di Armando Lancellotti
Mimmo Franzinelli, L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2022, pp. 350, € 23,00
Il 28 ottobre del 1922, la decisione di Vittorio Emanuele III di Savoia di revocare lo stato d’assedio – predisposto il giorno prima, seppur precipitosamente, dal fragile e dimissionario governo Facta – apre le porte di Roma alle colonne degli squadristi fascisti che, da Santa Marinella, Tivoli, Monterotondo e sotto il coordinamento del Comando del quadrumvirato posto a Perugia, stanno marciando in direzione della capitale, dove di seguito entreranno indisturbate. È la “marcia su Roma”, che consegna il governo e il paese nelle mani di Benito Mussolini e che fa del “28 ottobre” il giorno inaugurale dell’Era Fascista, ricordato, celebrato e magnificato dal regime per oltre vent’anni. In quei giorni di fine ottobre di esattamente cento anni fa, squadristi e fascisti si convincono di aver portato a termine un’impresa rivoluzionaria, la “rivoluzione delle camicie nere”; il nuovo capo del governo e duce del fascismo dà inizio all’abile opera di costruzione del “mito del 28 ottobre”, al fine di propagandare l’idea della sua infallibile capacità demiurgica di pianificare e realizzare la conquista rivoluzionaria del potere. Le sinistre, già sbaragliate e ridotte ai minimi termini dalla reazione squadrista del “biennio nero” – che va dall’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche (fine estate 1920) al fallimento dello “sciopero legalitario” (agosto 1922) – a cui si aggiungono contrapposizioni settarie e divisioni interne, assistono attonite al trionfo mussoliniano, incapaci di coglierne ed interpretarne appieno le conseguenze, ossia l’irrevocabilità del cambiamento politico intervenuto. I liberali, già avvezzi a dialogare con fascisti e nazionalisti, come nel caso del giolittiano “blocco nazionale” del ’21, ancora si illudono di “normalizzare” il fascismo all’interno di un governo conservatore di coalizione, che inutilmente Giolitti e Salandra aspirano a guidare, finendo travolti dall’astuzia tattica e dalla spregiudicatezza politica di Mussolini. I popolari si allineano alle posizioni della Chiesa, che osserva con interesse la crescita dell’argine antisocialista eretto dal Pnf e ne apprezza l’abbandono delle posizioni anticlericali della prima ora. Quello che si forma il 30 ottobre 1922 e che aggiunge a fascisti e nazionalisti i liberali, i democratici e i popolari è un governo di coalizione nato da un colpo di stato, che poco più di due anni dopo, a partire dal 3 gennaio 1925, Mussolini trasformerà in un regime a partito unico e in una dittatura totalitaria, che solo la catastrofe del secondo conflitto mondiale riuscirà ad abbattere. A monte di tutto questo si pone la “marcia su Roma”, atto inaugurale e mito fondativo del fascismo regime.
Di questi argomenti si occupa l’ultimo lavoro di Mimmo Franzinelli, L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma, recentemente pubblicato nella collana Le Scie di Mondadori. Nei primi tre dei sette capitoli in cui il libro si articola, Franzinelli tratteggia, in modo necessariamente sintetico, ma egualmente rigoroso ed efficace, il quadro storico-politico, economico e sociale complessivo entro il quale collocare le vicende delle cruciali giornate di fine ottobre 1922 e lo fa prestando attenzione soprattutto agli aspetti del fascismo che maggiormente incisero sulla decisione di tentare la presa del potere attraverso la marcia sulla capitale. È lo squadrismo antisocialista ed antiproletario la componente assolutamente essenziale e decisiva che dà identità e sostanza al fascismo delle origini, a tal punto da essere inteso non solo dai vari Farinacci, Ricci, Grandi, Balbo, ecc. – che comandano localmente le squadre d’azione e che dalla loro brutalità traggono forza e potere – ma anche da Mussolini stesso, come consustanziale al fascismo, sia quando esso si presenta ancora come movimento politico, sia quando, nell’autunno del ’21, assume la forma di partito, un “partito armato” che dalle squadre trae spinta propulsiva e con esse costituisce un tutt’uno inscindibile.
