di Sandro Moiso
Sia detto francamente, il primo a non volere coccodrilli o eccessi di commemorazioni che lo riguardassero molto probabilmente sarebbe stato proprio Valerio che, inoltre, avrebbe sorriso sornionamente di fronte a qualsiasi tentativo di utilizzare in maniera impropria o indirettamente autocelebrativa il suo nome. Da questa ferma convinzione derivano le considerazioni che seguono.
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Aron Gurevič, considerato tra gli innovatori della scienza storica sovietica come storico dell’età medievale, in uno splendido testo dedicato ai problemi della cultura popolare nel Medioevo, ci ha spiegato come fosse difficile la vita per coloro che, nell’alto medioevo ma anche successivamente, vivessero in eremitaggio o predicando nelle campagne, soprattutto quando fossero in odor di santità presso il popolo che intendevano convertire o cui volevano proporsi come esempio di sottomissione alla divina volontà.
Non era infatti cosa rara che i buoni credenti, i fedeli contadini oppure i devoti montanari non attendessero la loro morte per assicurarsene le preziose reliquie.
Motivo per cui i poveracci, i cui atti ispirassero al popolino qualche elemento di santità, dovevano spesso preoccuparsi più degli eccessi di fede dei loro seguaci che delle tentazioni demoniache della carne e del peccato.
Il gregge dei fedeli e il santo formano un’unica comunità, entro i cui confini circolano i beni, le preghiere, i miracoli, i doni. Questa comunità è considerata indissolubile, e né gli ammiratori del santo né il santo stesso hanno il diritto di interrompere il rapporto unilateralmente.
[…] Per assicurarsi per sempre i «servigi» di un santo, si acquistavano le sue reliquie e nell’Europa medievale si svolgeva un animato commercio di questa «merce molto richiesta». Come i resti dei santi, era oggetto di culto anche ciò che con loro aveva avuto un legame o un contatto: i sudari, la polvere del sepolcro del santo ecc. Accanto al commercio delle reliquie era largamente diffuso anche il loro saccheggio; dopo che i crociati ebbero preso e saccheggiato Costantinopoli nel 1204, in Europa si riversò un fiume di reliquie. Si credeva che il furto di reliquie potesse riuscire soltanto con il consenso del santo stesso.
Sono noti casi estremi in cui i credenti non si fermavano neanche di fronte all’assassinio del santo pur di impadronirsi così dei suoi resti taumaturgici. Pietro Damiano racconta che i montanari dell’Umbria, venuti a sapere che san Romualdo intendeva abbandonarli per trasferirsi in un’altra località, «si allarmarono moltissimo e, dopo aver discusso tra loro sul modo di opporsi a questa sua intenzione», non trovarono migliore via d’uscita che mandargli segretamente un sicario: «se non potevano conservarlo vivo, allora avrebbero ricevuto il suo corpo esanime come protettore della loro terra […] I fedeli consideravano il santo una loro proprietà. Si vantavano dei suoi atti miracolosi, li paragonavano alle imprese dei santi «altrui», e il «proprio» santo sembrava più potente1.
Qualcosa del genere è transitato da quella mentalità e da quell’epoca, indagata da Gurevič, alla modernità, vera o presunta, in cui siamo immersi. Non tanto sul piano delle religione, cui bastano immagini stampate sui cosiddetti “santini” oppure le statuette in plastica fluorescente o, talvolta, troppo realistiche, come quelle orrende di Padre Pio con le mani fasciate per le stimmate auto-inflitte. Quel senso della comunità, cui nemmeno il “santo” può sfuggire, è passato tra le schiere dei fans, oggi “followers”, di personalità di ogni genere di attività: dallo spettacolo allo sport, dalla politica alla musica, dalla letteratura ai più banali e diffusi “influencers” (di ogni ordine e genere).
Spesso però, anche in questi casi moderni, non sono bastati gli autografi, l’oggettistica venduta on-line, le magliette umide e sudaticce lanciate agli ammiratori alla fine di un concerto o di una partita di calcio. O altre reliquie, più o meno rare, puzzolenti o “eleganti” da mostrare agli amici per renderli invidiosi della propria “fede” premiata. No.
Come nel caso di John Lennon che, quando era ancora quarantenne, Mark David Chapman si prese la briga di assassinare, durante la passeggiata mattutina, per non permettergli di sfuggire al mito e alla “santità” cui era destinato. Non è forse diventata Imagine una delle “preghiere” più ascoltate e diffuse a livello mediatico? Buona per ogni occasione, anche se c’è da chiedersi se si sarebbe sviluppato lo stesso culto per l’ex-Beatles e la sua canzone se non fosse morto nel dicembre del 1980 e oggi andasse ancora a spasso nel Central Park di New York, magari su una sedia rotelle come la sua vedova, oggi ultraottantenne, Yoko Ono.
Ma anche senza arrivare all’omicidio, ci sono altre forme per ottenere una specie di esclusiva o di viatico di veri credenti di un culto sorto dalla scomparsa di un letterato, di un musicista, di un altro qualunque genere di artista o di altre personalità ancora, portate alla ribalta e alla prevedibile santificazione, più che dai meriti effettivamente acquisiti, dai miracoli messi in opera dalla società dello spettacolo, dai media e dai social.
