di Emilio Quadrelli
Torniamo quindi alla questione dell’esclusione sociale. Andando al dunque noi oggi assistiamo a un autentico rovesciamento di prospettiva delle relazioni tra le classi. In poche parole siamo passati da un rapporto fondato sull’uguaglianza e la perfetta simmetria tra queste a una relazione declinata sull’ineguaglianza e l’asimmetria. In altre parole teoria e organizzazione di classe sono obbligate a ripensarsi a partire da un rapporto sociale e politico fondato sull’asimmetria. Ma tutto ciò a che cosa rimanda? Non è forse la “guerra asimmetrica” la “forma guerra” del presente?
Tra gli aspetti che caratterizzano la forma guerra contemporanea, per lo meno da parte delle potenze imperialiste, è l’utilizzo di soli volontari, la cui professione, ancorché sotto le bandiere nazionali, è esattamente quella del soldato, insieme al massiccio utilizzo di forze militari “private”, veri e propri professionisti della guerra e della sicurezza. Un aspetto che mostra per intero come il paradigma guerra del’intera modernità, caratterizzato dagli eserciti di leva, sia bellamente tramontato e con questo quel diritto all’armamento della popolazione, pur solo maschile, che aveva fatto da sfondo, e da forza, all’esercito rivoluzionario della Francia repubblicana. La fine degli eserciti di leva rappresenta un passaggio non secondario della perdita di interesse strategico, da parte degli assetti imperialisti, nei confronti delle masse subalterne. In questo senso la scissione tra popolo ed esercito è parte non secondaria di quella condizione di esclusione a cui le masse sono deputate.1. Non è da lì che, con ogni probabilità, occorre partire per delineare le forme organizzative del presente?
Se, come sembra sensato sostenere, rimane pur sempre vero che è dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia solo a partire dal punto più alto del “politico” diventa possibile decifrare il presente in tutte le sue articolazioni2.
Realisticamente non è possibile pensare l’organizzazione politica della classe, la sua forma partito nella fase imperialista contemporanea, omettendo di fare i conti con il carattere proprio di questa fase di cui la guerra e la sua forma ne sono, al contempo, aspetti costitutivi e costituenti3. Sarebbe come se, Lenin e i bolscevichi, avessero pensato di costruire l’Internazionale comunista ignorando al contempo la natura del capitalismo monopolistico e finanziario, la forma stato messa a regime nel corso della Prima guerra mondiale insieme alla forma guerra a cui tale scenario obbligava4. Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, lo potrebbe persino immaginare. Oggi, avendo a mente le mutazioni oggettive che la nuova fase imperialista ha imposto e sedimentato, occorre decifrare per intero il senso e il significato che la relazione di asimmetricità comporta. In tutto ciò, a ben vedere, vi è ben poco di innovativo ma, proprio assumendo per intero questa prospettiva, ci collochiamo di diritto all’interno della piena “ortodossia”5.
Pensiamo a Lenin e all’importanza che il Della guerra6 riveste per la messa a punto del “pensiero strategico” del bolscevismo. L’idea di partito come “quartiere generale” è esattamente mutuata dall’evoluzione del pensiero militare, attraverso Clausewitz prima e Moltke (il vecchio) dopo. Un concetto che, a sua volta, si inseriva appieno sulla scia delle trasformazioni che Napoleone aveva apportato alla “arte della guerra”7. Lenin, quindi, modella il partito formale tenendo costantemente a mente la cornice all’interno della quale la forma guerra è catturata dal pensiero strategico della borghesia. Lo studio sistematico dell’organizzazione degli eserciti borghesi, per Lenin, non è un hobby ma un lavoro di partito a tutti gli effetti poiché la compenetrazione di politico e militare è immediatamente riconosciuto come l’a priori che sta in permanenza sullo sfondo della politica8.
Lenin, pur portando sino alle estreme conseguenze le coordinate della forma guerra a lui contemporanea, attraverso la concettualizzazione della guerra civile internazionale9 ne mantiene i contorni all’interno di una relazione sostanzialmente simmetrica. Del resto, indipendentemente dall’asimmetria “tecnica” che ha per lo più caratterizzato la guerra tra subordinati e classi dominanti, ciò che, ai fini del nostro discorso è importante evidenziare, è la relazione tra forze di pari grado e dignità a cui il conflitto tra proletariato e borghesia concettualmente rimandava in quella determinata fase imperialista10.