Ne consegue che tra i primi atti con cui l’ancora giovane movimento dei Fasci italiani di combattimento si mette in mostra sulla scena politica del paese vi sono gli assalti squadristi, come la devastazione della sede milanese dell’Avanti! (15 aprile 1919) e la distruzione del Narodni Dom a Trieste (13 luglio 1920), dove il “fascismo di confine” manifesta fin da subito i suoi tratti peggiori e più violenti. Per oltre un anno dalla sua nascita nel marzo del 1919, il fascismo fatica a superare i limiti del piccolo movimento sciovinista di ex combattenti, accanitamente e violentemente ostile verso i socialisti “traditori”, tutto concentrato sulle rivendicazioni nazionalistiche della “vittoria mutilata” e gravitante attorno al dannunzianesimo fiumano. Sono il sostanziale fallimento operaio dell’occupazione delle fabbriche, a seguito della accettazione di Psi e sindacato del compromesso giolittiano e la ricerca da parte della borghesia conservatrice italiana di nuove forze politiche, che diano maggiori garanzie del vecchio ceto dirigente liberale nella lotta contro i “sovversivi rossi”, ad aprire a Mussolini e ai suoi uomini inaspettate opportunità di rapida crescita. Il trampolino di lancio è lo squadrismo, che attraverso il “fascismo agrario”, a partire dalla Pianura Padana, dilaga in tutto il Nord e poi nel Centro della penisola, precipitando il paese in una guerra civile che conoscerà il suo culmine nella marcia su Roma.
Franzinelli ripercorre i momenti e i passaggi cruciali dei due anni che vanno dai cosiddetti “fatti di Palazzo Accursio” a Bologna (novembre 1920), dalla storiografia spesso individuati come momento d’avvio dell’offensiva squadrista antisocialista, fino alla violentissima repressione dello “sciopero legalitario” (agosto 1922), proclamato dalle sinistre e conclusosi con un fallimento che lo stesso Turati definisce come la Caporetto del socialismo italiano. All’interno di questi due estremi si collocano il salto di livello politico compiuto dal fascismo con l’ingresso alla Camera di 37 deputati nelle elezioni del maggio 1921; lo scontro interno al fascismo tra Mussolini, sottoscrittore del “patto di pacificazione” promosso dal governo Bonomi con i socialisti e il sindacato, e le squadre d’azione, non disposte ad interrompere le violenze e gli assalti contro i “rossi”; il superamento della diatriba con la trasformazione del Movimento in Partito nazionale fascista e l’ulteriore rafforzamento della struttura “militare” del fascismo, capace di prendere d’assalto intere città, anche le tradizionali roccaforti del socialismo italiano. A consentire una così rapida escalation politica sono innanzi tutto i finanziamenti e gli appoggi degli agrari prima e della borghesia imprenditoriale e Confindustria poi, le simpatie via via sempre più scoperte di molti ufficiali dell’esercito regio, il coinvolgimento di carabinieri e polizia, l’indulgenza della magistratura e di numerosi prefetti, l’interesse crescente per le “camicie nere” e il loro capo di alcuni ambienti di corte e della Chiesa. Il passo successivo sarà la preparazione della conquista illegale del potere.
Allo studio attento della pianificazione e dell’esecuzione della marcia su Roma sono dedicati il capitolo quarto e soprattutto il quinto, che contiene anche una puntuale ricostruzione dei fatti (marce sulle prefetture, irruzioni nelle questure e occupazioni di edifici pubblici, scontri e assalti, ecc.) nelle diverse regioni e nelle principali province del paese. Delle precise analisi di Franzinelli, alcune in particolare meritano di essere qui riportate. La scelta di Napoli come sede del convegno nazionale del Pnf del 24 ottobre, da cui dare il via alla grande mobilitazione delle camicie nere in ogni parte d’Italia, si spiega con la volontà di Mussolini di conferire al fascismo, che si avvia alla conquista della guida del paese, un carattere nazionale e quindi anche meridionale, che nei fatti il suo partito ancora non possiede. Se, infatti, a seguito della conquista del potere e soprattutto delle elezioni della primavera del 1924, il Pnf raccoglierà massicci consensi al Sud, conseguenza dell’adesione al fascismo della classe dirigente e del notabilato meridionali, ancora due anni prima il partito di Mussolini ha un’identità prevalentemente centro-settentrionale. «Dei 37 deputati fascisti eletti alla Camera nel maggio del 1921, solamente 3 lo furono in collegi del Sud (Acerbo e Sardi in Abruzzo, Caradonna in Puglia)» (p. 117). Pertanto Mussolini per il 24 ottobre «preannuncia un’importante adunata a Napoli, con un suo risolutivo intervento: “Dopo il mio discorso, tutti i leaders del Fascismo si lanceranno in giro di propaganda per le città e i paesi dell’Italia meridionale e delle Isole”» (p. 117). Insomma, «la mobilitazione del 24 ottobre a Napoli vuole stringere la morsa concentrica su Roma e – contemporaneamente – riscattare l’immagine di un fascismo sguarnito al Sud e nelle Isole» (p. 120) e funge – osserva Franzinelli – da ballon d’essai, poiché «misura la temperatura del fascismo e accerta che l’agonizzante Stato liberale non reggerà al colpo di forza preannunciato dal podio del Teatro San Carlo» (p. 124).