Culto delle reliquie (scritti, diari, brani musicali e altre opera inedite) che più che servire al “santo” di turno, servono, esattamente come nel caso della società e della mentalità medievale, ai suoi seguaci e cultori. Sostituendo alla forza dei “miracoli” quella del riconoscersi e, soprattutto, dell’esser riconosciuti come rappresentanti esclusivi delle sue “volontà” oppure come “esperti” o “specialisti” della sua opera. Aspetti che, soprattutto in ambito universitario oppure di mestierantismo mediatico e “politico” (nella più ampia accezione di quest’ultimo termine), hanno sempre una certa importanza nel promuovere la figura del cultore di turno da semplice seguace/ammiratore a quella di apostolo del verbo e chierico del rito.
I rapporti tra i santi e i fedeli rientravano nelle categorie, abituali per gli uomini di quel tempo, della fedeltà e dell’aiuto reciproci. In cambio delle protezione di un santo e delle guarigioni che egli donava, la popolazione era pronta a venerarlo e difenderlo.
[…] Il culto di un santo abbracciava sempre una determinata zona ed esistevano regioni in cui prevaleva l’influsso dei santi più venerati in loco. Nel corso del Medioevo aumentò la tendenza alla «specializzazione» dei santi: a ciascuno di loro si attribuiva una funzione particolare (la protezione di questo o quel mestiere, la capacità di guarire da questo o quel malanno). Sotto questo aspetto era però ammessa anche la «cumulazione». Santa Gertrude, ad esempio, pur essendo la guida dell’anima dei defunti subito dopo la morte, proteggeva anche dai topi2.
Una volta ottenuto lo status “di grazia”, attraverso il riconoscimento della vocazione a livello pubblico (ampio o ristretto dipende soltanto dalla celebrità del “santo”), il nuovo apostolo potrà sbizzarrirsi in celebrazioni, eventi, commemorazioni e convegni in cui potrà, insieme ad altri chierici del culto, aggiungere o togliere, oppure ancora soltanto esaltare, elementi della vita e delle opere del “santo” che nemmeno lo stesso avrebbe immaginato o voluto che diventassero così importanti per il ricordo del suo breve passaggio terreno e della sua opera (sempre e soltanto “in progress”, come avviene per la vita e le azioni di ognuno).
Da tutto ciò deriva un’ulteriore conseguenza: la canonizzazione del “santo” che, attraverso una prefigurazione data, finisce col racchiuderne la figura e l’opera in un ambito pre-definito dalla “chiesa” degli esperti e degli apostoli. Entrambi i gruppi ormai più interessati a definire il proprio ruolo e le proprie regole interpretative piuttosto che a lasciar libera l’interpretazione del loro oggetto di culto e del loro studio. Percorso interpretativo in cui il soggetto reale è, per l’appunto, ridotto a oggetto. Come è avvenuta per la selezione dei quattro Vangeli ufficiali, selezionati nella marea di quelli ritenuti apocrifi.
Se inizialmente, infatti, la raccolta delle opere del santo e la narrazione della sua vita daranno vita ad un sistema di agiografie, successivamente sarà necessario selezionare tra queste quelle più adatte a stabilire un canone riconosciuto (e definitivo). Nelle agiografie, infatti:
La struttura delle vite, la scelta dei fatti narrati e il loro stesso carattere, il volume delle informazioni che sono in grado di contenere, sono soggetti alle leggi della coscienza collettiva. Nonostante che l’autore di una vita sia invariabilmente un ecclesiastico, il carattere della sua opera mostra con evidenza i tratti della creazione popolare. Le opere di carattere agiografico incarnano, come conclude uno dei suoi più autorevoli studiosi, «la memoria della folla»3.
Ma, in fin dei conti, ad approfittarsi del morto, non sarà la folla, ma i chierici e gli apostoli (senza dimenticare i neofiti per convenienza e gli editori di circostanza) che, proprio per questo, dovranno scindere ciò che dovrà esser ricordato e sistematizzato da ciò che non serve alla causa della “chiesa del santo” o, almeno, a quella dei patrocinatori e destinata a costituirne il canone ufficiale (religioso, letterario o politico che sia).
Un’operazione in cui azioni e pensiero dell'”oggetto” del culto finiranno con l’essere imbalsamati e conservati in un’ipotetica eppur reale teca di vetro attraverso le cui pareti, falsamente trasparenti, gli ammiratori potranno “mirarne”, senza comprenderle, le fattezze e gli intenti realmente perseguiti in vita dallo stesso.
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All’aprirsi di una stagione che si annuncia carica di rimembranze (come ben si addice all’autunno), celebrazioni e canonizzazioni, cerchiamo dunque di evitare per Eymerich un tale destino, salvando il soldato Valerio da una simile ed immeritata sorte. Liberandolo dai “territori” geografici, politici e letterari in cui molti vorrebbero già fin da ora confinarlo. Magari in compagnia di autori ed “estimatori” di cui Valerio non avrebbe apprezzato del tutto la vicinanza4.
Aron Ja. Gurevič, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Einaudi, Torino 1986, pp.64-65 ↩
A. Gurevič, op. cit., pp. 66-67 ↩
ibid, p. 77 ↩
Come è invece successo nella recensione di Vanni Santoni, pubblicata su La Lettura del 24 luglio 2022, all’antologia di saggi di Valerio Evangelisti, curata da Alberto Sebastiani, Le strade di Alphaville. Conflitti, immaginario e stili nella paraletteratura edito da Odoya ↩