La fase imperialista con la quale Lenin fa i conti, pur avendo oggettivamente unito il mondo, non lo ha reso uguale. La “questione coloniale” presenta, a tutti gli effetti, peculiarità proprie che vivono in unità dialettica con le lotte del proletariato dei Paesi altamente industrializzati, senza per questo potersi uniformare meccanicamente a questi11.
Per molti versi la relazione improntata su un rapporto asimmetrico può vantare una lunga e consolidata tradizione. Tutta la storia del colonialismo, infatti, rimanda esattamente a ciò. Mentre, all’interno di quell’ordinamento spaziale ascritto al “mondo civile”, la guerra e la sua conduzione soggiaceva a una regolamentazione improntata al reciproco riconoscimento, oltre confine nessun vincolo limitava la conduzione delle operazioni militari. Il tratto “non – umano” a cui erano ascritte le popolazioni esterne ed estranee al “mondo civile” consentiva di agire nei loro confronti senza remore di sorta.
Sullo sfondo di ciò vi era una giustificazione che, col tema che stiamo affrontando, ha molto a che vedere poiché a legittimare la mano libera verso quelle popolazione era un’assenza: la mancanza di storia12. Tutta l’epopea coloniale è rappresentata come un continuo confronto tra i popoli con una storia, le potenze coloniali, e i popoli senza storia, gli abitanti dei territori colonizzati le cui esistenze, agli occhi dei colonizzatori, si mostrano come pura contingenza13. Gli eserciti coloniali non si trovavano di fronte un nemico “politicamente organizzato” bensì masse indistinte, organismi tribali, strutture etniche e via discorrendo. Lo scarto tra questi organismi e la forma politicamente organizzata dei conquistatori non poteva che delineare, a partire dalla sua concettualizzazione, una relazione asimmetrica. Uno scenario che, in un processo a cascata, informa tutte le relazioni tra colonizzatori e colonizzati a cominciare dal modo in cui il colonialismo gestisce il rapporto con la forza lavoro indigena.
L’asimmetria che regola la forma guerra, infatti, non può che informare per intero il rapporto tra i proprietari colonialisti e i lavoratori indigeni. In colonia quella relazione uguale e simmetrica individuata da Marx che lo portava ad affermare che tra diritti eguali, vince la forza, non regola il rapporto tra colono e colonizzato14. Certo, la forza continua a mantenere per intero la sua valenza demiurgica ma, ed è questo il punto, fondandosi su una relazione asimmetrica.
Nel passato il diritto alla storia, per i popoli colonizzati, è passato attraverso il legame con il movimento comunista internazionale frutto della rottura storica che Lenin e il bolscevismo furono in grado di imporre dentro il movimento operaio e proletario internazionale. Sino alla formazione dell’Internazionale comunista, i popoli senza storia, avevano avuto all’interno del movimento operaio cittadinanza praticamente nulla. Il tratto etnocentrico, velocemente convertitosi in razzismo e imperialismo, di gran parte della Seconda Internazionale aveva tranquillamente posto tra parentesi la “questione coloniale”15.
Sono Lenin e i bolscevichi a porla come aspetto fondamentale all’interno del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’Internazionale comunista pone i popoli coloniali, le loro storie e le loro lotte, come naturali alleati dell’organizzazione politica del proletariato, con ciò i popoli senza storia acquistano il diritto a esistere in quanto forma “politicamente organizzata”. Ciò che sarebbe stato impensabile, sotto il profilo concettuale, per Abdel Kader16, diventa persino ovvio per il FLN17. L’Internazionale comunista, portando i popoli colonizzati dentro il “politico”, li emancipa dalla dimensione prepolitica in cui il colonialismo li aveva ascritti. Le retoriche incentrate sulle culture, sulle etnie ecc. cominceranno a ritirarsi dallo scenario del discorso politico per far posto a termini universalistici quali popoli, nazioni, classi. L’inclusione della “questione coloniale”, portando i popoli senza storia dentro l’orizzonte della rivoluzione socialista, li ascrive di diritto dentro il lessico della politica.
