di Fabio Ciabatti
In Mater Terribilis, in uno dei più classici futuri alla Evangelisti in cui la razionalità di Eymerich dispiega le sue distopiche conseguenze, esiste il Vortex, una stazione satellitare in grado di immagazzinare i sogni e gli incubi di tutta l’umanità e di ritrasmetterli modificati e amplificati alle menti delle persone. Due funzionari di questa stazione dialogano tra di loro:
La gente “Non riesce più a distinguere tra incubo e realtà. Quanto ai sogni, non sa più nemmeno cosa siano.
“Be’, era proprio questa la finalità del sistema. Spegnere i sogni. I sogni non sono governabili, gli incubi sì. Sovversione e terrorismo nascono dai primi, anche se magari si convertono nei secondi”.
Questo discorso è fatto dal punto di vista del potere e per questo dove sta scritto sovversione e terrorismo possiamo leggere rivoluzione e ribellione. Ciò detto questo brano fa pensare all’Unione Sovietica. Il più grande sogno trasformato in un tremendo incubo. Al di là di questa suggestione, tornando ai romanzi di Eymerich, la gran parte delle eresie che ci presenta Evangelisti rimangono in bilico tra queste due dimensioni: di sogno e di incubo.
Insomma l’immaginario non è soltanto lo scrigno immateriale che custodisce i tesori più preziosi dell’animo umano rimossi dalla razionalità dominante. L’immaginario è strutturalmente ambiguo. Se superiamo le colonne d’Ercole che delimitano la logica del nostro mondo non troviamo automaticamente sogni e pulsioni di libertà. Certamente ci imbattiamo in frammenti di possibili mondi alternativi, ma assemblati in una forma magmatica e per questo utilizzabili anche in modo regressivo da ciarlatani, mestatori e funesti imbonitori.
In Cherudek Eymerich si scontra con Rupescissa, un alchimista che, con il suo elisir, vuole assicurare a folle di infelici l’“accesso a una vita più ricca, in cui il corpo si fa lieve e i beni dello spirito sono condivisi”. Nel condannare la sua eresia, il cinismo dell’inquisitore ha almeno una freccia al suo arco che sembra provenire da una faretra rivoluzionaria:
“Curioso” commentò Eymerich, un sorrisetto cinico sulle labbra. “Ogni tanto compare qualcuno che promette ai poveri il riscatto. Purché si impegnino a rimanere poveri nella vita ordinaria e cercare soddisfazione nel mondo dei sogni”.
Questa affermazione dal sapore marxiano, decisamente sorprendente in considerazione di chi la sta pronunciando, sembra segnalarci che il disincanto illuministico rimane necessario per separare il grano dal loglio. Dunque, il riemergere di antiche sapienze e di divinità del passato, l’immaginario rimosso dal potere, non basta. Se i desideri e le pulsioni di liberazione che risorgono da tempi remoti non si trasfigurano in qualcosa di diverso, all’altezza di nuovi tempi e del futuro che a partire da essi può essere immaginato, alla fine si trasformano in mostri. I sogni possono diventare incubi. Ciò accade, per esempio, quando il desiderio di comunità, che risorge dalle ceneri dell’individualismo moderno, si trasforma in etnocentrismo totalitario e razzista. Di segno opposto è quanto accaduto nel 1871, quando la memoria dell’autogoverno delle municipalità medioevali si è trasfigurata nella democrazia della Come di Parigi. Una simile dinamica si è verificata quando il vivo ricordo dell’autogestione della obscina russa ha trovato nuova linfa nel potere dei Soviet durante la prima fase della rivoluzione del 1917.
Non so se fosse nelle intenzioni di Evangelisti, ma sembra ci stia dicendo, a modo suo, che la rivoluzione non sarà un pranzo di gala, quantomeno per il fatto che ci costringerà a mollare gli ormeggi delle nostre più consolidate convinzioni e a navigare nel mare aperto dell’incertezza. Ma non abbiamo alternative. Pena la trasformazione dei più bei sogni in incubi tremendi.