Come è noto, il comando militare della marcia su Roma viene da Mussolini conferito ad un quadrumvirato, costituito da Italo Balbo, Michele Bianchi, Cesare Maria Devecchi, Emilio De Bono. Osserva Franzinelli: «La memoria ufficiale appiattirà i quadrumviri sulla medesima lunghezza d’onda, celebrando la (inesistente) sintonia dei comandanti militari fascisti, sinergicamente protesi alla guida delle legioni verso la capitale. Nulla di più falso: Balbo fornì all’offensiva su Roma il proprio apporto di capo squadrista, Bianchi giocò con decisione la carta politica per rompere gli indugi, mentre i due elementi di maggior pratica militare – De Bono e Devecchi – fecero il possibile per scongiurare quella che ritenevano un’arrischiata opzione di forza. Inoltre, De Bono e Devecchi, a differenza dei “rivoluzionari” Balbo e Bianchi, sono dei conservatori ligi alla monarchia» (pp. 137-138). Insomma, una cosa è la realtà degli eventi dell’ottobre 1922, che si sviluppano e si susseguono con un forte margine di indecisione e di incertezza e altra cosa è la rappresentazione a fini propagandistici e celebrativi che ne avrebbe fatto il regime negli anni successivi.
Le divisioni interne al quadrumvirato rispecchiano la doppiezza del comportamento di Mussolini, che, rimasto a Milano per dirigere politicamente la marcia, continua a lavorare su più tavoli, facendo ricorso alla sua capacità di sintesi tra spregiudicatezza e pragmatismo, tra azzardo e realismo. Da un lato, agita lo spauracchio della rivoluzione armata – ora da scatenare contro lo stato liberale dopo aver sbaragliato l’opposizione socialista – e dall’altro intensifica i contatti coi leader liberali, Giolitti e Salandra su tutti, irretendoli con le proposte per un futuro governo, che i liberali maldestramente si illudono ancora di poter controllare o addirittura guidare.
Anche la scelta di Perugia come sede del comando del quadrumvirato, osserva Franzinelli, per ragioni logistiche e per difficoltà di comunicazione, risulta infelice e poco funzionale al buon esito dell’operazione, che non è affatto scontato, dal momento che rimane ancora da svelare l’incognita del comportamento del governo Facta – ormai privo di credibilità anche per le stesse forze politiche che lo compongono – e soprattutto del sovrano e quindi dell’esercito, contro il quale, al netto delle smargiassate degli squadristi e degli slogan roboanti di Mussolini, le colonne delle camicie nere non avrebbero potuto opporre alcuna valida resistenza.
Ciò che succede tra il 24 ottobre, quando a Napoli si decide che alla mezzanotte del 26 avrà inizio l’insurrezione e il 30 ottobre, quando a Roma Mussolini riceverà dal sovrano l’incarico di formare un nuovo governo, è un susseguirsi di eventi frenetici e confusi, che mettono a nudo lo stato di crisi definitiva ed irreversibile delle istituzioni liberal-parlamentari. Il titolare del Viminale, il ministro Taddei, è decisamente più convinto del presidente Facta della necessità di fermare e disperdere militarmente le squadre fasciste e si prepara a predisporre quanto necessario, informandone i prefetti, ma nel pomeriggio del 26 «in una riunione informale con alcuni ministri Facta si presenta dimissionario»; il governo rimane in carica ma «da un momento all’altro potrebbe presentarsi al re e chiudere l’esperienza di governo. Vi è, evidentemente, una contraddizione clamorosa sul fatto che un ministero morituro possa dichiarare e gestire un provvedimento eccezionale quale lo stato d’assedio» (p. 146).
