di Pietro Basso
David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021
Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che fossero mature le condizioni per un nuovo assalto al cielo era infondata per il loro errato giudizio sullo stalinismo e sull’Urss. E lo era anche, a un livello ancora più profondo, per ciò che riguarda i rapporti di forza su scala internazionale tra classe capitalistica e movimento proletario. Vediamo il primo aspetto, torneremo in seguito sul secondo.
Il 26 novembre 1943, nel suo discorso da Mosca “L’Italia in guerra contro la Germania hitleriana”, Togliatti afferma in modo inequivocabile sull’Italia post-fascista quanto segue:
Sarebbe assurdo pensare al governo di un solo partito o al dominio di una sola classe. L’unità e la collaborazione di tutte le forze democratiche e popolari dovranno essere l’asse della politica italiana, la base su cui verrà costruito un vero regime democratico, che distrugga le radici del fascismo e dia alla nazione delle garanzie serie contro ogni possibile ripetizione della tragica avventura ch’è costata all’Italia il suo benessere, la sua libertà, la sua indipendenza, il suo onore. Ma questo non vuol dire che nella vita del paese non debbano essere operate profonde riforme… la nuova democrazia italiana… con un ragionevole intervento dello stato dovrà impedire che dei gruppi di plutocrati avidi ed egoisti [gli Agnelli ad esempio? – n.] sfruttino il monopolio delle risorse del paese per asservire il popolo intero e gettare il paese nell’abisso di criminali avventure di guerra.
Questa linea di condotta era perfettamente coerente con l’obiettivo strategico perseguito da Stalin, che non era più la rivoluzione proletaria internazionale, cui lo stalinismo aveva rinunciato da tempo, bensì la costruzione in Russia di un industrialismo di stato capace di ridurre il gap economico-tecnologico rispetto alle grandi potenze occidentali. In tale prospettiva strategica di coesistenza e di concorrenza pacifica tra il campo occidentale e quello del “socialismo reale”, rientrava la pace con gli imperialisti d’Occidente, la divisione del mondo in sfere di influenza, nonché la spartizione dell’Europa che prevedeva l’assegnazione dell’Italia al dominio delle democrazie anglo-sassoni. Contro questo muro si infranse l’attività politica del Mcd’I che pagò dazio alla fine della guerra con la sua rapida disgregazione e scomparsa. Una fine amara perché la battaglia politica del Mcd’I per la rinascita di un movimento comunista rivoluzionario in Italia non si era certo limitata ai giornali e alla propaganda delle proprie idee, ma aveva visto la sua partecipazione alla resistenza armata anti-nazista e anti-fascista, svolta da posizioni autonome. Broder ricostruisce con estrema puntualità il peculiare modo di partecipare alla resistenza di questo insieme di militanti. Parlo di insieme perché il Mcd’I non fu mai un organismo centralizzato, a differenza del PCI-partito nuovo, restando piuttosto, dall’inizio alla fine, una federazione di vari gruppi di comunisti attraversati da influenze ideologiche molteplici (incluso l’anarchismo). Nella biblioteca di sezione del Mcd’I la “Storia della rivoluzione russa” di Trotsky, e scritti di Bordiga, Bucharin o Malatesta potevano stare accanto alle opere di Marx Engels e Lenin senza provocare guerre di religione. L’aspirazione di questi compagni ad essere dei militanti ben attrezzati si materializza nella scuola di formazione di Grotta Rossa. Già negli “anni della cospirazione” la loro priorità non era l’azione militare, bensì la ricostituzione dell’organizzazione comunista. Questa impostazione consentirà a Bandiera rossa di essere uno dei pochissimi esempi di “leadership politica comunista” nell’azione militare nel corso di tutta la resistenza italiana. Quando su Roma, dal settembre 1943, si stringe la morsa sanguinaria delle truppe naziste ed inizia l’attività militare dell’Armata rossa (così il Mcd’I denominò i suoi nuclei d’azione armata), la priorità di questa area di compagni rimane non lo scontro frontale con i nazisti, ma la preparazione delle forze e delle strutture per quando le truppe naziste avrebbero lasciato la città. Il loro sforzo principale – riuscito solo in piccola parte – resta il radicamento sociale negli strati proletari e popolari più schiacciati, ridotti alla fame nera. Tuttavia la Wehrmacht e la polizia fascista, mettendo in atto la coscrizione obbligatoria e la deportazione, obbligano chi intenda resistere a questa duplice violenza ad organizzarsi in gruppi armati. Il Mcd’I non si tira indietro. La consistenza delle sue milizie sarà sempre piuttosto limitata, ma il movimento arriva ad avere 27 unità locali, 8 gruppi speciali, e collegamenti con 39 bande “esterne”, alcune delle quali estranee ai suoi orientamenti politici. Pagherà un pesante tributo di sangue nei 9 mesi di occupazione nazista della città, designata capitale della Repubblica sociale italiana.
