di Luca Baiada
Questo 78° anniversario della strage del Padule di Fucecchio, come delle altre grandi stragi dell’estate 1944 nell’Italia occupata, cade in un contesto speciale: di nuovo la guerra in Europa, di nuovo crimini di guerra e ancora controversie internazionali sui crimini della guerra mondiale. Come se non si volesse imparare nulla. Il moscone ripete la sua danza macabra contro il vetro. La storia maestra di vita parla una lingua morta.
Nei racconti di circostanza tutto torna, in realtà ogni cosa è fuori posto. I 174 morti di quel 23 agosto di sangue, vittime di una strage fra le più insensate dell’occupazione tedesca, non hanno avuto giustizia. Anche per loro – tante persone a lungo dimenticate, la più piccola di quattro mesi – adesso si versano fiumi di discorsi, si fanno spettacoli, si ripetono parole d’ordine trite. Si è persino celebrato un processo nuovo: a sua volta, ormai, è già vecchio di dieci anni; e come gli altri, ha fabbricato carte.
Dei condannati subito dopo la guerra, già negli anni Cinquanta non ce n’era più uno in carcere; i due condannati in questo secolo, invece, il carcere non l’hanno visto neanche per un giorno; sì e no l’hanno sentito nominare restando comodamente a casa loro, in Germania. Nella società dello spettacolo la caccia ai nazisti è un birdwatching.
E il risarcimento ai familiari delle vittime? Solo in questo secolo se n’è appena parlato, nel senso che una prima sentenza aveva condannato lo Stato tedesco, ma il provvedimento è stato cancellato quasi subito, appena la Germania ha fatto la voce grossa alla corte dell’Aia, per un’ipoteca su una sua villa sontuosa, a Como. È rimasto l’obbligo di risarcimento a carico dei due militari tedeschi condannati, ed è una gran bella consolazione: vai a provare a eseguire in Germania una sentenza italiana, se hai tempo e denaro da sprecare. Un senso desolante di mani vuote e di aria piena, una piega di beffa e d’operetta, qualcosa di assurdo fa sì che si possa guardare a queste cose con la rabbia della solita storia e con la tentazione della solita cronaca. In fondo, se adesso continuano le stragi, se ora tocca all’Est europeo uccidere e morire, con che coraggio si parla di 174 vittime oscure, ficcate nel mare di sangue di una guerra mondiale con decine di milioni di morti?
E invece è proprio il contrario. Si serba l’umanità se si riconosce il seme della storia in ogni storia, se di fronte a tutto questo non ci si rassegna alla forza ipnotica del racconto senza conseguenze, dei verborini, del mai più. Proprio lui, il mai più, sogghigna malizioso nella manica di ogni oratore da palco, che sia un sindaco o un presidente o un assessore o un rappresentante di qualcosa, perché se il sangue di 78 anni fa non conta, anzi, se 78 anni non sono bastati a fare giustizia, a che serve chiederla per chi muore in Ucraina? La mancata giustizia diventa l’accompagnamento naturale della legge del più forte, si trasforma in un pegno carnivoro che spinge solo alla vendetta immediata, alla legge della foresta. Un invito all’assassinio. E poi vai a parlare di giustizia internazionale, di rule of law, di valori europei.
Sorda a tutto questo, una classe dirigente che si cambia d’abito senza scrupoli, un ceto impermeabile che non fa lo schizzinoso tra feluche, toghe e grisaglie, proprio quest’anno ha servito l’ultima pietanza al banchetto. Qualcuno, come nel 2008, adesso aveva provato a realizzare i crediti da stragi e deportazioni, iscrivendo altre ipoteche su beni statali tedeschi. Ancora lesa maestà! La Germania ha fatto di nuovo causa alla corte internazionale di giustizia, proprio come nel 2008, e la legge italiana è corsa in aiuto del più forte, proprio come allora.
