di Valerio Evangelisti
[Questo testo è stato pubblicato per la prima volta su Letture del marzo 2003.]
Se non sbaglio, il primo romanzo horror che lessi fu nientemeno che Dracula di Bram Stoker, nell’edizione Pocket Longanesi. Mi piacque moltissimo, ma non ne fui spaventato più di tanto. Il cinema mi aveva già preparato a ben altri orrori; i sogni, anche.
Circa l’horror cinematografico, l’impatto più forte fu non con un film intero, ma con un provino. Dovevo avere sei o sette anni quando, in un cinema parrocchiale di Bologna, dopo una pellicola per bambini passarono il trailer de La mummia di Terence Fisher. Quella notte quasi non riuscii a dormire: nella mia cameretta, vedevo la mummia in ogni ombra più scura e apparentemente più mobile delle altre.
Il fatto è che i miei genitori erano rigidissimi nell’evitarmi qualsiasi spettacolo o lettura che potessero suscitare in me paura o sensazioni troppo forti. Se alla televisione passava un film da loro giudicato “impressionante” (era il termine che usavano), mi impedivano di vederlo e mi mandavano a letto. Con risultati contrari alle aspettative, perché dalla mia camera coglievo brani di dialogo, dal televisore di casa o da quelli altrui. Così mi abituai a dare corpo a quei dialoghi con le mie fantasie. E i risultati, è inutile dirlo, erano molto più impressionanti delle immagini del film proibito.
Mi scoprii a ricercare l’horror in tutte le sue forme per trarlo dalla sfera dei sussurri e per renderlo palese, in modo da poterlo esorcizzare. Dopo lo shock de La mummia, per esempio, disegnai una storia a fumetti, ispirata ai pochi fotogrammi del film che avevo colto. Raccontai ai compagni di scuola una versione immaginaria della pellicola, lunghissima e ricca di traversie. Mi trasformai in esperto di mummie. Insomma, quanto più i miei genitori si facevano rigidi (arrivarono a giudicare “impressionanti” i Gialli di Topolino e a proibirmene la lettura!), tanto più divenivo io stesso produttore di horror.
I sogni mi aiutavano. Ne ricordo due che mi spaventarono sul serio. In uno scivolavo nell’imbuto di una scala a chiocciola priva di gradini (chiaro riferimento al trauma della nascita), in un altro mi appoggiavo a una parete e quella cedeva. In pratica, ciò che mi impressionava era l’ignoto, sia come buio in attesa, sia come sovvertimento delle leggi consuete e confortanti.
Forse è per questo che, ormai adulto, non provo il minimo fremito davanti alle storie di Dario Argento e ai libri e ai film dedicati ai serial killers. Lame, scuri e coltelli (elementi tipici dei film di Argento) non rientrano nel mio arsenale di paure recondite. Lo splatter può destarmi raccapriccio, ma mai orrore vero. Ciò che mi turba (anche se adesso non mi terrorizza più) è l’irrazionale, l’inspiegabile; se possibile suggerito, più che mostrato.
L’horror capace di spaventarmi, sia nella letteratura che nel cinema, e che dunque mi appassiona di più (a parte l’ammirazione tutta estetica per il romanticismo delle grandi storie di vampiri e di mostri), è quello che sa raggiungere la mia sfera onirica. E che, di conseguenza, mi riporta alla condizione di bambino chiuso nella mia cameretta, pronto a individuare nelle sfumature più cupe del buio lo sguardo spento di una mummia a braccia tese.