di Giovanni Iozzoli
Ed eccola lì. Più o meno come me la ricordavo, pallida e pura. Dormiente, con le braccia incrociate, sotto una velina azzurra sottilissima, a mo’ di confetto. Non osavo avvicinarmi. Tra le mani stringeva un piccolo rosario, più piccolo di quelli che usava mia madre. Del resto anche il suo corpo sembrava rimpicciolito, come tutti i morti che mi era già toccato di vedere. Eccola, la mia Rita, angelo e fantasma dimenticato della mia giovinezza. Ci toccava rincontrarci da vecchi, davanti al suo feretro appoggiato su un letto matrimoniale. La stanza non era grande ma era già piena di persone discrete e silenziose, che contemplavano la salma. Una signora girava tra i presenti porgendo un vassoio con bicchierini di plastica pieni di caffè. Nicola mi faceva strada, spostando delicatamente quelli che erano davanti; voleva farmi avvicinare, ma io tentennavo. Non sapevo dove mettere le mani, che fare. Non sapevo quale fosse il mio ruolo là dentro, in quella improvvisata camera mortuaria; mi aveva condotto lì Nicola e io lo avevo seguito come in un sogno, senza sapere bene ne’ il come né il perché.
– Avvicinati, vai. Poi dopo ti presento una persona.
Mi sono avvicinato alla bara. Mi faceva impressione la pelle diafana, da maschera; da vicino la mia Rita sembrava un’altra, anzi sembrava una cosa finta: una specie di bambola orientale copiata maldestramente dall’originale. Era uno scandalo, che fosse così imperfetta, così esposta ai nostri sguardi. Per non guardarla, sbirciavo fuori dalla finestra, sul lato destro del letto. Un grosso passero o qualcosa del genere, zampettava frenetico sul davanzale.
Cosa fare davanti a Rita sdraiata nella bara? Pregare mi sarebbe sembrato una finzione disonesta; quanto ai ricordi, li avevo anestetizzati. L’unica cosa che riuscì a pensare è che non vedevo la sua faccia dal 1982. Avremmo dovuto incontrarci la sera di Italia Polonia; la mia maledetta passione per il pallone mi fece inventare una scusa per saltare il nostro ultimo appuntamento, al Vomero – naturalmente nessuno dei due poteva pensare che sarebbe stato l’ultimo. Italia Polonia due a zero, con doppietta di Pablito. E Rita scompariva per sempre dalla mia vita – e io dalla sua.
Nicola appoggia la sua mano nervosa e pelosa sul mio gomito:
– Cirù, vieni, che ti presento.
– Ma a chi mi vuoi presentare? Io non devo parlare con nessuno e non conosco nessuno.
– No, questo qui te lo devo presentare. Ci tiene anche lui.
– Ma chi è? Poi non mi sembra il momento.
– Non ti preoccupare, vieni appresso a me.
Nicola conosceva bene quella casa, si muoveva liberamente lungo il corridoio, salutando ossequioso i parenti; poi, dopo aver bussato sommessamente, ha aperto piano la porta dell’ultima stanza in fondo.
– Peppe, scusa Peppino…ti possiamo disturbare? E’ arrivato Ciro. Ti voleva porgere le condoglianze…
Entra prima lui e quasi mi trascina dentro. Io sono infastidito e timoroso. Ho un vago presentimento. Mi ricordo dell’inopportuna invasività di Nicola, che voleva sempre aggiustare le cose, chiarire, mediare – ‘apparatore e’ feste, lo chiamavamo.
– Caro Peppino, questo è Nicola Troiano. Te lo volevo presentare. Dopo tanti anni. Nicola, questo è Peppe, il marito della cara Rita.
Lui ha il volto scuro, le palpebre pesanti un po’ abbassate. Ha almeno 65 anni, come me, forse portati meglio. I capelli radi, tutti bianchi. È un uomo massiccio, più alto e forte di me. Ha la faccia di uno che ha pianto molto. Siamo in una stanzetta da bimbi, ordinatissima. Lui è seduto su un lettino. L’abbiamo sorpreso ma non sembra dispiaciuto. Nicola doveva aver già organizzato la cosa. Il marito di Rita si alza con una piccola smorfia, in modo educato e premuroso, e mi porge la mano. La stringo, non so che dire, mi esce una cosa a metà tra condoglianze e piacere. Lui cerca di guardarmi negli occhi, io evito, punto lo sguardo sul suo maglioncino amaranto. L’unica cosa che riesco a pensare è che Rita è andata a letto per 30 anni con quest’uomo, la mia Rita. Lui conosce la mia Rita meglio di me e di chiunque altro al mondo.