L’immaginario, in altri termini, è un luogo conteso in cui “Salvezza e dannazione si manifestano insieme quando il mondo vacilla”.1 Non è facile definire questo concetto, anche se evidentemente Evangelisti attinge alla concezione dell’inconscio collettivo e degli archetipi sviluppata dallo psicanalista Carl Gustav Jung. Cosa evidente, per esempio, nella definizione che dà dell’inconscio collettivo il fantasma di Eymerich nell’omonimo romanzo: “Il luogo dei sogni, delle figure che tutti conoscono senza saperle descrivere, dei miti e delle forme universali. Frutto di un accumulo secolare”. L’immaginario è dunque ciò che può mettere in connessione gli esseri umani e che perciò rappresenta un potenziale antidoto al potere che tende invece a separarli. Ma è anche una regione del reale pericolosa in cui ci si può perdere. Nel primo libro del ciclo, Nicolas Eymerich, inquisitore, così viene descritto da Sweetlady, medium dell’astronave Malpertuis: “L’immaginario è un luogo senza tempo e senza spazio, come il delirio degli schizofrenici. C’è chi, come loro, vi resta impigliato per sempre e non riesce più a trovare la strada del suo corpo”.
Senza perderci noi stessi nelle complicatissime sfaccettature di questa dimensione esplorate dal ciclo di Eymerich, considerato che non è sempre facile distinguere tra la metafora narrativa e la realtà che essa vuole rappresentare, possiamo senz’altro dire che la concezione del tempo è fondamentale per capire cosa si intenda per immaginario.
“Per Einstein, il tempo era una freccia dal percorso irreversibile” ci viene raccontato in Eymerich risorge dallo scienziato Frullifer. Questo personaggio, più volte presente nel ciclo dell’inquisitore dopo la sua comparsa nel primo romanzo, con la sua fisica psitronica ribalta la concezione einsteiniana aiutandoci a interpretare sia i paradossi spazio-temporali dell’immaginario sia i connessi prodigi demoniaci che Eymerich si trova ad affrontare nelle sue avventure. Anche per l’inquisitore il tempo scorre inesorabilmente in una sola direzione, quella che scandisce l’inarrestabile e progressivo dominio della vera Chiesa sul mondo, l’unico regime che al caos può sostituire l’ordine.
Tutto ciò che ritorna dal passato, le antiche divinità, soprattutto femminili, che risorgono dai tempi antichi intralciano questo cammino voluto da Dio e per questo non possono che avere, per l’inquisitore, natura demoniaca, vale a dire irrazionale. E infatti, sostiene Eymerich, “quelle che finora abbiamo chiamato divinità sono in verità demoni, impegnati a predicare una liberazione immediata, lontana da quella spirituale voluta dalle Scritture” (Cherudek). Non a caso, secondo l’inquisitore, “la nozione del tempo è uno dei principali cardini del pensiero su cui gioca Satana nei suoi inganni. Sconvolge le menti e semina confusione”. (Rex Tremendae Majestatis) Una concezione, quella di Eymerich, che corrisponde alle sue attitudini personali. L’inquisitore, infatti, “detestava il fardello del passato: equivaleva a cercare oggetti perduti sul fondo di un lago melmoso”. Per questo “non conservava memoria dei morti. Li cancellava, semplicemente. E se i loro volti riaffioravano, li cancellava di nuovo”. (Il castello di Eymerich)
Occorre ancora una volta sottolineare che dietro l’apparente forma mentis medievale si nasconde la concezione, tutta moderna, del progresso. Ed è proprio questa concezione unilineare del tempo che viene meno nell’immaginario. Esso è infatti una dimensione senza tempo, caratterizzata dalla presenza simultanea di tutti i miti, le leggende, i sogni e le credenze della storia dell’umanità. Questa atemporalità può avere una lettura forte, se seguiamo un’interpretazione strettamente junghiana dell’immaginario collettivo quale contenitore inconscio di simboli e immagini arcaiche, eredità della storia primordiale dell’umanità, simultaneamente presenti nel patrimonio psicologico di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro esperienza personale.
Possiamo però darne una lettura più debole laddove ci limitiamo ad ammettere che in ogni società, simultaneamente al modo di produzione dominante, esistono anche embrioni di forme sociali residuali, arcaiche e future con il loro portato di forme di pensiero, consce e inconsce.2 Debole o forte che sia la lettura, rimane il fatto che, una volta abbandonata l’ingenua fiducia nelle ineluttabili leggi della storia che portano al sorgere del socialismo, abbiamo compreso che l’unica concezione lineare del tempo è quella del potere che vuole presentare se stesso come privo di alternative. Indipendentemente dalle fonti di ispirazione di Evangelisti, a partire dal suo universo narrativo è difficile non pensare all’interruzione di questo continuum storico nei termini del potere messianico debole di Walter Benjamin che connette il presente rivoluzionario con il passato e il futuro: da una parte, infatti, le generazioni presenti hanno la possibilità di redimere le sofferenze di quelle passate e, dall’altra, il sacrificio delle precedenti generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente.
