di Sandro Moiso

Riccardo Valla, SEVAGRAM. Una storia della fantascienza, a cura di G.L. Staffilano e Diego Gabutti, WriteUp Books, Roma 2022, pp.382, euro 25,00

Riccardo Valla (1942-2013) è stato il principale studioso di letteratura fantastica e di fantascienza del Novecento italiano. Curatore di collane, saggista, autore di colti divertissement letterari (tra i quali spicca Il coccige Da Vinci, pubblicato in 19 puntate su Carmilla on line dal 24 maggio 2005 al 24 novembre dello stesso anno e premiato nel 2006 a Fiuggi in occasione della XXXII edizione di Italcon, la riunione annuale degli appassionati di fantascienza italiani), collaboratore di riviste e giornali, traduttore tra i più apprezzati. Viaggi nel tempo, scienziati pazzi, universi paralleli, copertine di «Amazing Stories» e di «Weird Tales», fantasmi e chimere, alieni, astronavi, mutanti e scenari postatomici non erano ai suoi occhi, ingenui balocchi da nerd. Erano invece altrettante chiavi per accedere al cuore del sistema operativo della condizione umana nell’era della tecnica, dei totalitarismi e della relatività einsteiniana.

«Sevagram» è una parola che si trova nel romanzo Hedrock, l’Immortale di A.E. Van Vogt (titolo originale: The Weapon Makers, 1947). Non è inglese e Van Vogt l’aveva presa dal Mahatma Gandhi che negli anni Quaranta la usava nel suo significato hindi di “villaggio”. Riccardo Valla la utilizzò per intitolare la fanzine da lui fondata nel 1967, di cui uscirono solo due numeri, ma sufficienti per classificarla tra le migliori tra quelle pubblicate in Italia.

Gaetano Luigi Staffilano (scomparso il 29 aprile di quest’anno) e Diego Gabutti si sono occupati di fantascienza fin dagli anni Sessanta, vuoi per motivi professionali che per una consuetudine contratta fin dalla gioventù, e hanno conosciuto e intensamente frequentato Valla e la libreria specializzata in fantascienza che lo stesso gestì per diversi anni nel centro di Torino, passaggio obbligato all’epoca per tutti gli appassionati di SF e fantastico. Battezzata Sevagram anch’essa e situata in via Volta, costituì per diversi anni anche il suo ufficio dove, con un occhio ai clienti che si soffermavano un po’ troppo a leggere i libri piuttosto che comprarli, continuò a scrivere e tradurre piegato sulla Lettera 22 Olivetti che costituiva il suo armamentario di lavoro (oltre alla vastissima conoscenza di opere letterarie e cinematografiche, pop e non, che costituiva il fondamento su cui costruire, pezzo dopo pezzo, i suoi saggi e i suoi articoli).

Raccogliendo in questa antologia, che dovrebbe forse costituire il primo volume di una riedizione dei saggi e degli articoli di Valla, tutte le introduzioni scritte dallo stesso per le collane della casa editrice Nord di cui fu editor e traduttore, Gabutti e Staffilano hanno dato forma ad una sorta di storia della fantascienza colta e illuminante, oltre che, a tratti, ironica. Caratteristica, quest’ultima, tipica dell’autore torinese.

Tra Jack Williamson e James Ballard, Robert Heinlein e Philip José Farmer, Frederick Pohl e John Brunner, passando per infiniti altri autori classici o meno che sarebbe qui troppo lungo elencare, ma tra i quali è vistosamente assente un autore, oggi di culto, come Philip K. Dick, del quale Riccardo Valla non apprezzò sempre i romanzi, si delinea una linea espositiva più vicina a un work in progress che a un saggio ben ordinato nei suoi sviluppi cronologici. Una sorta di vagabondaggio nel suq di un villaggio cosmico in cui ad ogni svolta si incontrano mostri, alieni, pianeti ostili o desertici, spazi infiniti, cronache del dopo-bomba, astronauti dispersi nel cosmo e esseri umani sperduti a casa loro, cosa che rende, però, la raccolta ancora più leggibile e stimolante.