– Scusate, stiamo stretti… è la vecchia stanzetta di mio figlio.
– Sta sempre là? – chiede Nicola.
– Si – risponde il marito di Rita – non ha fatto in tempo a tornare, lo stiamo aspettando; mi deve telefonare; doveva arrivare a Bologna stamattina, lo zio lo va a prendere all’aeroporto.
Nicola, per coinvolgermi mi guarda e dice compunto:
– Studia in America, il ragazzo, è bravo -, poi lascia la stanza e dice sibillino: – vado a prendere un caffè. Vi lascio un po’ soli…
Il marito di Rita annuisce. Rimaniamo soli io e lui. Vedo meglio sul suo volto l’espressione stanca. Dà l’idea di uno che deve svolgere un’ultima penosa missione, prima che tutto finisca davvero.
– Siediti Nicola – e mi fa accomodare sul lettino. Io piombo pesantemente sul lato opposto. Non so cosa aspettarmi.
– Devo dirti una cosa. un discorso che forse ti suonerà strano. Ma io lo devo, alla buonanima di mia moglie.
Io ho la bocca aperta. Dalla voce sommessa, sembra si voglia confessare. Nella stanzetta non gira un filo d’aria. Vorrei scappare fuori, in mezzo alla campagna di Casteldebole, che si intravede dalla finestra di questa villettina bipiano. Vorrei arrampicarmi sul pilone dell’alta tensione, e trasformarmi nel passeraccio di prima e lanciarmi in volo, e scomparire nella sera brumosa che lenta lenta viene avanti.
– Mia moglie ha lasciato un bel po’ di lettere. Le ho trovate l’altro ieri, in mezzo ai suoi vestiti, dentro una scatola. Sono tutte ordinate, con la busta, il destinatario e tutto. Ma non sono mai state affrancate né spedite. Le ha solo scritte.
– Io… non so niente… che lettere?
– Ho guardato le buste, sono tutte indirizzate a te. Su alcune c’è l’indirizzo dei diversi carceri dove sei stato. Solo una è senza indirizzo.
– E… le ha scritte a me? Io non ho mai ricevuto niente di Rita. Dal 1982. Non ho mai più avuto contatti. Lettere, telefonate, niente. Sapevo qualcosa da amici comuni, come Nicola. Ma mai niente altro…
– Lo so, lo so. Tranquillo. So che non vi siete più visti né sentiti. Però queste lettere sono tue. Negli anni ci sono indirizzi diversi sulle buste. Si informava su dov’eri finito. Anche dopo il 2001, che ci eravamo sposati, ha continuato a scriverti. Ogni 3 o 4 mesi.
– Ma… che dicono…
– Io non ho avuto il coraggio di aprirle. Mi sarebbe sembrato un oltraggio alla sua memoria. Lei è stata una moglie bravissima, integerrima. Non se lo sarebbe meritato. Le lettere sono tue. Io te le do e amen. Il giro si chiude.
Dovevo avere la faccia più stupita e preoccupata del solito. Quelle lettere erano un’eredità pesante. Avrei dovuto leggerle. Avrei dovuto riaprire dei cassetti della memoria che avevo chiuso a doppia mandata.
– Il nostro è stato un matrimonio felice. Non ho niente da recriminare. Ma ho sempre saputo – perché certe cose un marito le capisce – che la storia tra voi due non si era mai davvero chiusa. C’era qualcosa che era rimasto in sospeso, nel tempo, negli anni. Forse lei ti aveva un po’ idealizzato…
Allargo le braccia, come a dire: a me? Qualcuno ha idealizzato il sottoscritto?
– Si, credo di si. Anche se lei non ha mai approvato le tue scelte. Lei nel 1983 è entrata nel partito, si è messa a posto, ha preso una direzione. Non condivideva… voi, diciamo… quello che facevate. Io là l’ho conosciuta, dentro al partito, anni dopo. Poi si sa, le cose che hai passato, la nostalgia, forse anche i sensi di colpa, insomma: ti aveva idealizzato e ha continuato a scriverti. Non so cosa avrebbe voluto dirti, quelli sono fatti vostri.