Seguendo un tracciato del tutto differente, i Gap del PCI operanti per lo più nel centro di Roma, furono dediti esclusivamente ad un’attività militare finalizzata a provocare rappresaglie naziste come strumento per stimolare la popolazione a sollevarsi contro lo straniero nell’ottica di un “nuovo risorgimento” dell’Italia – nelle parole di Rosario Bentivegna, uno dei gappisti più noti, a “scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi”, una tattica fallimentare perché a Roma non ci fu alcuna insurrezione. Ci fu, invece, una catena di sanguinose repressioni nazi-fasciste: tra le più brutali quelle compiute al Trionfale, al Quadraro e l’eccidio delle Fosse ardeatine dopo l’attentato di via Rasella, organizzato dai GAP il 23 marzo 1944 contro una compagnia di riservisti alto-atesini senza ruoli di combattimento. In tutti e tre i casi gli appartenenti al Mcd’I e all’Armata rossa pagarono il prezzo più alto tra le diverse componenti della resistenza romana: 68 dei 335 prigionieri (e passanti) fucilati alle Fosse ardeatine erano militanti del Mcd’I che – con ottime ragioni, a mio avviso – criticò i metodi terroristici dei Gap e si espresse a favore di un approccio “difensivo” alla lotta contro le forze nazifasciste in ritirata.
Nonostante queste difficilissime prove, il prestigio e il seguito del Mcd’I continuano a crescere fino alla fine del 1944, quando i membri del movimento oltrepassano le 13.000 unità (ma il PCI, con una progressione fulminea, aveva già oltrepassato i 50.000). Il momento di massima euforia è nei giorni successivi all’entrata delle truppe alleate in Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Scrive Corvisieri:
I nove terribili mesi dell’occupazione e del terrore nazifascista erano finiti. Per i militanti più vecchi come De Luca (uscito da Regina Coeli alla testa di un corteo di detenuti politici), Poce, Volpini e tanti altri l’attesa era stata molto più lunga: da venti anni aspettavano quelle radiose giornate. La fame e la miseria generale, che tuttavia restavano, non frenarono le manifestazioni popolari di entusiasmo per la ritrovata libertà. La fine di un incubo. I militanti più attivi del Mcd’I si erano impossessati delle sedi necessarie alla loro attività e s’impegnarono a fondo nel reclutare giovani per l’Armata Rossa. Poce, a conferma dell’autorità di cui godeva, fu affiancato al vice-questore.
Furono giorni di vertigine per chi aveva tanto sofferto e anelato alla sconfitta del fascismo come nella necessaria premessa per la rivoluzione socialista. Il sogno di allestire un esercito popolare di liberazione, una Armata Rossa, apparve per qualche tempo di possibile realizzazione. Durante la occupazione di Roma, Armata Rossa era stata una piccola ma agguerrita formazione che raggruppava alcune centinaia di combattenti del Mcd’I e del PCI (sbandati o dissidenti dal partito); ora si trattava di sviluppare questo nucleo fino ad avere una forza armata popolare che conducesse autonomamente la guerra contro i tedeschi e i fascisti, affiancandosi agli Alleati e stabilendo un contatto non solo ideale con i partigiani del nord.
In pochi giorni la campagna di reclutamento dei volontari vede l’adesione di 40-50 mila giovani. E immediatamente scatta l’altolà degli Alleati “liberatori”, che “preoccupati dal movimento dei volontari che sarebbe stato difficile da controllare, emisero un decreto che ordinava la sospensione degli arruolamenti e ogni altra iniziativa non autorizzata. Poce, avendo insistito il Mcd’I nella sua azione, passò da vice-questore al carcere. Tornò in quella Regina Coeli che aveva conosciuto a più riprese durante il fascismo e ci restò per un paio di mesi.”
Fatto altamente simbolico dell’avvio della democrazia post-fascista (non però anti-fascista, come usa dire). L’esperienza romana è uno dei pochi casi in cui, pur essendoci rapporti con i comandi anglo-americani, viene mantenuta sia l’autonomia dell’organizzazione comunista che quella dei gruppi armati, perché “i proletari combattono per sé stessi”, e non per la borghesia. Poce si scontra con questi comandi quando pretendono di imporre al Mcd’I che a Roma non ci debba essere una insurrezione, e rinuncia al suo proposito solo quando sa che PCI, Psi e azionisti hanno accettato il diktat. Alla vigilia dell’occupazione di Roma da parte delle truppe alleate si rifiuta di mettere le proprie milizie sotto il controllo dei commissariati romani di pubblica sicurezza. Sennonché è proprio questa autonomia che i nuovi padroni, alleati e protettori dei vecchi padroni, non intendono in alcun modo accettare, tant’è che oltre Poce, anche altri militanti del Mcd’I vengono arrestati dalle forze della repressione democratica. Del resto, il 19 luglio 1943 i bombardamenti alleati su Roma erano cominciati, guarda caso, dal quartiere rosso di San Lorenzo con una strage di 1.600 persone. Nello scontro inter-imperialistico tra truppe nazifasciste e truppe a guida anglo-americana appariva sempre più chiaro, ormai, che la Resistenza avrebbe dovuto avere più un ruolo subalterno. Come ebbe poi a riconoscere senza mezzi termini Ferruccio Parri: Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice.
