di Fabio Ciabatti
Combattere la colonizzazione dell’immaginario da parte del potere attraverso un originale utilizzo di generi narrativi considerati minori: avventura, fantastico, giallo, fantascienza ecc. Come si articola questa amalgama tra romanzo popolare e letteratura esplicitamente politica nell’opera di Valerio Evangelisti? L’autore bolognese sostiene che “Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa ‘di genere’ pane quotidiano”.1 Ma afferma anche che, in questo ambito, prevale spesso la ripetizione all’infinito di temi e schemi collaudati. In breve, la paccottiglia.
Tenendo conto di questa duplicità, possiamo partire da quanto sostiene Umberto Eco a proposito del romanzo popolare: questo genere letterario sorprende il lettore con innumerevoli colpi di scena, ma alla fine lo tranquillizza con quello che già sa immergendolo in un intreccio narrativo di cui conosce i pezzi, le regole e anche l’esito. E l’esito è che il bene trionfa. Il bene definito dai canoni della moralità dominante.2
Il procedimento descritto da Eco è per certi versi l’opposto di quello utilizzato da Evangelisti nel ciclo dedicato all’inquisitore generale di Aragona Nicolas Eymerich con le sue storie ambientate nella seconda metà del 1300, ma intrecciate con altre vicende che si svolgono in periodi futuri (dalla Seconda guerra mondiale al 3000 d.c.) o più raramente in dimensioni oniriche. Il tutto raccontato nella tipica struttura articolata su tre livelli cronologici. Nei tredici romanzi del ciclo “canonico”, pubblicati tra il 1994 e il 2018, lo scrittore bolognese immerge il lettore in un’atmosfera “paraletteraria” apparentemente poco impegnativa. Lo accoglie in un immaginario in cui si trova a suo agio, quello del romanzo d’avventura in cui il protagonista, come in un giallo, deve risolvere degli enigmi che si colorano di tinte horror, soprannaturali, fantastiche. Ma progressivamente la trama concettuale sottesa al racconto si infittisce, ci spiazza, ci porta in lande sconosciute in cui la nostra razionalità fatica ad orientarsi. È questo percorso dal noto all’ignoto che costituisce l’utilizzo politico che Evangelisti fa della letteratura popolare.
In Rex Tremendae Majestatis, ribaltando un procedimento intellettuale che rimanda esplicitamente a Sherlock Holmes, Eymerich afferma: “il mondo che abbiamo attorno è impazzito. Non è più vero che, eliminato l’impossibile, l’improbabile rappresenti la realtà. È vero l’esatto contrario”. L’effetto finale è tutt’altro che rassicurante, al contrario di quello descritto da Eco. Per guidare la resistenza contro la colonizzazione dell’immaginario, sostiene infatti il nostro autore, è necessaria una narrativa “che inquieti e non consoli”.3
Però alla fine, come un tipico romanzo di avventura, Eymerich vince perché ha tutte le caratteristiche di un eroe. L’inquisitore è certamente uomo di scienza, ma anche di azione: “padre Nicolas è un condottiero. Se non combattesse dalla parte giusta, lo scambiereste per un demonio”, sostiene in Cherudek padre Corona, l’unica persona che l’inquisitore potesse considerare come un sorta di amico. Un eroe, dunque, ma dalla doppia natura, come testimonia il nomignolo che gli affibbiano i suoi nemici catari, San Malvagio. Eymerich è coraggioso, intelligente, scaltro, dedito alla causa e incurante del proprio tornaconto personale. Al tempo stesso, però, è spietato, iracondo, vendicativo, orgoglioso. È nei momenti di maggior pericolo, ci ripete spesso Evangelisti, che riesce a riacquistare il massimo della sua lucidità e partire alla riscossa.
Come molti tra gli eroi più riusciti l’inquisitore ha un fatal flow, una ferita originaria che lo tormenta esprimendosi nelle sue molteplici fobie che, in fin dei conti, sono manifestazioni della sua incapacità di empatizzare con le persone e con il mondo. Momenti di pietà nei confronti del prossimo e anche delle proprie vittime ci sono, ma vengono repressi immediatamente con rabbia. In certi situazioni le sue fobie lo bloccano, ma soprattutto, nel tentativo per lo più inconscio di fronteggiarle, contribuiscono a costituire quella che lo psicanalista rivoluzionario Wilhelm Reich (coprotagonista del romanzo Il mistero dell’inquisitore Eymerich) definirebbe la sua armatura caratteriale. Che è poi la sua armatura da eroe. “La cappa nera e la tonaca bianca erano per lui un segno di forza, meglio ancora di quanto sarebbe stata una corazza” (Mater Terribilis). Senza di essa l’inquisitore afferma di sentirsi nudo. Eymerich può essere un eroe soltanto perché non ha ancora riconosciuto i suoi demoni interiori e li proietta all’esterno. I suoi demoni diventano Satana in persona. Solo quando aveva “Individuato il nemico l’inquisitore si sentiva molto più sicuro di sé”. Mentre si sentiva “spaesato”, una sensazione che odiava, “ogni volta che gli capitava di interrogarsi sulla propria identità” (Il Castello di Eymerich).
