di Emilio Quadrelli
“La violenza è intesa così come la mediazione principale. L’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza”. (F. Fanon, I dannati della terra)
La “grana” era nell’aria da tempo, che la “questione dei minori stranieri non accompagnati” dovesse prima o poi esplodere era solo questione di giorni. Di ciò ne erano perfettamente consci almeno chi, come chi scrive, ha quotidianamente a che fare con questi mondi. Quanto accaduto a Genova di recente nel quartiere del Molo ha, pertanto, ben poco di sorprendente. I fatti sono abbastanza semplici e li riportiamo per sommi capi.
In questo quartiere è stata aperta una struttura, con ventidue posti letto, per “minori stranieri non accompagnati”, questi ragazzi hanno dato forma a micro gang e a coeve attività di piccola criminalità; attività che, in alcuni casi, hanno preso di mira gli abitanti del quartieri i quali, in maniera abbastanza rumorosa, ne hanno chiesto l’immediato allontanamento. Essendo in piena campagna elettorale questi episodi hanno fornito un ghiotto assist per quelle forze politiche, come la Lega, che della lotta all’immigrazione ne hanno fatto un autentico brand.
In realtà, a uno sguardo un poco più attento, il dilagare di questo fenomeno non è circoscrivibile ai soli immigrati in quanto il proliferare di gang, non necessariamente etnicamente declinate, è un fenomeno che conosce una certa diffusione tanto che non è infrequente il formarsi di gang che associano nazionalità diverse, autoctoni compresi. Le denunce di alcuni autisti dell’AMT sulla difficoltà di lavorare, in seguito alla presenza molesta di queste gang, in orario seriale su alcune linee periferiche non focalizza l’attenzione su questa o quella nazionalità ma sulla presenza di bande minorili le quali, una volta salite sul bus, ne combinano un pò di ogni colore.
Di fronte a questo fenomeno, evitando tanto le retoriche xenofobe e razziste, tutte incentrate sul “sicuritarismo”, quanto quelle “buoniste”, tutte comprese all’interno dello “educazionismo in permanenza”, appare non solo utile ma opportuno provare a leggere questo fenomeno come un vero e proprio specchio di una realtà sociale la cui scomodità è tale da essere costantemente ignorata. Partiamo, pertanto, dalle condizioni di vita materiale dei “minori stranieri non accompagnati”.
Le cosiddette politiche dell’accoglienza non è che in questo paese abbiano mai brillato ma dall’aprile 2017, in seguito al Decreto Minniti – Orlando, hanno conosciuto più che un peggioramento un sostanziale azzeramento. Le risorse per i “minori stranieri” sono state pressoché dimezzate e le strutture deputate a ospitarli trasformate in un parcheggio, all’interno del quale è assente ogni progettualità, in attesa del compimento del diciottesimo anno di età.
Assai di frequente, per di più, l’inserimento dentro una di queste strutture avviene al termine di un periodo “avventuroso” nel quale il minore è alloggiato in un albergo convenzionato dove usufruisce unicamente di un bonus pasto per il mezzogiorno, da utilizzare in una qualche “mensa per poveri”, mentre per tutto il resto deve sbrigarsela da solo. Questa condizione, in non pochi casi, si protrae per mesi, mesi nei quali il minore non ha molte scelte, se non l’approdo a un qualche ambito della microcriminalità, per sopravvivere.
Da non ignorare, inoltre, il frequente attraversamento dei mondi della prostituzione. Questo non deve stupire poiché, come raccontano le statistiche, il nostro paese primeggia nell’apposita classifica del turismo sessuale. Trovarsi proprio sotto casa una non secondaria scelta di “frutti esotici” a non pochi bravi cittadini deve apparire come una vera e propria manna. Paradigmatico al proposito il “caso Don Seppia”, un parroco genovese particolarmente sensibile alle problematiche dei “minori difficili”, risultato a capo di un giro di prostituzione minorile dove, neanche a dirlo, la presenza di minori stranieri rasentava maggioranze bulgare. Il redditizio mondo della pedofilia trova nella figura del minore straniero un ambito di reclutamento quanto mai prospero e, ricordando la famosa asserzione di Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca”. Chiuso questo drammatico inciso proseguiamo.