In realtà, all’apice del ciclo di Eymerich, sarà egli stesso ad acquisire una concezione ben più complessa del tempo che, pur abbandonando le semplificazioni dell’ideologia “linearista”, non rinuncia a un finalismo sui generis in grado di ribadire il dominio universale della chiesa. Per raggiungere questo risultato Eymerich deve percorrere completamente, attraverso l’intero ciclo dei libri a lui dedicati, Il viaggio dell’eroe di cui ci parla il famoso manuale di sceneggiatura hollywoodiano di Christopher Vogler. Questo viaggio però ha un esito assai diverso da quello previsto dalla narrativa mainstream. La parabola convenzionale, come descritta dallo studioso di religioni Joseph Campbell, da cui Vogler riprende il concetto di viaggio universale dell’eroe, prevede un movimento in tre atti:
L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale (x); qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria (y); l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini (z).3
In questo percorso l’eroe, seguendo le orme della psicanalisi junghiana, è in grado di fare i conti con la sua ombra, con il suo lato oscuro. E in questo modo completa sé stesso compiendo il suo processo di “individuazione”.
Come già accennato, il viaggio di Eymerich, pur seguendo formalmente le tappe del percorso vogleriano/jungiano, si conclude in modo decisamente originale: completandosi con l’altro da sé, la sua ombra femminile, l’inquisitore si trasforma da cattivo in supercattivo. Diventa demiurgo universale capace di attraversare il tempo per imporre il suo ordine spietato. Invece di riportare dalla sua avventura l’elisir della felicità da donare agli esseri umani, si procura il veleno che sarà in grado di intossicare il presente e tutti i secoli futuri raccontati nei romanzi di Eymerich.
Prima di completare questo percorso, in Rex tremendae maiestatis, Eymerich ha un sogno premonitore.
Non sapeva quale epoca stesse osservando: aveva l’impressione di abbracciarle tutte quante. Il mosaico che contemplava pareva avere un unico movente: fare proprie ricchezze comuni e piegare chi ne era espropriato. Magari ucciderlo. Una legge che aveva dominato sulla Terra prima ancora che l’uomo assumesse la forma attuale.
Eymerich ne era confortato. Nella sua selvaggia maestà, quello poteva essere il suo regno. Osservava guerre interminabili. Alcune le conosceva perché erano ancora in atto. Altre, trascorse o future, erano combattute con armi immaginose e devastatrici …
Era tempo che, su uno dei tanti mondi, qualcuno fosse chiamato a prenderne in pugno la tremendam majestatem. L’idea spaventava Eymerich, ma al tempo stesso lo lusingava. Si sarebbe mostrato degno del compito. Avrebbe mostrato fini degni a battaglie insensate. La carica di Rex non lo spaventava.
Un potere tremendo, quello del Rex, che l’Eymerich onirico non vuole utilizzare per mettere fine alle “guerre interminabili” che piagano la storia dell’umanità, ma sfruttare per strumentalizzare queste stesse guerre per i suoi obiettivi, guidandole verso “fini degni”. Si tratta di instaurare, questa volta con superpoteri, con la capacità di attraversare il tempo, il dominio dell’impero universale della chiesa e di ribadire le verità eterne della teologia tomistico-aristotelica.
Queste verità, la razionalità delle leggi volute da Dio, secondo Eymerich non possono essere sovvertite da Satana che, però, può creare delle illusioni, degli inganni che gli esseri umani possono facilmente scambiare per realtà. Come meramente illusorio era, secondo l’ideologia dominante, il comunismo considerato alla stregua di una religione secolarizzata. Una sorta di eresia ingannatrice, ma capace di mobilitare le masse ingenue.