Con un provvedimento inserito in uno dei decreti legge sul Pnrr – nel nome della resilienza, che con la Resistenza va d’accordo come il diavolo con l’acqua santa – l’iniziativa legale contro la Germania è stata fermata. I debiti di Stato non sono come le rate di mutuo di un lavoratore malpagato. Contemporaneamente è stato istituito un «fondo-ristoro», per dar qualcosa ai familiari di queste vittime. Un fondo fatto con limitati stanziamenti italiani, non certo con denaro tedesco, perché a pagare, molto o poco o pochissimo, Berlino non ci pensa proprio. A questo fondo si può attingere solo a condizione di aver fatto una causa civile o di cominciarla entro pochi mesi, perché mica bastano 78 anni di dolore. Persone che soffrono da generazioni devono andare da un avvocato, raccontare tutto daccapo, esporsi al rischio di non essere credute; così, perché non si sa mai.
Sulle vittime grava il sospetto che si serba per gli invalidi, per gli infortunati sul lavoro, per chi chiede il reddito di cittadinanza: ma questo qui, fa mica il furbo? Quanto prenderanno, poi, è oscuro, perché i decreti attuativi non si vedono e non si sa quante saranno le domande. Sicuramente l’importo sarà molto inferiore a quello dovuto: potrebbe bastare per pagare un fascio di bollette pazze, di quelle che terrorizzano i pensionati. In compenso, il fondo-ristoro già produce i suoi effetti maligni, dividendo le famiglie colpite, creando aspettative ambigue e problemi di coscienza. Se fai causa accetti un brutto scherzo, perché forse avrai qualcosa dal contribuente italiano, cioè da te stesso e dai tuoi, e niente dagli assassini. Se non fai causa ti sembra di perdere un’opportunità; e poi magari i soldi, pochi e maledetti, servono a tuo figlio, a tuo nipote, che non trova lavoro. Questa è la bontà del paese dei mille populismi, dove tutti mettono Italia nei simboli di partito, dove tutti sono sovranisti, padroncini di qualcosa e amiconi immaginari di comunità col cuore in mano.
Non era forse più solidale quel barrocciaio padulino, in Valdinievole, con la sua ballata mandata a memoria, quando diceva «a raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò»? Cantava di una strage, del popolo e dei partigiani, e chi ha sentito almeno una volta quella melopea toccante, quei versi che sembrano venire da un tempo fuori della storia, ha intravisto un passato denso di significato. Vero o falso? Effetti distorti del lutto, sindrome del mondo perduto? In fondo, qui sta il punto. La questione della memoria, ingannevole o semplicemente malposta, nasconde la percezione di sé e la progettazione del futuro. Non è un caso, che la memoria come oggetto politico si sia affermata dopo il crollo del blocco socialista, quando la fine della contrapposizione fra i due modelli economici sembrava togliere ogni scusa alle retoriche belliciste e all’impunità dei crimini commessi nel conflitto mondiale. Ma quell’ornato linguistico era ingannevole, erano altri fiori di carta, il Ventesimo secolo si chiudeva su un equivoco e lasciava le premesse per altri raggiri, altri modi di cambiare discorso.
La mancata giustizia sulle stragi, accompagnata da una scorpacciata di narrazione spettacolare e retorica esortativa, adesso porge il suo canovaccio di impunità: per le vittime ci sono tante parole, mostre ufficiali, percorsi tematici, sentieri attrezzati, siti dedicati, applausi da dare e da prendere, gemellaggi, monumenti e molte altre cose indispensabili. La promessa per quel che accade nell’Est europeo, per quel che può accadere ovunque, è un disegno tratteggiato, che è facile riempire unendo i puntini: le vittime non hanno diritti, su ogni violenza galleggia, sguazza, si mette comoda una fungaia notabilare pronta ad ammorbidire le cose con parole caute, al limite a girare intorno al dolore coi ristori, le riparazioni, i lenimenti. La fantasia verbale non ha limiti, ma tutto deve restare come prima, perché il potere abbia sempre sotto mano sicari che restino impuniti.
A questo crocevia, su questo confine lasciamo che si affacci il nostro barrocciaio, con la sua ballata senza risposta.