Anche se, per ora, i testi pubblicati dallo stesso autore su Carmilla, comprensivi di una serie di scritti sui precursori della Fantascienza, e la vasta corrispondenza che intrattenne con numerosi autori tra quelli pubblicati o tradotti, in particolare con James Ballard, sembrano destinati a un volume futuro, ciò non toglie che le trecento e passa pagine di quello presente siano capaci di guidare il lettore per i vicoli e le bancarelle di tale suq letterario, in cui si incrociano storie, periodi, aspetti di un immaginario che si è rivelato inseparabile dalla modernità. Sia nei suoi aspetti utopistici che catastrofici, oltre che avventurosi.

Ma oltre a tutto questo, che già basterebbe a giustifica l’acquisto e la lettura dell’opera, c’è un altro aspetto che va sottolineato, ovvero l’attenzione dei curatori nel cogliere, nell’introduzione a quattro mani, le caratteristiche di una città (Torino), di un periodo e di una generazione che proprio in quell’immaginario caotico, talvolta speranzoso oppure disperato e quasi sempre avventuroso, seppe cogliere la vitalità di una letteratura, considerata snobisticamente “di massa”, ben più al passo coi tempi di quanto potesse esserlo una letteratura considerata alta, colta e imbalsamata in rigidi schemi interpretativi che, nell’italietta semper giolittiana, ideologica e scolastica, hanno iniziato ad essere scardinati, con alterne fortune, soltanto da qualche decennio a questa parte.

All’epoca, gli anni dei Beatles e di Winchester Cathedral, Valla era un fan di J.G. Ballard e della New Wave inglese: la Carnaby Street della science-fiction. Più che per le iperboli e le invenzioni linguistiche di Van Vogt, o per i messaggi sociali della fantascienza engagé, lui tifava per dada e per i surrealisti.
«Come altri scrittori della science-fiction più recente» – scriveva nel 1970 – «Ballard ha riesaminato i vecchi temi utilizzandoli come base della narrazione per inserirvi temi e prospettive nuove. Nei racconti che egli definisce “tradizionali” ha elaborato ipotesi che vanno dalla deprivazione del sonno e le sue conseguenze, ai meccanismi attivatori innati, alle crisi psicologiche di rigetto, alle possibili psicologie “sintetiche”: l’Homo Atomicus di Terminal Beach, la regressione agli stadi filogenetici di Drowned World». E in un’altra occasione, qualche anno dopo, nel 1976: «Una tesi che personalmente ci pare sia sempre più plausibile è che la science-fiction delle origini sia l’equivalente autonomo e americano del futurismo europeo».
Borges pensava che tutta la letteratura (storia e filosofia comprese) fossero sottogeneri del genere fantastico? Valla, come Ballard, era dell’idea che il fantastico moderno (gli aliens, la Fondazione di Asimov, John Carter di Marte, i viaggiatori nel tempo, gli Slan) fosse un parente stretto, se non addirittura il gemello separato alla nascita, delle «avanguardie storiche». E che anzi fantasy e fantascienza, più di dada o del futurismo, sapessero dare forma alle «mitologie del XX secolo» (sempre Ballard dixit).

[…] Non si trattava, naturalmente, di prendere le difese del pop buono, figo, perbene e snob, che si difendeva benissimo da sé. Corto Maltese, Blow Up e Li’l Abner, J.G. Ballard, Brigitte Bardot, Frank Sinatra, On the Road, Barbarella non avevano bisogno d’essere assistiti dagli «avvocaticchi del pop» (antenati caviar dei presenti «avvocaticchi del popolo»). Molto più utile, e molto più difficile, era riconoscere (e difendere da eretici e gentili) le rozze radici popolari di queste culture: il cinema di serie B, le bravate di Mickey Spillane, Blek Macigno, le canzonette sdolcinate, i telefilm di Batman, Clint Eastwood e Sergio Leone prima che la critica babbiona erigesse loro un monumento, Doris Day e il Mulo Francis, Emilio Salgari, la fantascienza delle origini, le Pattuglie dello Spazio e del Tempo, le Armi di Isher, l’Era Hyboriana di Conan il Barbaro, la psicostoriografia di Hari Seldon, le scombinate epopee cosmiche di E.E. Smith, Tex Willer. C’erano liste di riabilitazione da compilare e svarioni culturali da correggere.
Come i surrealisti, che ai tempi loro avevano adottato (e anche un po’ preso a modello) Fantômas e il romanzo d’appendice che soltanto una generazione prima era stato beffeggiato da Marx-Engels nella Sacra famiglia, Riccardo Valla si fece carico, sotto il profilo storico e critico, della fantascienza rustica, ingenua e impresentabile delle origini, all’epoca snobbata anche dallo stesso fandom.