– Ma perché i sensi di colpa?
– Perché tu eri in galera e lei si stava laureando, poi sarebbe entrata alla Usl, avrebbe fatto carriera e tu… insomma… la tua vita era rovinata…
– Ma non era mica colpa sua.
– Si, ma lei non ti ha cercato più.
– Ma aveva ragione, da quando entrai in latitanza neanche io l’ho mia più cercata…
– Insomma, lei ha continuato a considerarti una figura presente nella sua vita. È stata mia moglie, ma contemporaneamente ha anche vissuto una specie di vita interiore… non so come dire… una vita parallela.
Ero affranto. Nicola mi aveva teso una trappola. Perciò ci teneva a che io venissi qui, per farmi parlare col vedovo. Sempre questa idea di chiarire le cose, di mettere a posto. Ci sono delle storie che bisogna lasciarle lì. Se vai a rimestare, a gettare luce, dai solo fastidio ai vivi e ai morti. Capivo questo marito; non voleva quelle lettere in casa sua, non c’entravano con la sua vita, con la sua storia; passandomele si liberava della mia ombra che secondo lui aveva gravato sul suo matrimonio. Ma in un certo senso neanche io c’entravo. Quelle lettere non mi erano mai state spedite. Erano state un moto interiore di Rita. Farmele avere era un’analoga mancanza di rispetto per la sua memoria. Ma non era di lei che mi preoccupavo.
– Nel 2005 ci siamo trasferiti qui. Non volevamo che il bambino crescesse a Napoli. Troppi problemi. Lei non sapeva che eri a Bologna anche tu. Forse negli ultimi anni si era un po’ liberata di quella specie di ossessione; seguirti, scriverti etc. Adesso comunque è tutto finito.
Si alza dal letto, mi alzo anch’io e in un attimo mi trovo con una grossa scatola da scarpe in mano, di quelle per stivaletti femminili, bianca, pulita.
– Tienile. Sono tue.
Resto con le braccia basse, la bocca aperta. Non le voglio, ma lui mi porge la scatola, che resta lì a mezz’aria tra me e lui. Sono costretto a prenderle. Mi giro ed esco frastornato, senza salutare. Che faccio adesso? Ripercorro il corridoio che sa di caffè e rientro nella stanza da letto della defunta. Nicola è in un angolo con una signora, che parla fitto fitto e gesticola – le sta spiegando chissà cosa animatamente, a bassa voce. Mi nota e mi fa segno accorato: allora tutto a posto? Fatto tutto?
Lo guardo cupo, gli mostro la scatola (del cui contenuto era sicuramente a conoscenza) e gli faccio segno che sto andandomene. Lui mi viene vicino: – ma addò vai? Aspetta. Sei a piedi. Come torni a Bologna?
– Ho visto una pensilina della corriera, in fondo alla strada. Un mezzo per la stazione passa sicuro.
Mi giro, esco dalla stanza senza dare un ultimo sguardo a Rita. Il suo corpo rinsecchito è come se avesse perso importanza; è come se avessi la sua anima, vagamente radioattiva, chiusa dentro la scatola. Con due passi sono fuori dalla villettina mentre un’altra coppia sta entrando discreta. Mi giro a guardare la casa: è carina, solida, è il prodotto di una storia, di una vita, di una continuità, qualcosa che posso solo guardare da lontano, al massimo invidiare.
In uno slargo di fronte sono parcheggiate sei o sette macchine, quasi tutti Suv scuri. Io imbocco lo stradello sterrato che mi condurrà verso la strada asfaltata; poi, mi pare, si segue la curva e si va verso il paese. Non mi ricordo se la pensilina della corriera l’ho vista davvero o magari l’ho detto tanto per dire. Non avevo voglia di tornare a Bologna con Nicola, non voglio sentire la sua voce nasale che si profonde in spiegazioni. Voglio stare per conto mio, riflettere su quella incongrua eredità che sto trasportando come un carico esplosivo.