Il ministro Taddei procede nella predisposizione delle misure necessarie per bloccare l’insurrezione fascista e si affida al generale Emanuele Pugliese, comandante della divisione militare di Roma. Questi è un pluridecorato alto ufficiale piemontese, fedelissimo alla corona e deciso ad usare tutti i mezzi necessari per fermare i fascisti e pertanto predispone «allestimenti difensivi di sicura efficacia: blocchi delle arterie ferroviarie nei punti chiave e due linee militari […]. Ostacoli poderosi per un avversario impreparato sul terreno militare e inadatto psicologicamente a battersi contro il Regio esercito, rinnegando con ciò stesso i presupposti patriottici del Pnf» (p. 146). Il re, che si trova nella tenuta di San Rossore in Toscana per una battuta di caccia, viene invitato dal governo a rientrare a Roma e nel corso del giorno 27, dal pomeriggio e durante la notte, «provengono al Viminale messaggi allarmati e allarmanti, il cui senso è raggelante: le articolazioni periferiche dello Stato, sotto attacco, non possono (o non vogliono) difendersi» (p. 158). È un crescendo di occupazioni di edifici pubblici (questure e prefetture) o di stazioni e uffici postali, di rastrellamento di armi, di aggressioni e di assalti, di partenze di squadristi, in camion o in treno, verso Roma. «Dalla notte del 27 ottobre i fascisti, insomma, dilagano in decine e decine di capoluoghi di provincia senza incontrare significative resistenze […] venendo anzi agevolati – per pavidità o complicità – da molti prefetti, comandi militari e carabinieri» (pp. 160-161).
Vittorio Emanuele III inizialmente sembra deciso alla firma dello stato d’assedio e pertanto «data per scontata l’approvazione del re, tra le 6 e le 7 del 28 ottobre viene ordinato alle autorità militari (generale Pugliese in primis) e ai prefetti la repressione dell’insurrezione e l’arresto dei suoi capi. L’entrata in vigore del provvedimento è fissata per mezzogiorno e già alle 9 vengono affissi nelle strade della capitale i manifesti murali» (p. 204). È a quel punto che il re decide di non firmare il provvedimento e a «mezzogiorno giunge la revoca dello stato d’assedio e degli ordini di arresto dei capi fascisti. Il fascismo dunque ha vinto» (p. 204). Dal dopoguerra in poi la storiografia italiana si è ripetutamente interrogata su questo improvviso voltafaccia del re, individuando un intreccio di ragioni a cui ricondurre la funesta decisione di Casa Savoia.
Il sovrano è al corrente degli orientamenti filofascisti sia dei vertici dell’esercito, che teme possano non seguirlo in un eventuale scontro frontale col fascismo, sia di Confindustria, di parte degli ambienti di corte e di apparati ed istituzioni dello Stato. I poteri forti del paese sono prevalentemente schierati con il nuovo uomo forte della politica che ha sbaragliato l’opposizione e condotto all’agonia il liberalismo italiano. «Senza considerare che tra i fascisti vi è una componente monarchica» (p. 151) e che le velleità repubblicane del fascismo sono ormai un lontano passato. «Per il re, contrastare Mussolini comporterebbe grossi rischi. A suo modo, il sovrano ammira e teme l’uomo nuovo della politica italiana» (p. 151).
Forte di una fin troppo facile vittoria, Mussolini può rifiutare ogni ipotesi di ingresso in un governo non guidato da se stesso e ancora una volta il re si piega al suo volere e glielo comunica tramite telegramma il 29 ottobre. Alla sera dello stesso giorno, Mussolini sale sul treno che da Milano lo conduce a Roma, dove giunge alla mattina del 30 ottobre. Nel frattempo, le colonne fasciste hanno cominciato a muovere verso la capitale, essendo stati ripristinati i collegamenti ferroviari e senza incontrare alcuna opposizione. Il 30 ottobre, Mussolini è ricevuto dal sovrano e alla sera presenta la lista dei ministri del suo governo, dopo aver concordato col sovrano stesso e con le autorità cittadine che alle squadre fasciste si dovrà permettere di attraversare la città e di sfilare nelle sue strade e piazze, come ultima e definitiva sanzione del trionfo fascista.