La situazione di abbandono e indigenza non cambia di molto una volta che, i minori, approdano in una qualche struttura. Dal Decreto Minniti – Orlando in poi abbiamo assistito a un radicale mutamento degli istituti deputati a accogliere i “minori stranieri non accompagnati”. A fronte delle corpose riduzione delle rette le varie Associazioni e Consorzi del Terzo settore hanno risposto raddoppiando la capienza. Strutture pensate e progettate per dodici persone hanno repentinamente scoperto di poterne accogliere venti – ventiquattro, ma non solo.
Ciò che ha caratterizzato il Terzo settore in questi anni è stata la drastica ristrutturazione della forza lavoro. Da un lato, mentre il numero dei minori raddoppiava, il personale veniva quasi dimezzato ma non solo. Il Terzo settore cessava di assumere dipendenti e quindi personale qualificato poiché, a norma , chi lavora con i minori deve essere un “Educatore professionale” con tanto di laurea, per lavorare sopratutto con le partite IVA. In pratica, per lavorare nel Terzo settore, occorre aprirsi una partita IVA e, una volta diventati “lavoratori autonomi” è possibile “collaborare” con una Associazione, Consorzio ecc., senza dover mostrare alcun titolo. Ciò per l’industria del Terzo settore comporta vantaggi enormi. Le partite IVA sono pagate dieci Euro l’ora, dal quale ovviamente loro devono detrarre tasse e contributi, non hanno diritto a mutua, ferie e tredicesima, percepiscono la stessa retribuzione sia nei giorni feriali che festivi, per loro non vi è alcuna distinzione retributiva tra il diurno e il notturno e, in più, non hanno limiti di orario. Capita non di rado che, le partite IVA, accettino di fare turni da ventiquattro e persino da trentasei ore consecutive correndo da una struttura all’altra. Nei casi in cui non vi fossero partite IVA disponibili, il Terzo settore utilizza il “lavoro a chiamata”.
Il personale che ha a che fare con i minori vive una condizione di ipersfruttamento, precarietà e marginalizzazione sociale che, a ben vedere, lo rende non troppo dissimile dai minori stessi. Alla luce di ciò non ci vuole molto per comprendere il tratto infernale che fa da sfondo al mondo dei “minori stranieri non accompagnati”. Questa la breve disamina delle strutture deputate a prendere in carico i minori, una disamina che ha ben poco di particolare, di nicchia o che altro ma che, in tutto e per tutto, ha i tratti propri della eccezione in senso schmittiano. La veste del lavoro dipendente sotto forma di partita IVA sta diventando la moneta corrente in non pochi ambiti produttivi. Nella logistica e nell’edilizia, tanto per fare i primi esempi che vengono a mente, sono ormai una pratica abituale e ampiamente diffusa.
Ma torniamo ai nostri minori. Ciò che va compresa è la realtà degli attuali flussi migratori.
Quanto crisi, pandemia e guerra hanno comportato in contesti dove povertà e miseria erano già ampiamente presenti. non è difficile da immaginare. Siamo veramente, e fuor di metafora, di fronte ai dannati della terra; da qui occorre partire se vogliamo provare a leggere quanto, con sempre più frequenza, farà parte dell’ordinario scenario metropolitano. Solo a partire da una lettura del colonialismo e della sua attualizzazione possiamo sperare di trovare una via di uscita da ciò che, sempre più, si prospetta come una “guerra civile” dai connotati indecifrabili.
Esattamente qua nascono non pochi problemi. Per molti versi le gang giovanili hanno ben poco di nuovo tanto che, su queste, esiste una fiorente bibliografia sociologica soprattutto di stampo anglosassone ma, senza spingerci a tanto, basti pensare al proliferare, soprattutto negli anni sessanta e primi settanta, di gang giovanili nel nostro paese. Anche in quel caso, seppur in toni minori, la componente coloniale non era secondaria visto che non poche di queste gang erano formate da giovani provenienti dalla nostra colonia interna.
Le tante “coree” presenti nelle aree metropolitane che altro erano se non quartieri coloniali? Le assonanze, però, finiscono qua poiché quei territori coloniali erano anche e soprattutto quartieri operai dove veniva confinata la nuova classe operaia della grande fabbrica fordista di cui il ciclo di accumulazione capitalista aveva un vorace bisogno. In linea di massima tra l’identità del colonizzato e quella operaia finì con il prevalere la cornice operaia dove l’odio e la rabbia del colonizzato trovarono una non secondaria sistematizzazione.