Alla fine di ogni romanzo, come prevede la narrazione convenzionale, Eymerich sconfigge i suoi nemici e ripristina l’ordine momentaneamente infranto. Ma di che tipo di un ordine si tratta? La giustizia ha trionfato? Ciò che nel romanzo d’avventura rimane spesso implicito o soltanto sullo sfondo, nelle vicende di Eymerich viene tematizzato esplicitamente. L’opposizione mortale tra ortodossia e eresia viene drammatizzata e messa in primo piano attraverso i ripetuti scontri dialettici che l’inquisitore ha con i suoi interlocutori e avversari. L’inquisitore “Aveva consacrato la propria vita alla ricucitura di un equilibrio costantemente violato sia dalle colpe degli uomini sia dalle insidie del Maligno”. Ogni attentato a questo equilibrio “costituiva uno strappo in una tela tessuta alla perfezione”. Da dio in persona (Mater Terribilis).
In questo ordine non c’è posto per alcuna alterità. Ogni alterità è eresia. Nella battaglia tra ortodossia e eresia la religione professata dall’inquisitore è qualcosa di più del classico instrumentum regni. È vero che normalmente la missione di Eymerich è duplice: deve combattere contro i nemici della vera fede e contemporaneamente sventare le trame politiche che si oppongono al papato. Ma l’inquisitore più volte afferma che la chiesa è al disopra di tutti i regni. È l’unico impero universale. In apparenza abbiamo a che fare con una forma mentis medioevale. Ma sotto queste mentite spoglie di si nasconde l’idea che, per dirla con Sandro Moiso, l’immaginario non è un’articolazione della politica, ma è quest’ultima ad essere un territorio dell’immaginario.
Eymerich è costruito consapevolmente come un personaggio anacronistico. Sotto l’apparente visione del mondo medievale di tipo aristotelico-tomistico, emerge il razionalismo moderno con il suo inarrestabile impulso totalitario. Un impulso inesorabilmente orientato a negare e distruggere tutte le relazioni sociali e le concezioni del mondo che a esso si oppongono. La sua razionalità è tutt’altro che premoderna: è fredda ed astratta al punto di diventare disumana e, in certi momenti, di lambire la follia. Eymerich combatte contro ogni possibilità che l’ordine dominante sia incrinato da ciò che è ritenuto impossibile, dall’evento, dal novum.
Fin dal primo romanzo del ciclo, Nicolas Eymerich, inquisitore, sappiamo che “lo stato d’animo con cui l’inquisitore si accostava a tutto ciò che non conosceva” era “la diffidenza di chi si avventura in un territorio nemico”. Come leggiamo in Picatrix, per l’inquisitore “Un vero “ignoto” non poteva esistere. Dio aveva dettato regole certe e ovunque valide”. Come ne La guerra dei mondi di H.G. Wells, di cui Evangelisti ci parla nell’articolo “In difesa della fantascienza”, c’è un tema sotteso all’intero ciclo dell’inquisitore, la minaccia “della caduta di un’intera civiltà davanti a una minaccia inaspettata”.4
C’è un altro elemento di manifesto anacronismo che Evangelisti pone al cuore della narrazione. La storia personale di Eymerich coincide, pressoché letteralmente, con la tipica biografia del “mostro” delineata dallo scrittore quando parla del serial killer Zodiac nell’articolo “American psycosis”. Si tratta, in realtà, di un percorso psicologico sufficientemente comune negli Stati Uniti contemporanei da causare una sorta di sociopatia diffusa di cui il fenomeno degli assassini seriali è solo l’esito più estremo. In Rex tremendae majestatis c’è la descrizione dell’“infanzia difficile” dell’inquisitore e come nel caso di Zodiac abbiamo “una situazione familiare in cui la figura materna deborda e prevarica con un eccesso di affetto o con un eccesso di freddezza – quest’ultimo è il caso di Eymerich -, mentre la figura paterna è distante ed evanescente” – del tutto assente a causa della prematura morte per quanto riguarda l’inquisitore.5
Un clima familiare di generale di violenza, disamore ed estraneità, portano Zodiac/Eymerich negli anni dell’infanzia a temere il prossimo e a tentare di evitarne le aggressioni fisiche e psicologiche. Diventa così un bambino chiuso, diffidente in forma esasperata, dominato da un costante desiderio di non farsi notare. Solo nel più radicale isolamento riesce a trovare la propria libertà e un lenimento alle sue sofferenze. Coltiva al proprio interno una carica di affettività che non riesce ad esternare causando un accumulo di aggressività. Alla fine, uno spaventoso vuoto emozionale recide anche gli ultimi legami con il mondo esterno. L’aggressione diventa l’unico modo che riesce a trovare per comunicare.
