con analgesiche mitopoiesi. Le Br romane non vengono dal nulla. Sono, al contrario, il risultato di un processo storico-politico preciso, e composte da militanti riconosciuti e attivi nei gruppi della nuova sinistra. Dire ciò, raccontarlo in un libro di storia o in un film che gioca molto con la fantasia delle sliding doors, significa fare della cattiva storia? Significa, semmai, rigettare le versioni di comodo. E d’altronde, a parlare di «geometrica potenza» del 1978, da coniugare con la «terribile bellezza» del 12 marzo 1977, non era certo un ingenuo tifoso della lotta armata, ma un noto dirigente dei movimenti degli anni Settanta.
Il film (composto di sei “episodi”, o temi narrativi) affronta l’affaire Moro attraverso una specifica chiave autoriale: l’introspezione psicologica dei personaggi. Un motivo di lungo corso in Bellocchio, derivante dalla sua lunga frequentazione con Massimo Fagioli. La psicologia del potere democristiano è presentata nei suoi vari tipi antropologici e morali: Moro vittima degli eventi (e del potere), Cossiga corroso tra amicizia e ragion di Stato, Andreotti severo (e taciturno) guardiano degli equilibri di potere. La psicologia dei brigatisti è raccontata attraverso il rapporto-scontro tra Valerio Morucci e Adriana Faranda, ambedue dubbiosi ma sottomessi al duro “realismo della rivoluzione” impersonato da Mario Moretti. E vi sono poi ruoli di contorno: il Papa, Berlinguer e il Pci, la famiglia di Moro. Qui la narrazione di Bellocchio procede controversa. Funziona bene nel raccontare la Dc e i suoi principali esponenti, perché i dilemmi, i tic e le perversioni dei protagonisti appaiono come il frutto velenoso dell’esercizio del potere. Dirigenti ben integrati “nel sistema” (culturale, professionale, universitario, economico) reagiscono al Beruf weberiano attraverso forme di inevitabile dilaniamento interiore. Inevitabile, forse, perché troppo recente, ancora – come dire – “piccolo borghese”, dipendente da voleri altrui (il Vaticano, la grande industria, gli Usa e la Nato). E se la santificazione di Moro è il pegno che sembra inevitabile pagare alla possibilità di raccontare la vicenda (vedasi Todo modo per capire com’era trattato Moro prima della sua morte), la ricostruzione dei meccanismi psicologici di potere risulta nonostante tutto efficace, beffarda, realistica.
Funziona meno bene, invece, quando ad essere psicologizzati sono i militanti delle Br. Qui non c’è professione, ma vocazione, e i suoi interpreti, lungi dall’essere integrati ingrati al “sistema”, ne rappresentano una possibile disintegrazione. Non esiste la violenza politica perché vi sono dei “terroristi malati” e preda di “astratti furori” nichilistici (una sorta di nečaevšina di matrice dostoevskiana); semmai, sono le scelte tragiche che ogni lotta palingenetica impone ad incidere anche sulla mente dei militanti, alterandola. La psicologizzazione del rivoluzionario è d’altronde un territorio assai frequentato, e da Dostoevskij a Conrad a Nabokov è sempre servita a sottrarre legittimità razionale alle scelte politiche radicali. Anche Bellocchio cede alla versione di comodo che fa della rivoluzione il risultato d’uno straniamento interiore, che tresca – peraltro – con esibiti rimandi alle tematiche vitaliste di matrice dannunziana (la “bella morte”, i riferimenti al Mucchio selvaggio ecc). Pensare a Prospero Gallinari o Mario Moretti come esaltati nietzscheani, insomma, ce ne vuole. Ciò non toglie che qualcuno possa esserlo stato (ma bisognerebbe cercare altrove che nelle Br) ma, anche qui, non spiegherebbe nulla del processo storico che ha portato alla lotta armata in Italia. I Sàvinkov, in quegli anni, furono semmai altri.