Appena arrivo sulla strada mi fermo un attimo e mi guardo intorno. La campagna è curata, e disseminata di altre villette, quasi ovunque segni di lavori in corso, ristrutturazioni, abbellimenti. Qua vive gente che sta bene al mondo, con dei progetti, delle aspettative, famigliole con le altalene e i gonfiabili in giardino. Ma dove sto andando, io, con queste lettere in mano? Cosa voglio fare? Tornare a casa mia e mettermi a leggerle tutte, in cucina, una per una, e poi piangere sul latte versato, sulla mia vita buttata, sulla giovinezza, su Rita? È questo che voglio? Togliere i punti e scucire le ferite? Torturarmi un po’, come se non lo avessi già fatto abbastanza nell’ultimo trentennio?
A fianco della strada corre un canale scuro, profondo venti, trenta centimetri. Mentre passo vedo un corpo lucido e nero, grosso più o meno come un gatto, peloso e inerte, per metà coperto d’acqua. È una nutria morta. L’acqua lambisce il corpo, lo attraversa e mossa da un invisibile corrente, sfocia venti metri oltre, dentro una tubatura di scolo, che scompare sotto la strada. La corrente è leggera ma ineluttabile. Guardo l’acqua, guardo la nutria, annuso l’aria fresca che comincia a scurirsi. Adesso mi sembra chiaro ciò che devo fare: aprire la scatola, prendere le lettere e affidarle all’acqua. In pochi secondi saranno macerate come quel corpo di nutria. Illeggibili, innocue; e poi scompariranno per sempre nella tubatura. Se voglio salvarmi, quello è il posto dove riporre quelle memorie ingombranti. Non sto a pensarci; bisogna affidarsi all’istinto, che non sbaglia (quasi) mai.
Mi avvicino al canale, basso e sporco, tolgo il coperchio dalla scatola e rovescio in acqua il suo contenuto; sono tante, non affondano subito, ma cominciano a viaggiare spinte dalla corrente come barchette ostinate. Il mio doveva essere un gesto liberatorio, invece sento subito un dolore terribile, come un’amputazione o una perdita. Devo andare oltre. Lasciarmi tutto dietro le spalle, le lettere, la mia vita, il corpo di Rita e quello della nutria, e tutti corpi che ancora mi assillano la memoria stanca; camminare e via. Il canale mi salverà dal passato. Devo solo proseguire, con decisione, pensilina o non pensilina. Il dolore aumenta, anche l’ansia e un filo di tachicardia. Ma che ho fatto, che sto facendo?
Avrò camminato 20 metri, mi fermo, impreco e torno indietro di corsa: devo salvare quelle lettere. Un furgone passa dalla mia parte e io mi sposto fuori dalla carreggiata, metto un piede in fallo e prendo una bella storta al piede sinistro. Un male cane (la mia solita caviglia). Devo rimettermi a correre, forse riesco a recuperarne almeno qualcuna. Arrivo all’imbocco della tubatura che è troppo tardi. Ne è rimasta solo una, incagliata, a portata di mano: la prendo al volo, tutta sporca e fradicia, prima che scivoli nel nulla; ho messo un piede in acqua pure io e mi sono tutto bagnato una gamba. Risalgo sulla strada zoppicando, con quel pezzo di carta umida in mano. Tiro fuori la lettera dalla busta, sperando di asciugarla, me la strofino sulla camicia. Mi vien quasi da piangere: che ho fatto? Come ho potuto oltraggiare così la memoria di Rita? Non saprò mai cosa pensava di me, cosa sperava da me. Fino ad oggi non mi ero mai posto il problema e quella ragazza era rimasta solo un lontanissimo ricordo delicato; ma oggi ho saputo che forse una mia vita parallela, virtuale, si era protesa nell’aria, nel tempo, nel vuoto di questi anni; e avevo il diritto – anzi il dovere – di conoscere quest’altra vita, quest’altro io. Cammino ancora un po’ poi mi siedo su un muretto. La caviglia mi fa troppo male, devo togliere la scarpa. Poi voglio leggere quella lettera residua che stringo in mano, ho idea che l’acqua stia corrompendo l’inchiostro, che debba fare presto. La leggo.
Un quarto d’ora dopo passa la Tipo di Nicola, mi vede, si ferma, abbassa il finestrino:
– ja, sagl’, che fai miezz’a via? Che hai fatto? Perché sei senza scarpa?