Osserva Franzinelli come si possa sostenere che «la marcia su Roma non precedette, bensì seguì la nomina di Mussolini a capo del governo. Il duce, insomma, anticipò (in vagone-letto) le colonne che, alla resa dello Stato liberale, si rimisero in marcia, o meglio salirono sui treni, per sfilare nella capitale, omaggiando il re e il duce» (p. 211). A questo si aggiunga che ciò che va sotto il nome di marcia su Roma, in realtà, si verifica prevalentemente in periferia e non nella capitale, cioè nelle città italiane in cui vengono presi d’assalto gli edifici pubblici, sotto lo sguardo benevolo e spesso compiaciuto delle autorità locali e che a Roma ciò che viene messo in scena ex post è una coreografica sfilata, una parata di milizie di partito. Insomma, quella che il regime avrebbe per vent’anni rappresentato come una sollevazione rivoluzionaria di massa si era realizzata secondo le modalità di un colpo di stato, oltretutto reso possibile dall’aperto e decisivo appoggio di apparati e istituzioni dello Stato, dai livelli inferiori fino al suo vertice ultimo, ossia la monarchia. Questo però nulla sottrae all’importanza della marcia su Roma all’interno delle vicende che conducono il fascismo al potere: essa serve come spauracchio che tiene sotto scacco il re, il governo, le forze politiche liberali, per altro ormai tutti convinti della inevitabilità (e anche dell’opportunità) di quanto sta accadendo. «Il capolavoro di Mussolini non sta certo nell’impossibile attuazione di piani militari (elaborati, come si è visto, da Balbo), mal coordinati e inapplicabili in caso di reazione dell’esercito. Consiste piuttosto nell’avvalersi di tale minaccia per alzare continuamente la posta delle negoziazioni politiche. Il cuore della questione, sfuggito ai suoi interlocutori, è che il piano di azione militare e quello politico non erano separati, ma complementari» (p. 155).
Gli ultimi due capitoli del volume contengono le pagine e le analisi forse più interessanti, perché più originali, dell’intero corposo lavoro di Franzinelli; essi si focalizzano su aspetti della marcia su Roma meno studiati di altri dalla ricchissima letteratura storiografica sull’argomento. Il capitolo sesto (La proiezione internazionale della marcia su Roma) si occupa delle ripercussioni che la conquista del potere fascista produce all’estero, delle reazioni della stampa e delle autorità diplomatiche straniere, delle suggestioni esercitate dal “modello marcia su Roma” sui movimenti politici della destra europea di quegli anni che guardano al fascismo italiano. Il settimo capitolo (La marcia dopo la marcia: la costruzione del mito) affronta l’argomento dell’autorappresentazione fascista della marcia su Roma, che, in un crescendo di esaltazione propagandistica, la trasforma in un vero e proprio “mito fondativo”, tralasciando e spesso stravolgendo la realtà dei fatti accaduti.
La stampa estera di orientamento moderato e conservatore – osserva Franzinelli – guarda alla marcia su Roma in modo prevalentemente benevolo e, dimostrando una scarsa conoscenza della situazione politica e sociale italiana di quegli anni, parla di Bloodless Revolution (New York Times). Oppure, il rovesciamento del governo e le vicende di fine ottobre 1922 vengono messi in relazione con i presunti e stereotipati tratti del popolo italiano, vale a dire l’indisciplina e l’imprevedibilità, che spiegherebbero – ancora una volta rivelando una sostanziale ignoranza riguardo alla situazione italiana del dopoguerra – sia il carattere improvviso della conquista del potere, sia quello dispotico del fascismo, giudicato come necessario per ricondurre alla disciplina un paese scarsamente abituato alla democrazia. Del fascismo si mette in risalto (e spesso si avalla) soprattutto l’antisocialismo, ma si sottovalutano l’antiliberalismo e l’antiparlamentarismo. «L’ala più militante del giornalismo straniero, legata alle sinistre, avversa il fascismo, sia per valutazioni ideologiche sia per il ricorso alla violenza. La grande stampa d’opinione, invece, simpatizza con le camicie nere, incuriosita dalle novità che stanno maturando» (p. 225).