Quello che invece assolutamente non convince è il ruolo del Pci, e di Berlinguer in particolare. Un ruolo sottodimensionato, laterale, subalterno. Di fatto irrilevante. Eppure il Pci è stato il soggetto decisivo nel condurre in porto una «politica della fermezza» che aveva contro non solo i socialisti e il Vaticano, ma una parte importante della stessa Democrazia cristiana. Lo smarcamento comunista avrebbe lacerato irrimediabilmente la tenuta del potere democristiano, con tanti saluti alle pur invadenti pressioni americane. La domanda decisiva è allora: perché in un paese così apparentemente debole si impose una ragion di Stato pronta a sacrificare uno dei suoi massimi esponenti? Le ragioni sono molteplici, nessuna delle quali conduce al rischio di un “riconoscimento politico” dei brigatisti. In gioco vi erano due interessi concorrenti e compartecipi nell’edificazione di una politica serrata alle preghiere del prigioniero Moro. Da un lato il posizionamento dell’Italia nello scenario internazionale. Cedere su Moro avrebbe comportato l’automatica retrocessione del paese a entità compiutamente dipendente dai voleri del campo euro-atlantico. Nonostante la sua indipendenza geo-politica sia stata, dal 1945 in avanti, relativa, questa stessa “relatività” era un fatto di non poco conto, che garantiva di un certo margine d’azione e di proiezione internazionale che l’Italia della guerra fredda giocava con discreta originalità. Ma vi era anche la questione del “compromesso storico”. Un Moro liberato, e libero a quel punto di far valere la sua “ritorsione morale” sulla parte della Dc fautrice della fermezza (Andreotti in primis), avrebbe dapprima indebolito la Dc, poi probabilmente accelerato l’incontro coi comunisti, a quel punto dischiudendo loro le porte degli incarichi ministeriali (ricordiamo che nel governo Andreotti che si apprestava a ricevere la fiducia alla Camera il 16 marzo vi era l’appoggio, ma non la presenza diretta, di esponenti comunisti).
Vi era poi un interesse comunista. Il Pci espresse la più rigida fermezza (seppure nelle forme gesuitiche che Bellocchio mette perfidamente in scena nel confronto tra Berlinguer e gli altri leader politici: «fatela» – la trattativa (economica) coi brigatisti – «ma non ditelo») per due ordini di motivi. Il primo è stato più o meno rilevato da tutti: la sua trasformazione in “partito d’ordine”, pienamente fedele alla legalità costituzionale, era compiuta e non poteva darsi altra scelta realistica che non l’assoluta difesa delle istituzioni. Una difesa dell’ordine costituito che Berlinguer – e tutto il gruppo dirigente comunista – portarono alle ultime conseguenze persino di fronte alla possibile scomparsa della loro sponda politica in seno alla Dc: Moro appunto. La morte di Moro era un problema politico per il partito comunista, e nonostante ciò non vi fu mai tentennamento. E questo anche perché – ed è il secondo ordine di motivi, che però nessuno evidenzia – una “vittoria” dei brigatisti avrebbe comportato un indebolimento del partito in quei settori operai che non stavano partecipando affranti al requiem della democrazia. Se sarebbe esorbitante parlare del rischio di “perdere le fabbriche”, nondimeno per il Pci si sarebbe aperta una fase di più complicata gestione nel proprio bacino sociale, militante ed elettorale. Non vogliamo con questo esagerare l’internità del brigatismo nelle fabbriche del nord Italia. Sarebbe però un errore negarla risolutamente. E questa “zona grigia” poteva ampliarsi, coprire con una certa “indifferenza” le azioni terroristiche in fabbrica, corrodere l’ideologia della legalità che il Pci aveva costruito in quarant’anni di lavoro culturale, sindacale e sociale nella classe operaia del paese. Con ciò occorre, però, un supplemento di interpretazione, onde evitare possibili fraintendimenti.