Un giudizio storico-politico che, contro ogni bolsa retorica resistenziale di “estrema sinistra”, oggi appare indiscutibile. Per dirla con Paul Ginsborg: “la Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi alcun dubbio sulla sua essenziale subordinazione” ai comandi Alleati. I “comunisti dissidenti” di Roma cercarono invano di sottrarsi a questo amaro destino di donatori di sangue per la vittoria degli Alleati (imperialisti). Decimati dai nazi-fascisti; controllati, intimiditi e colpiti dalle autorità alleate; calunniati, minacciati, attaccati politicamente dal PCI; grazie alla loro speciale dedizione alla causa, erano riusciti a crescere fino alla fine del 1944, ma non ebbero la forza di tenere il campo dopo il crollo del nazifascismo e la fine della guerra. Si divisero prima tra favorevoli e contrari all’ingresso nel PCI; si dispersero poi in più direzioni, per dissolversi completamente nell’estate del 1947. Il PCI accettò nelle sue fila la gran parte dei militanti di base, respingendo invece i capi.
La vittoria del PCI sul Mcd’I è, in realtà, parte di un processo assai più ampio e profondo di nuova stabilizzazione del capitalismo globale dopo il trentennio di devastanti sconvolgimenti che va dal 1914 al 1945 passando per due guerre mondiali e la Grande Depressione. L’impressionante salasso di capitale fisso e di esseri umani avvenuto in questo frangente; il totale tracollo delle tre potenze dell’Asse; l’emergere sulle loro rovine e sul disfacimento dell’impero coloniale britannico di un nuovo, potentissimo guardiano dell’ordine capitalistico mondiale dotato di armi di sterminio di massa e in possesso di ingenti quantità di capitali da anticipare ai paesi europei vinti, gli Stati Uniti d’America; aprono una fase di forte ripresa dell’economia. E per i paesi europei, un periodo di pace nel quale i proletari in massa vengono risucchiati in una macchina produttiva democratica (fuori dai luoghi di lavoro) che pare promettergli un futuro differente dall’incubo vissuto da due generazioni di lavoratori. Non erano stati solo i dissidenti romani, erano stati in centinaia di migliaia, se non milioni di proletari italiani, jugoslavi, greci, albanesi e così via a sognare la ripresa e la conclusione vittoriosa del ciclo rivoluzionario degli anni 1917-1927. Che non si trattasse di sparuti gruppi settari e infantili, lo hanno riconosciuto in seguito gli stessi massimi pedagoghi della “via italiana al socialismo”. Ha scritto ad esempio Giorgio Amendola: “Vi era nel partito un profondo contrasto tra una grande parte degli aderenti che vedeva l’insurrezione [del 25 aprile ‘45] in maniera ingenua come già l’inizio del socialismo, e il gruppo dirigente che aveva coscienza dei limiti di classe della situazione italiana e cercava di correggere questo orientamento massimalista”. E lo stesso Togliatti, ha confessato ripetutamente che fu dura far comprendere alla massa dei militanti che la scelta di Salerno e dell’unità nazionale con la borghesia italiana in quanto tale non era una furba tattica doppiogiochista per fregare gli avversari borghesi, bensì la definitiva rinuncia alla prospettiva della rivoluzione sociale.
Con la mano ferma dello studioso che sa bene quello che dice, con ammirevole sobrietà nello stile, David Broder ci conduce a vedere e a vivere il progressivo impatto devastante che questo nuovo corso del capitalismo mondiale e del “movimento comunista internazionale” ebbe sui “dissidenti comunisti” di Roma. Davvero un libro da leggere. Che si chiude con queste parole:
i militanti del Mcd’I erano guidati più dalla fede in ciò per cui stavano combattendo che da una chiara idea su come raggiungere il proprio scopo. Questi proletari romani sognavano il sol dell’avvenire e una vittoria che non era soltanto degna della lotta per conseguirla, ma anche inevitabile, assicurata dal movimento della storia. Questa fede permise una coesione che altrimenti sarebbe mancata alla loro organizzazione piuttosto traballante, una teleologia capace di dare senso ai loro terribili sacrifici. Ma quando l’obiettivo finale scomparve dal loro orizzonte, non gli rimase alcuna tradizione da difendere. Alcuni di loro modificarono il proprio modo di vedere per abbracciare lo spirito dei tempi; i più rivolsero semplicemente le loro speranze al di fuori della politica. Non ci fu alcun lieto fine, né alcuna redenzione, e neppure un articolo di giornale che spiegasse perché gli ultimi seguaci avevano staccato la spina. Non potettero avanzare alcuna giustificazione, né indicare una svolta sbagliata. La loro storia non è stata altro che una storia di fede nel futuro, e della sua sconfitta.
Eppure: se un domani ci sarà una Roma senza Quirinale, senza Vaticano, senza i pescecani e senza la sterminata burocrazia che oggi l’appestano. Se sui sette colli nuove generazioni di proletari dovessero fondare la Comune romana sognata nel 1943-’45 da questi sconfitti esploratori del futuro. Allora la loro vicenda, i loro nomi sconosciuti grandeggeranno sulle forze nazionali e internazionali e sui “celebri personaggi” che li dispersero.
Fine