Tornando ai nostri romanzi, dare credito a queste illusioni, anche a fin di bene, evocando i demoni per utilizzarli a vantaggio della vera fede, è una imperdonabile deviazione dalla della retta via. È quello che fa il vecchio mentore dell’inquisitore, padre Dalmau ne Il castello di Eymerich, trasformandosi così in suo acerrimo nemico. L’anziano maestro sostiene che è lecito “Punire il male con lo stesso male” e cioè “saper usare gli strumenti del proprio nemico, anche a costo di divenire simile a lui”. Perché il fine giustifica i mezzi. Nonostante condivida il machiavellismo del suo maestro, Eymerich punirà padre Dalmau con una tremenda morte. Ma in Rex Tremendae Majestatis, l’inquisitore si comporterà in modo simile a quello del suo vecchio mentore seguendo il percorso alchemico-iniziatico indicato da un libro maledetto, il Discorso della saggia Maria sulla Pietra dei filosofi.
“Dove regna il demonio – sostiene Eymerich – la realtà è sovvertita, sono le leggi del diavolo ad avere valore. … Ci conformiamo a convenzioni bugiarde, inventate da maghi e giudei, solo per uscire dalla follia dell’inferno. Le stritoliamo nelle loro stesse norme assurde”
“Ma così ci consegniamo alla menzogna!”
“No è la menzogna che si consegna a noi”.
È questo il passo definitivo che trasforma l’inquisitore in demiurgo. Un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario. Eymerich è un mostro incompleto finché cerca soltanto di eliminare l’eresia che si oppone alla sua verità, diventa un supermostro quando riesce ad assorbirla.
Di fronte a un esito così inquietante la letteratura può mostrarci come alcune brecce nel muro del dominio rimangono aperte. Alle volte Evangelisti ce lo concede. Anche nel futuro in cui la spietata razionalità di Eymerich ha trionfato, il controllo totalitario sull’immaginario può mostrare delle incrinature. Succede quando Mosaico, il soldato Frankenstein progettato dai nazisti, alla fine si rivolta contro i suoi creatori perché per costruirlo sono stati utilizzati, deviando dai piani originari, membra di ebrei che mantengono una memoria del loro passato. Accade anche nel lontano futuro quando Vortex, poiché i suoi utilizzatori cercano di aggirare le regole che essi stessi si erano dati per evitare abusi da parte delle singole potenze in guerra, alla fine va in crash e inizia a trasmettere al posto degli incubi previsti dal sistema immagini di rivolte del passato. Anche nel più lontano futuro raggiunto dal ciclo dell’inquisitore, dopo l’anno 3000 quando i discepoli del demiurgo Eymerich diffondono il suo vangelo, ci sono “sentori di malumore, di rivolte aperte nel sistema di Tessalonica” (Il fantasma di Eymerich).
Cosa ancora più importante, secondo Evangelisti, la letteratura non ha il compito di mostrarci la via che ci conduce oltre le contraddizioni del presente, magari attraverso l’opera di qualche eroe salvifico.
Non possono essere gli scrittori, per quanto bravi siano, a indicare soluzioni. Deve essere la società civile, avvisata di ciò che accade da chi sa colpire il suo immaginario (narrativa, giornalismo, il multiforme universo dei media) a cercare di colorare sé stessa in tinte diverse dal nero. Salvo trasformarsi in ricettacolo di demoni che, prima o poi, reclameranno il loro sfogo.4
Si può sentire qui l’eco di una vecchia affermazione di Marx: “l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa”. L’eco della vecchia categoria dell’autoemancipazione del proletariato. È con il ricorso a questa categoria che forse possiamo spiegare “Il (più grande) mistero dell’inquisitore Eymerich”. In questo modo, cioè, possiamo forse capire perché Valerio Evangelisti, un incorreggibile compagno, un rivoluzionario impenitente, abbia fatto di uno spietato e terribile persecutore di “rivoluzionari” il più affascinante dei suoi personaggi. Le storie di Eymerich colpiscono magistralmente il nostro immaginario, prima blandendo i nostri sogni e poi precipitandoci in un terribile incubo, per avvertirci di cosa succede quando arriviamo al punto in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
(2 – fine – la precedente puntata qui)
S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 150. ↩
Cfr. Raymond Williams, Marxism and literature, Oxford University Press, Oxford-New York 1977. Sul concetto di non contemporaneità cfr. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015. ↩
J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino 2012, p. 41. ↩
V. Evangelisti, “L’estinzione del movente”, in Id. cit., p. 148. ↩