Nelle concitate giornate successive al sequestro, precisamente il 28 marzo (e poi ancora il 2 aprile), Rossana Rossanda scrisse due celebri articoli su «il manifesto» in cui si riferiva alle Brigate rosse come parte «dell’album di famiglia comunista». Parte, dunque, di una storia comune, per linguaggi, temi, modo di articolare le posizioni politiche, conclusioni a cui si giungeva. La (ancora oggi geniale) uscita di Rossanda incontrò il più violento (e prevedibile) rifiuto del Pci. A seconda di come si interpreti il passaggio dell’album di famiglia, avevano però ragione sia Rossanda che Macaluso (che rispose a nome del Pci all’articolo del «manifesto»). Aveva ragione Macaluso a rifiutare qualsiasi possibile contiguità: sin dall’origine del “partito nuovo” nella Resistenza, il Pci aveva di fatto abbandonato qualsiasi ipotesi di fuoriuscita dalla legalità. La difesa (e anzi la sostanziazione effettiva) dell’ordine costituzionale, col suo corredo istituzionale fondato sulla lotta parlamentare, costituiva l’orizzonte pressoché unico della sua strategia politica. La famigerata «doppiezza» di cui Togliatti sapientemente si serviva era funzionale proprio a tenere dentro al partito tutte le molteplici spinte provenienti dalla classe operaia, governandole in funzione di una tattica parlamentare che si sovrapponeva alla strategia di lungo periodo. Era insomma l’articolazione della guerra di posizione gramsciana (certo piegata, e forse un po’ travisata, dal Togliatti editore di Gramsci), che comportava il consolidamento delle proprie posizioni e l’accrescimento graduale della propria forza politica ed elettorale. L’unica “lotta armata” pensabile per il Pci sarebbe stata quella da attuarsi in caso di colpo di mano reazionario, fino almeno ai primi anni Settanta tra le possibili (ma non probabili) opzioni dei vari poteri in competizione nel paese. E però aveva ragione anche Rossanda: le Br non appartenevano all’album di famiglia del Pci, ma sicuramente facevano parte di una tradizione del movimento comunista che solo i corifei del togliattismo postumo potevano negare con tale vigore e sprezzo della storia del movimento operaio. Il blanquismo, il bolscevismo e il cominternismo degli anni Trenta, e poi gli innesti del maoismo e del castrismo, costituiscono elementi di una storia comune, anzi: di un’unica storia, a cui senza dubbio apparteneva anche il Pci, ma che non si esauriva epifanicamente nel Pci. Questo era la lotta armata in Italia, di cui si possono condannare le scelte politiche, le soluzioni estremistiche, le ipotesi irrealistiche di partenza e di arrivo, ma di cui non si può disconoscere una matrice interna alla storia e alle logiche di emancipazione della classi subalterne.
Il Pci fu dunque sicuramente vittima degli eventi, ma non spettatore inerme. Si mosse coscientemente in una direzione precisa, e non valutarne il ruolo di puntello strategico delle scelte di Andreotti e Cossiga significa, qui sì, fare una cattiva storia, una storia addomesticata. E d’altronde, la scena delle guardie del corpo di Moro e Berlinguer (il “popolo”) che fraternizzano mentre i due leader orchestrano l’incontro storico (in macchina, come sovversivi in clandestinità), un incontro avverso alle resistenze tanto degli “estremisti di sinistra” quanto a democristiani e americani, è la sintesi e la summa di una visione politica identificabile, che da Togliatti e De Gasperi arriva a Moro e Berlinguer passando per Scalfari e «Repubblica».
La conclusione del film lascia spazio a facili what if di limitata capacità euristica. La storia, per chi la vuole conoscere, è già tutta dispiegata. Una pagina sanguinante della storia d’Italia, che sarebbe ora di chiudere giuridicamente per continuare a valutarne politicamente tutta la portata.