Lenin include la “questione coloniale” a pieno titolo dentro la relazione rivoluzione/controrivoluzione non sulla base di un astratto e altrettanto inconcludente umanitarismo ma come diretta e logica conseguenza che l’epoca imperialista ha comportato per il modo di produzione capitalista e il sistema – mondo che questi, obiettivamente, ha ormai realizzato. I “popoli senza storia”, dentro la fase imperialista, diventano comparti strategici in virtù della funzione che assolvono proprio per l’imperialismo. Sono loro, in fondo, a tracciare e ad anticipare il divenire a cui il sistema – mondo del capitalismo aspira. La “felice sospensione” di cui ha potuto usufruire il proletariato occidentale, e in primis quello europeo, tra il 1945 e il 1989 osservato su un piano oggettivo e disincantato è stata l’aporia a cui l’esistenza del Patto di Varsavia, con lo scenario bellico che questo presupponeva proprio dentro il Vecchio Continente, ha obbligato il comando del capitalismo internazionale. Per il modo di produzione capitalista non l’operaio europeo, ma il proletario extra occidentale incarnava la sua linea di sviluppo. In altre parole è sempre il lato cattivo a tracciare il divenire di una formazione economica e sociale18.
L’orizzonte dentro cui viveva il proletariato occidentale, a partire dal 1989, si è repentinamente volatilizzato. Da quel momento in poi tutte le argomentazioni proprie dell’era coloniale hanno trovato una nuova e piena cittadinanza. Declinato in versione scontro tra le civiltà o nel più rassicurante e apparentemente indolore ordine discorsivo del multiculturalismo nel mondo ormai fattosi realmente unico è la relazione asimmetrica tra le classi a diventare egemone19. Una condizione che, a macchia d’olio, cattura quote sempre più ampie di popolazione.
Non troppo differentemente dalle popolazioni colonizzate, gli esclusi del mondo contemporaneo, sono tali, indipendentemente dalle loro specifiche condizioni empiriche, poiché appaiono privi di esistenza storica20. Ciò che li rende impotenti è l’assenza di una prospettiva storica che solo il costituirsi in classe “politicamente organizzata” è in grado di garantire. Ciò non significa assenza di lotte e di conflitto, il mondo attuale è molto meno pacificato di quanto lo si voglia far apparire ma, l’assenza di una forma politica adeguata alla fase contemporanea, imprigiona le lotte del presente dentro un limite “astorico” insuperabile. Se, come queste note stanno delineando, l’assonanza tra esclusione sociale e modello coloniale21 presenta non poche similitudini si tratta allora di individuare entro quali coordinate esclusione sociale e tempo storico possono “concretamente” incontrarsi poiché solo questo è il passaggio che consente alle lotte oggettive di farsi forza soggettiva. Molto concretamente è dentro tali coordinate che, quindi, va nuovamente posta la fatidica domanda del Che fare?.
Studiare, in tutte le sue articolazioni, la forma guerra ne rappresenta un primo ma indispensabile passaggio, a partire da quell’interesse per la “guerra in città e tra la gente” alla quale, i centri strategici e di intelligence, dedicano non poche risorse ed energie; così come, la rivisitazione critica di tutte le esperienze che hanno visto fondare una teoria delle forze irregolari22, costituisce un patrimonio teorico che va valorizzato al meglio. Allo stesso tempo alcune esperienze storiche legate a determinate fasi della guerra di popolo, come nel caso dell’esperienza del FLN algerino, il cui modello continua a essere un riferimento costante per consistenti quote di subordinati di pelle scura, non possono essere ignorate. Senza dimenticare, ovviamente, ciò che le lotte e le indicazioni del presente ci raccontano. Se, come sembra sensato affermare, il vero paradosso del capitalismo globale è la rimessa in circolo di un modello coloniale non spazialmente separato ma diversamente declinato – di qui l’esclusione sociale dei nostri mondi come articolazione “locale” del modello coloniale – ciò che si pone all’ordine del giorno è la messa a punto di una teoria e di una prassi in grado di unificare dentro il progetto di un’idea – forza23 le lotte e le resistenze che oggettivamente le contraddizioni del sistema capitalista sono obbligate a produrre .
La nuova eresia marxiana passa e parte esattamente da qua.