Mussolini all’indomani della conquista del potere, preoccupato delle reazioni internazionali, chiede al personale diplomatico di sondare quale sia l’atteggiamento verso il nuovo governo italiano e ne esce un quadro per forza di cose disomogeneo e differenziato, a seconda delle diverse situazioni politiche interne ai vari paesi e degli orientamenti politici dei governi. «Come dato generale, ovunque le destre esultano, ma pure i moderati approvano, augurandosi addirittura – in talune realtà – il rafforzamento di movimenti affini a quello mussoliniano. A sinistra, le critiche sono di gran lunga prevalenti, ma forse meno drastiche di quanto ci si potrebbe attendere» (pp. 226-227). Qualche preoccupazione emerge in quei paesi che temono che lo sciovinismo fascista possa alimentare pericolose velleità revisioniste dei confini europei; in Svizzera, per esempio, cresce il timore per un potenziale irredentismo italiano nel Canton Ticino. Ad impensierirsi per il successo del fascismo in Italia sono inizialmente anche le due grandi sconfitte della guerra, Germania e Austria, che si preoccupano per la popolazione tedesca della provincia di Bolzano, dove, come a Trieste, il “fascismo di confine” mostra il proprio volto particolarmente violento e nella giovane Repubblica di Weimar le forze politiche democratiche temono che il successo di Mussolini possa incoraggiare e spronare i movimenti dell’ultra destra nazionalista, presenti e forti soprattutto in Baviera, dove opera anche la NSDAP di Hitler.
È cosa nota che Hitler abbia nutrito una sincera ammirazione per Mussolini e che non abbia mai fatto mistero di essersi ispirato, nei dieci anni che intercorrono tra l’ascesa al potere dei due dittatori, all’esempio mussoliniano, cogliendo nella marcia su Roma il miglior modello possibile di conquista del potere, che associa la pratica sistematica della violenza brutale contro gli avversari alle iniziative politico-parlamentari e alla ricerca dell’appoggio dei poteri forti del paese. Anche il tentato Putsch di Monaco del novembre 1923 appare ispirato alla marcia fascista di un anno prima. Rivelatrice tanto dell’ammirazione quanto della subalternità, in quegli anni, verso il “maestro” da parte di Hitler – definito, ricorda Franzinelli, dal Times come «allievo bavarese molto promettente di Mussolini» (p. 235) – è la decisione del capo del nazismo di non avanzare alcuna rivendicazione nei confronti dell’Alto Adige, nonostante pangermanesimo e revisionismo siano parti essenziali fin da subito dell’ideologia e del programma del suo partito.
Conclude Franzinelli: «L’insegnamento più efficace mutuato dai nazisti dal caso italiano sta nell’esercizio metodico della violenza politica da parte del braccio armato del partito. Metodologia ed efficacia dei reparti d’assalto hitleriani sarebbero inconcepibili senza il precedente delle squadre d’azione mussoliniane, componente basilare della marcia su Roma» (p. 243).
Appena terminata la conquista del potere attraverso la marcia su Roma, prende il via l’elaborazione della sua rappresentazione propagandistica, la costruzione del mito, per farne la pietra angolare su cui si reggerà il regime. I fatti di fine ottobre 1922 e i loro protagonisti perdono i tratti propri della realtà contingente e assumono quelli plastici e marmorei, assoluti, del monumento celebrativo; tutto deve essere ricondotto alla ferrea, infallibile e preveggente volontà del duce, che piega a sé non solo avversari ed oppositori, ma la Storia stessa e i suoi destini. Il 28 ottobre diventa festa nazionale da celebrarsi ogni anno e il giorno primo dell’anno primo dell’Era Fascista. «Stuoli di propagandisti ripetono e amplificano la versione mussoliniana, che trasforma la marcia su Roma in evento mondiale, senza precedenti nella storia contemporanea» (p. 261) e numerosi sono gli artisti e gli intellettuali (Balla, Sironi, Sarfatti, ecc.) che si prodigano nell’opera di edificazione del mito della marcia su Roma. «Vi è poi, non secondario quanto ad importanza e impatto, il risvolto confessionale della marcia. Ogni 28 ottobre il clero collabora volenterosamente alle celebrazioni ufficiali, con messe solenni o riti al campo, questi ultimi officiati da cappellani militari» (p. 265).