Esattamente dalla sintesi operaio – colonizzato prese forma la “linea di condotta” di quella “sinistra operaia” che non pochi problemi diede al comando e alle sue articolazioni. Non solo la fabbrica, ma il carcere, la scuola, i quartieri per arrivare all’università furono scompaginate dal fare barbaro della nuova classe operaia. Il colonialismo cede solo con il coltello alla gola, ed esattamente su ciò si conformò l’agire della “sinistra operaia”. Centrale, in tutto ciò, fu il felice connubio, per quanto non protrattosi per molto, tra la nuova composizione di classe e un non secondario ceto politico – intellettuale. In altre parole è stato grazie alla saldatura tra movimento e nuova composizione di classe che, in non pochi casi, gli stessi comportamenti delle gang giovanili trovarono sia uno spazio che una sponda dentro l’orizzonte della rivoluzione.
A Genova, per rimanere nell’ambito urbano dal quale il testo ha preso le mosse, è stato grazie a Lotta Continua se in quartieri come Oregina – Lagaccio, Ravecca – Sarzano e Val Bisagno queste bande giovanili hanno trovato uno sbocco politico perché, cosa che i più sembrano dimenticare, le masse hanno soprattutto fame di politica. Questo, non per caso, è ciò che ricorda Lenin ai menscevichi mentre questi sono del tutto presi nelle battaglie per il copeco. Ma la fame di politica delle masse non la si soddisfa attraverso dotte risoluzioni, seminari affini all’erudizione o stantie liturgie prone alla gloria che fu, la fame politica delle masse trova la sua soddisfazione nella prassi.
Ben difficilmente, se Lotta Continua non fosse stata la formazione maggiormente avvezza allo scontro di piazza, alla contrapposizione violenta a padroni e polizia avrebbe avuto modo di entrare in relazione con le gang giovanile. Lotta Continua offriva una pratica e una prospettiva di lotta sul terreno del potere politico, questo il terreno che le gang giovanili fecero, almeno in parte, proprio. Quel mondo è tramontato e, sotto quelle vesti, nulla è in grado di riportarlo in vita. Le trasformazioni capitaliste hanno rimodellato per intero i mondi sociali e la classe ha connotati che ben poco ha a che vedere con ciò che ci siamo, ormai da tempo, lasciati alle spalle. Tuttavia, per quanto profondamente modificata, la classe non si è estinta ha solo cambiato pelle. Ed è esattamente su questa pelle che occorre ragionare e, con ciò, torniamo ai nostri minori stranieri.
Il loro destino ha ben poco di esotico ma sintetizza al meglio la prosaica condizione di quote di proletariato e classe operaia tendenzialmente maggioritarie anche all’interno dei nostri mondi. Sotto questa luce, allora, i minori stranieri non sono altro che una vicenda a mezzo tra una storia del presente e una storia del nostro immediato futuro. Per condizione incarnano al meglio quella tipologia operaia dequalificata e estremamente flessibile della quale l’attuale ciclo di accumulazione ha estremamente bisogno.
In una città come Genova, dove turismo, movida, edilizia e logistica sono tra le principali attività produttive, i minori stranieri sono l’esatta incarnazione di questo nuovo soggetto operaio. Sono loro che, limitando lo sguardo al turismo e alla movida, forniscono la principale mano d’opera per bar, ristoranti, alberghi, locali di intrattenimento o si occupano della pulizia di questi locali passati al vaglio della inesauribile “gioia di vivere” del cittadino. Per altro verso sono loro a occuparsi di tutti quei “bisogni illeciti”, come sesso a pagamento e droga, di cui i cittadini sono particolarmente ingordi. In altre parole turismo e mondo del divertimento poggiano per intero sul lavoro di questa classe operaia. Per cogliere questa realtà non occorre vantare particolari sensibilità sociologiche, è sufficiente non essere, volutamente, ipovedenti. Esattamente qua si coglie la distanza tra movimento e classe.