(Fine)
Si veda: Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, mentre sulle trasformazioni della figura del soldato si veda, AA. VV., La metamorfosi del guerriero, Conflitti globali 3, Agenzia X, Milano 2006. Sulla figura dei combattenti privati si può ancora vedere: G. Spinelli, Contractor, Mursia, Milano 2009 ↩
Si tratta, a nostro avviso, del passaggio centrale dell’intero ragionamento e, al contempo, l’unico modo marxista per affrontarlo. Questo non solo perché, in ogni caso, è sempre dalla sintesi più alta del “politico”, di cui la forma guerra ne rappresenta la massima tensione ma perché, nel mondo attuale, tenere separate esclusione sociale e forma guerra significa non cogliere, per intero, le ricadute concrete, reali e materiali che l’era della globalizzazione ha apportato rimanendo convinti, in qualche modo, che la linea spaziale che aveva caratterizzato un’intera epoca storica sia tuttora agente. Significa pensare il mondo attuale ancora pervaso da un dentro e un fuori mentre, in realtà, siamo immersi in un “sistema mondo unitario” all’interno del quale, a fare la differenza, sono gradazioni diverse del medesimo sistema. L’oggettività di tale processo lo possiamo facilmente desumere dalle ricadute globali che la crisi esplosa nel 2008 ha avuto sull’intero sistema finanziario e industriale internazionale. Mentre, nel 1929, nonostante il suo effetto devastante, la crisi risultò circoscritta prevalentemente alle potenze imperialiste oggi, le sue ricadute, sono palpabili sull’intero pianeta. A partire da ciò non sembra una forzatura sostenere che l’esclusione sociale non è altro che un aspetto dell’attuale forma guerra. ↩
Cfr., D. Zolo, Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009 ↩
Per una discussione su questi passaggi, E. Quadrelli, (a cura di) , Lenin, cit. ↩
Per una discussione sul modo di essere e applicare l’ortodossia marxista senza precipitare in un dottrinarismo insulso e inconcludente rimangono tuttora fondamentali le pagine di G. Lukács, “Rosa Luxemburg marxista”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit. ↩
C. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1997. ↩
Per una buona ricostruzione di questi passaggi, cfr., R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009 ↩
Su questo tema si veda, soprattutto, F. Gaja, Lenin, marxismo e tattica, in V. I. Lenin, “Note al libro di von Clausewitz: “Sulla guerra e la condotta della guerra”, Edizioni del Maquis, Milano 1970. ↩
Pur tenendo a mente, e assumendole in gran parte, le argomentazioni di C. Schmitt presenti in Teoria del partigiano, cit., dove Lenin, in quanto teorico dell’inimicizia assoluta, è considerato colui il quale apporta una rottura decisiva nella messa in forma della guerra attraverso, appunto, la formalizzazione della guerra civile internazionale, ci sembra che ciò non abbia alcuna ricaduta sul permanere di una relazione fondata sulla asimmetricità e il reciproco riconoscimento delle parti in guerra. Semmai, ma questo è un passaggio che sta già ampiamente dentro i confini della Prima guerra mondiale, ciò che viene decisamente meno è il perimetro rigidamente nazionale, insieme alla forma statuale eretta su tali basi, che la guerra civile internazionale comporta. ↩
Il fatto che, sotto il profilo prettamente tecnico – militare, il rapporto tra gli apparati della borghesia e le forze combattenti del proletariato delineino una situazione obiettivamente asimmetrica non inficia il principio che, entrambi i contendenti, si presuppongano come nemici storicamente legittimi. Lo scarto tecnico che separa i due campi non va inteso anche come scarto politico poiché, ed è questo il punto, la “forza” vince tra contendenti che possono vantare “pari diritti”. ↩
Tutto ciò è ben argomentato in, V. I. Lenin, “Sul diritto di autodecisione delle nazioni”, in Id., Opere, Vol. 20, Editori Riuniti, Roma 1966. ↩
Per una buona discussione su questo tema si veda, E. R. Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, Il Mulino, Bologna 1990 ↩
C. Schmitt, Il nomos della terra, cit. ↩
Aspetto colto per intero da F. Fanon in, I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000. ↩
Cfr. “Il marxismo nell’età della Seconda internazionale”, in AA. VV., Storia del marxismo, Vol. II, Einaudi, Torino 1979 ↩
Leggendario combattente algerino che iniziò a opporre una resistenza armata contro il colonialismo francese a partire dal 1832. La sua lotta si protrasse sino al 1847 obbligando i francesi a impegnare oltre 100.000 soldati per sconfiggere le forze guerrigliere di Abdel Kader. Nei confronti di questa resistenza, da parte francese, furono tentate mediazioni di carattere militare senza che, a tutto ciò, facesse corrispondenza un riconoscimento politico. Ai guerriglieri algerini, andando al sodo, si riconosceva una forza e una presenza militare simile a quella di una banda di fuorilegge con la quale, in forza della loro organizzazione militare, è pur sensato trovare una qualche forma di accomodamento senza per questo ascriverla all’ambito del “politico”. Il vessillo di Abdel Kaders, in omaggio a quell’eroica resistenza, è diventata la bandiera dell’Algeria indipendente. Su questi eventi, cfr., C. Jeanson, F. Jeanson, Algeria fuorilegge, Feltrinelli, Milano 1956 ↩