Franzinelli considera in particolare due celebrazioni: il primo annuale della marcia (28 ottobre 1923) e il decennale (28 ottobre 1932). Nel ’23 – osserva l’autore – l’Italia è ancora guidata da un governo di coalizione, il regime a partito unico si instaurerà nel 1925, ma ugualmente «la ricorrenza dell’insurrezione diviene evento di Stato, organizzato dalla Presidenza del Consiglio» (p. 267), a cui si affianca un Comitato nazionale per le celebrazioni, dipendente dal Gran Consiglio del fascismo. La Zecca di Stato conia monete commemorative e in ogni luogo del paese, dalle città ai villaggi e borghi più remoti, si organizzano e si svolgono iniziative celebrative. Il messaggio ideologico che il fascismo intende trasmettere è duplice: quello della “rivoluzione permanente”, ossia la marcia su Roma è qualcosa di vivo e attivo, che può e deve, alla bisogna, essere rinnovato, ripreso e ripetuto contro nuovi eventuali nemici e quello del collegamento senza soluzione di continuità con la trincea della Grande Guerra. Alla vittoria contro il nemico esterno, l’impero austro-ungarico, ha fatto necessariamente seguito il trionfo contro i nemici interni, il sovversivismo rosso e il liberalismo decrepito.
Nel 1932, l’anno del decennale, la situazione interna al paese è molto diversa: il fascismo è regime e dittatura ormai da tempo; il consenso è ai massimi livelli ed è reso inattaccabile anche dalla firma del Concordato con la Chiesa di due anni prima; il culto del duce, capo carismatico della nazione, non conosce argini, al punto che la «realtà storica è sostituita da iperboli, tautologie, inni mistici» (p. 273). Lo sforzo della macchina propagandistica diviene quello di iscrivere la marcia su Roma nel destino di un processo storico teleologico da farsi risalire all’antica Roma e di cui il fascismo è il fine ultimo. «Il Fascismo è nella Storia, riempie di sé la Storia e forgia la Storia» (p. 275), si legge sul Popolo d’Italia il 30 ottobre 1932. Per conseguire i propri obiettivi «la mattina del 29 ottobre il duce inaugura al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale la Mostra della Rivoluzione Fascista, il principale evento culturale della dittatura, organizzato congiuntamente da partito e Stato, con sforzi finanziari adeguati alle ambizioni» (p. 274). L’esaltazione della marcia su Roma, ora interamente ed esclusivamente ricondotta al genio e alla volontà invincibile del capo, che creano la storia e plasmano il destino del popolo italiano, raggiunge il suo apogeo.
Undici anni dopo, il 28 ottobre 1943, il trionfalismo celebrativo del 1932 è solo un pallido ricordo. Nel frattempo il 25 luglio e l’8 settembre hanno radicalmente mutato tutto: in un paese spezzato in due dalla linea del fronte, il fascismo, rinato dalle proprie ceneri in forma repubblicana e ormai avviato verso l’inevitabile catastrofe, sembra non provare più il desiderio di celebrare il giorno e gli eventi della propria ormai lontana ascesa al potere. «Mentre le più irriducibili camicie nere reinterpretano in accezione rivoluzionaria il remoto evento, Mussolini, il 28 ottobre, lo ignora» (p. 302). È il duce stesso, che al termine della propria parabola politica rivede radicalmente e significativamente il giudizio sulla marcia su Roma, per certi versi smentendo un ventennio di propaganda. Scrive Franzinelli: «Negli articoli propagandistici pubblicati nel giugno-luglio 1944 sul “Corriere della Sera”, Mussolini ridefinisce il giudizio sulla marcia modificandolo in profondità rispetto alle versioni trionfalistiche degli anni dell’onnipotenza: “Che cosa fu la marcia su Roma? […] Fu una insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No. Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell’ottobre del 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo» (p. 304).
Mussolini, dunque, nel 1944 sembra quasi rammaricarsi di non aver realizzato fino in fondo la propria “rivoluzione”, di averla lasciata incompiuta, non sovvertendo la monarchia, evidentemente dimenticando però che senza l’acquiescenza e la collaborazione del re, i fatti del 28 ottobre del 1922 si sarebbero conclusi in modo sicuramente diverso.
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