[…] Già con Sevagram, ai tempi del ciclostile, molto prima di lasciare Boringhieri per salire ai piani alti dell’editoria specializzata, Riccardo Valla si muoveva in questa direzione: la fantascienza aveva una storia (per di più avvincente «come un romanzo», come dimostravano per esempio i libri, le antologie e i ritratti di Sam Moskowitz) e andava raccontata al pubblico italiano, che ne ignorava personaggi, avventure, svolte e colpi di scena. Si trattava di ricostruire, con pazienza, ramo dopo ramo, l’albero genealogico del fantastico. Passate le ubriacature del sociologismo à la Galaxy, in via di rapida estinzione anche le fighetterie New Wave della fantascienza inglese, era il momento di passare dall’evviva a questo o quel messaggio tirabaci, sixties style, alla sostanza del fantastico: la materia di cui era fatto. Unico tra i convertiti al fantastico dai primi numeri d’Urania, Valla si dedicò a questo compito filologico con competenza, passione e serietà. Era tempo di mettere ordine, evitando snobismi e bellurie, nell’album di famiglia del fantastico e del moderno immaginario scientifico.
Per farlo, si doveva andare controcorrente, giù per li rami, e fino alle fonti. Ma erano gli anni sessanta e tutto doveva sembrare nuovo, dal look scravattato ai gusti musicali fracassoni. In un certo senso, d’altra parte, era davvero tutto nuovo, compresa la fantascienza, quella «umanistica» (Delany, Zelazny, Le Guin) come quella «tecnologica» e hard (Niven, l’ultimo Clarke, Pournelle). Ci voleva un occhio esperto, l’occhio allenato di Riccardo Valla, per ricostruire a colpo sicuro e senza equilibrismi sospetti l’esatta filogenesi d’ogni singola opera. Come il rock and roll, come Il giovane Holden e Love Me Do di Lennon-McCartney, anche la fantascienza era un fenomeno giovanile, o lo stava diventando.

[…] Erano cambiati d’un tratto i parametri, come a Carnevale, quando per un po’ i potenti calano le arie e i «poracci» (come sono chiamati dai demagoghi) invece alzano la cresta. Urania e l’Editrice Nord restavano. Restava Linus. Ma chi leggeva ancora La Fiera letteraria, Il Verri o Nuovi Argomenti? Isaac Asimov, in libreria, andava come il pane, quasi quanto Agatha Christie e Simenon. Ma nessuno – sotto i trent’anni, e anche sopra – cacciava un copeco per comprare l’ultimo Premio Strega o Viareggio. Chewbecca e C-3PO di Guerre Stellari e il Capitano Kirk di Star Trek erano più popolari, tra gl’intellòs, della nouvelle vague e dell’incomunicabilità. Adesso si parlava di fantascienza, come di fumetti (anche «neri») e di romanzi noir, di musica di consumo, e insomma «del brutto nel bello», senza più storcere il naso come prima che si verificasse questa «singolarità» culturale. D’un tratto non c’erano più differenze apprezzabili né distanze misurabili tra nobile e ignobile1,

In questa lunga citazione è compresa tutta una storia che, in fin dei conti, riguarda anche Carmilla e la sua battaglia per l’immaginario e una generazione che è in parte riuscita a non “dissipare del tutto i suoi poeti”2. Un motivo in più per leggere questo libro (in attesa del seguito).


  1. Diego Gabutti e G.L. Staffilano, Valla, van Vogt e «Sevagram, Introduzione a Riccardo Valla, SEVAGRAM, WriteUp Books, Roma 2022, pp. 7-17  

  2. Il riferimento è a un testo di Roman Jakobson, pubblicato per la prima volta nel 1931, ma in Italia soltanto alla metà degli anni Settanta, dedicato al “problema Majakovskij”: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, Einaudi, Torino 1975