La natura politica del FLN è riconosciuta pressoché fin da subito dalle forze politiche coloniali francesi. Non a caso, le trattative, non avvengono tra rappresentati o emissari militari ma da rappresentati ufficiali del Governo francese e del Governo provvisorio algerino. Uno scenario molto diverso dal contesto attuale dove, come nel caso dell’Iraq o dell’Afghanistan, le trattative, che pur esistono, hanno un carattere prevalentemente militare. In questo caso, però, la trattativa è messa in atto per risolvere un problema operativo, la difficoltà a condurre la guerra in determinate condizioni, senza che, tutto ciò, presupponga l’esistenza di un interlocutore “politicamente organizzato”. Non a caso si parla sempre di trattative con bande di ribelli e mai di forze politicamente legittime. Sulle trattative tra FLN e Governo francese, Cfr., A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit. ↩
Su questo aspetto rimane fondamentale, L. Althusser, “Contraddizioni e surdeterminazioni. (Note per una ricerca)”, in Id., Per Marx, Mimesis, Milano 2008 ↩
Immediatamente dopo il 1989 sono emersi due ordini discorsivi che, per il nostro ragionamento, sono particolarmente utili da tenere a mente. Da un lato abbiamo avuto con S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, l’ipotesi che, una volta venuto meno il conflitto fondato su due teorie universali quali il capitalismo e il comunismo, il mondo sarebbe tornato a organizzarsi sulla base delle diverse civiltà che lo avevano caratterizzato prima che l’idea – forza del comunismo diventasse il collante di tutti gli oppositori del capitalismo e che, tra queste diverse civiltà, il conflitto, anche armato, sarebbe stato inevitabile mentre, dall’altra, come ad esempio è argomentato in, J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2002, non necessariamente queste diverse civiltà e culture avrebbero dovuto portare alla collisione. Da lì il proliferare di tutte le politiche “buoniste” incentrate sull’accoglienza, l’integrazione, l’ospitalità lo scambio e via dicendo. Si tratta, osservando le cose con un minimo di attenzione, di due ipotesi più complementari che tra loro conflittuali. Per entrambe, infatti, a fronte di una cultura alta e una civiltà elevata rappresentata dal mondo Occidentale, si articolano modelli sociali e culturali, di grado e qualità inferiore, nei confronti dei quali, partendo sempre da una postazione di superiorità, si possono articolare pratiche di relazioni diverse. Ciò che caratterizza entrambe queste ipotesi è la palese relazione asimmetrica tra un “noi” e un “loro” ma ciò è esattamente il principio guida delle nostre società. Infine non è inessenziale rilevare come, per lo più, gli appartenenti ai due schieramenti si siano trovati concordi, magari con motivazioni diverse, nell’appoggiare tutte le operazioni belliche condotte dalle forze imperialiste negli ultimi venti anni. ↩
Non a caso, oggi, rivive appieno a livello di massa la “arte di arrangiarsi”. Un aspetto che ha ben poco di postmoderno ma riprende appieno una consolidata abitudine dei popoli colonizzati prima che, la scintilla della decolonizzazione, offrisse loro una chance di vita completamente diversa. Al proposito si veda, F. Fanon, I dannati della terra, cit. ↩
Un esempio quanto mai indicativo di ciò può essere colto osservando l’occupazione militare della Val Susa. Di fronte a intere popolazioni in lotta per la difesa del loro territorio lo Stato, comportandosi come potenza coloniale, occupa militarmente un territorio al fine di imporre gli interessi di ristretti ambiti finanziari e industriali. ↩
Sotto questo aspetto una nuova lettura della “linea di condotta” inaugurata nel corso della guerra di guerriglia nel deserto da T. H. Lawrence ne rappresenta un passaggio essenziale. T. H. Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2004 ↩
Sul peso e sul ruolo che l’imporsi di un’idea – forza riveste sulla scena storica vale la pena di riportare un sintetico passaggio di Marx: “L’arma della critica non può, in verità, sostituire la critica delle armi; la potenza materiale deve essere abbattuta da potenza materiale; però anche la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse”, K. Marx, “Critica della filosofia del diritto di Hegel”, in Id., Scritti politici giovanili, Einaudi 1975 ↩