Ho la caviglia gonfia come un pompelmo, il pantalone arrotolato sulla tibia e la camicia tutta inzaccherata, sembro uscito da una rissa. Salgo senza dire niente; se anche Nicola tacesse, che bello sarebbe. Ma non stava mai zitto neanche da adolescente, figuriamoci adesso da vecchio.
– Il paccotto dove sta?
– Quale paccotto?
– Gesù… le lettere che ti ha dato il marito di Rita!
– Ma tu la sapevi già, questa cosa delle lettere? Perciò mi hai portato qui? Perché non mi hai avvisato prima?
– Sapevo e non sapevo. Io ero amico di tutt’e due, sia tuo che di Rita. Pensavo ti avrebbe fatto piacere un ultimo saluto. A lei non avevo mai detto che tu vivevi a Bologna.
– E perché?
– Boh. Erano cose vostre. Se ti avesse cercato, ti avrebbe trovato sicuramente. Tu invece lo sapevi che lei era qui.
– E non l’ho mai cercata. E se non l’ho mai cercata la ragione c’era. Non voleva riaprire storie passate. E tu invece oggi mi ci hai fatto sbattere il muso.
– E che dovevo fare? Non ti dovevo dire che era morta?
– Ma che bisogno c’era di quella sceneggiata col marito, che mi passa le lettere?
– Giusto, ma le lettere: dove stanno?
– Le ho buttate via. Non le voglio.
– Ma sì scem’..? Ma pecche?
– Che c’entro io con quelle lettere?
Nicola era indignato, non so se per il fatto delle lettere o perché la sua missione mediatoria era fallita; se io non avevo letto quelle lettere, l’ordine del mondo non era stato debitamente ripristinato. Siamo rimasti in silenzio, fino a casa mia. Mi ha fatto scendere e non ci siamo neanche salutati.
Lo so come fa; adesso per un paio di mesi farà l’arrabbiato poi mi ricomparirà in casa all’improvviso, vorrà contare le birre in frigo, spronarmi, propormi un lavoretto in cooperativa o di fare del volontariato o chissà quale altra cosa delle sue. È l’ultimo amico rimastomi della mia indecifrabile giovinezza; il più fedele e molesto.
In tasca conservavo l’unica lettera, che avevo salvato dalle acque. Era una di quelle che lei aveva scritto mentre io ero già un “irreperibile”, avviato verso il passaggio di ruolo di “latitante”. L’aveva scritta evidentemente contando di darla a qualcuno che poteva sapere dove fossi; non trovò nessuno, eravamo più o meno tutti in fuga, in quei giorni. Mi aveva scritto le cose che mi aspettavo; di lasciar perdere, di tornare indietro, di non compromettere tutto, che agli avvocati ci pensava lei e cose di questo tipo. Di “non fare il passo ulteriore” – questa è l’espressione esatta. La lettera era datata 11 luglio 1982. Le altre saranno state dello stesso tono, per molti lunghi anni; forse in qualcuna di quelle missive aveva scritto di amarmi ancora, di pensare ancora a me, di sperare di rifarsi una vita; magari queste cose le scrisse quando era già sposata o giovane madre. Aveva fatto bene a non spedirle. Né io né lei avremmo meritato ulteriori dosi di dolore.
Mi fermo un attimo, verifico la data sul telefonino e sorrido: 11 luglio 1982 era il giorno della finale dei mondiali, Italia Germania. Io non la vidi, ero in una masseria mezza sgarrupata a Casoria, in mezzo alla campagna, senza televisione; ricordo ancora la delusione. Anche in quelle circostanze, mentre lei mi cercava e la mia vita implodeva, io pensavo alla partita – ero giovane, pieno di forze, in fondo me ne fregavo dei giudici e di Rita, e la vita era una corsa sfrenata e libera. E non sapevo niente. Non sapevo niente. Il calcio è un veleno. Apro una birra, guardo il mio minuscolo cucinotto pieno di umidità e accarezzo la lettera. La vita parallela che Rita avrebbe potuto propormi, a quell’ora giaceva in un canale di scolo, poco lontano dalla nutria in putrefazione. Immaginavo quelle lettere viaggiare ostinate nella corrente, seguendo il percorso delle cose mai nate e che non approderanno mai da nessuna parte.