Certo questa è una classe che non ha nulla di “comunista” ed è del tutto estranea alle retoriche del movimento ma, del resto, anche la classe operaia degli anni sessanta e dell’autunno caldo aveva ben poco di “comunista” tanto che i comunisti, con tanto di partito e sindacato, bollarono a più riprese questo nuovo soggetto operaio come teppista se non addirittura fascista. Retoriche non troppo dissimili vengono utilizzate oggi verso i minori stranieri mentre, al contempo, si rincorre il mitologema della classe operaia che fu. Come si vede, per certi versi, nulla di nuovo sotto il sole!
In effetti i minori stranieri hanno ben poco di “comunista” in quanto il loro orizzonte più che essere animato dalla critica della merce è ossessivamente posseduto dalle merci e dai suoi immaginari tanto che, parafrasando Marx, si potrebbe tranquillamente asserire che: “La merce è l’oppio dei popoli” senza dimenticare che, in contemporanea, “La merce è (anche) il gemito degli oppressi”. Con ciò, però, una qualche assonanza con la vecchia “sinistra operaia” riemerge. “Più soldi e meno lavoro”, “Cosa vogliamo? Vogliamo tutto”, non erano, almeno secondo i rituali e le liturgie ortodosse, programmi molto “comunisti”.
Sullo sfondo di questi programmi più che il “sol dell’avvenire” (continuamente posticipato in un futuro imprecisato), vi era il qui e ora del bisogno operaio, vi era l’accesso alla ricchezza e la liberazione dal giogo del lavoro. Nella loro pratica i minori stranieri non sembrano differenziarsi di molto da ciò e, sulla base della semplice esperienza, hanno compreso che tutto ciò non può che darsi dentro uno scontro di potere. Tutto questo trova una qualche sponda nel movimento? Se escludiamo il Si.Cobas e pochissimo altro, non troviamo realtà che possano vantare un qualche rapporto reale con la classe.
La cesura tra movimento e classe assume tratti persino imbarazzanti ed è una cesura la quale ha ben poco di ideologico e/o politico ma affonda le sue radici interamente dentro a una condizione materiale. Per comprenderlo basta osservare una qualunque sera della movida. Sarà facile, infatti, vedere il movimento agitarsi con “fare desiderante” tra i vari locali dell’intrattenimento e del divertimento mentre i giovani stranieri sono confinati nei retrobottega a preparar loro cibi e bevande così come sarà altrettanto facile osservare gli antagonisti richiamare l’attenzione di un qualche giovane straniero al fine di rifornirsi dell’immancabile kit di sostanze che, nel rituale del fine settimana, non può mai mancare. All’alba, infine, tutti tornano a casa solo che il movimento vi torna in auto, moto o scooter i giovani stranieri in autobus o bicicletta.
In tutto ciò, come appare chiaro, non vi è nulla di ideologico ma l’emergere di una situazione materiale obiettivamente incommensurabile. Questa distanza non è altro che il frutto maturo del colonialismo il quale, nel mondo globalizzato, è stato bellamente importato dentro i confini del vecchio Primo mondo e ha ridefinito per intero i rapporti tra le classi. Dentro questo scenario è obbligatorio imparare a stare, assumendo per intero la questione della “bianchità” e tutto ciò che si porta appresso. Non farlo significa rinunciare a cogliere l’elemento di rottura che la nuova classe operaia incarna ma non solo. Non farlo significa consegnare alle sirene “fondamentaliste” la richiesta e il bisogno di politica che queste masse portano in seno della quale il “teppismo” ne è semplice incarnazione fenomenica. Un aspetto che, chi scrive, ha potuto osservare in presa diretta.
Ragazzi del tutto estranei a qualunque retorica religiosa e per molti versi iper-occidentalizzati (la completa adesione alle mode giovanili occidentali non è un aspetto trascurabile poiché indica l’adesione e il desiderio di appartenere a un determinato “stile di vita” e ai consumi che questo si porta appresso), nel momento in cui si sono resi conto che la servitù è l’unico destino che l’occidente ha in serbo per loro, hanno ri/scoperto la religione non tanto come ambito di preghiera, bensì di lotta. Per questo motivo, la questione dei “minori stranieri”, ha ben poco a che vedere con la devianza, la criminologia, l’antropologia cultura e amenità simili ma è interamente una questione politica anzi, con ogni probabilità, racchiude il cuore del “politico” contemporaneo.