Evangelisti, insomma, ci sta dicendo che in un contesto sociale permeato dai connotati schizoidi è il potere in quanto tale, impersonato nella sua forma più estrema da Eymerich, che assume connotati sociopatici. A differenza della maggior parte della letteratura, Evangelisti “ha identificato nel potere stesso l’agente del male”6 e, come nella migliore paraletteratura, ha descritto un mondo “in cui la violenza non è un dato incidentale, ma una componente ineliminabile del contesto”.7 In un ambiente strutturalmente malato, la freddezza, la chiusura in se stessi, la reciproca ostilità e diffidenza, da forme patologiche diventano valori da rivendicare fino al punto di giustificare il disprezzo per il perdente (l’inquisitore detesta ogni forma di debolezza, sia fisica che mentale) e il diritto del cacciatore (ciò che Eymerich in Cherudek considera “la naturale crudeltà dei giusti”).
In Mater Terribilis Evangelisti descrive una conversazione tra un direttore di giornale e un sottosegretario alla difesa italiani che sostengono la necessità di inventare false notizie per sostenere la guerra della NATO contro la Jugoslavia. Il politico cita con approvazione Lenin quando sostiene che è indifferente l’uso che il chirurgo fa del bisturi se l’operazione è necessaria alla storia. Evangelisti, che si riconosce in “quella sinistra eretica fatta di anarchici, di autonomi, di situazionisti, di operaisti, di consiliaristi, di massimalisti, di socialrivoluzionari, di populisti eccetera”,8 si pone senz’altro dalla parte dell’anarchico Amedeo Borghi che, di fronte a questa affermazione, chiede al leader bolscevico: “e se il vero malato fosse il chirurgo?” La conversazione si chiude con il sottosegretario che giudica la domanda chiaramente insensata e per questo non meritevole di alcuna risposta, come effettivamente avvenne. Nessun potere è disposto a mettere in dubbio sé stesso e la sua legittimità.
Siamo lontani anni luce dalla letteratura che si autoproclama “alta”. Quella che, secondo Evangelisti, si caratterizza per “il minimalismo dilagante, la debolezza scambiata per poesia, i colori pastello ritenuti tinte ideali per dipingere il mondo, la gratuità stilistica, il chiamarsi fuori dello scrittore dalla storia, la ripetitività di trame incentrate sulla solita, immarcescibile gamma di sentimenti e situazioni”.9 Siamo nel cuore massimalista della paraletteratura.
Questo massimalismo si esprime nel fatto che, nel ciclo di Eymerich, ma anche negli altri romanzi di Evangelisti, assistiamo allo scontro tra due immaginari paradigmatici e alternativi. Il pensiero dell’inquisitore cerca la precisione, la misurazione, la distinzione, la scomposizione, la separazione. In Cherudek possiamo leggere uno dei tanti brani indicativi della forma mentis di Eymerich:
più di ogni altra cosa, ciò che lo innervosiva oltre il tollerabile era la confusione tra le forze in campo. La sua indole esigeva chiarezza e contorni precisi; l’ambiguità di quel conflitto equivaleva ai suoi occhi alla conferma che una mano demoniaca reggeva i capi della vicenda.
Nella fede dell’inquisitore non c’è posto per il sentimento e la pietà. Per tutto ciò che costruisce legami sociali, comunità. Brigida, la mistica in odore di santità che Eymeric incontra sempre in Cherudek, così lo accusa:
“Il fatto che in te non c’è amore, te l’ho già detto. La tua fede è una cosa fredda, spietata, lontana da Dio. Più che in lui tu credi nel diavolo, e il diavolo è tutto quello che non rientra nell’ordine disumano che vorresti instaurato”.
L’immaginario alternativo che emerge dalle eresie combattute ferocemente da Eymerich è costituito dal tessuto comune, dall’inconscio collettivo, dai sogni condivisi, dalla quinta essenza e dalla materia sottile degli alchimisti, ossia da tutto ciò che unisce e mette in comunicazioni gli esseri umani, dal legame profondo che tiene insieme l’intero mondo. È questo, ci dice Alberto Sebastiani, autore del più completo e interessante saggio critico dedicato al ciclo di Eymerich, il cuore del conflitto politico raccontato nell’intera opera narrativa di Evangelisti, la sua One big novel che comprende sia i suoi romanzi storici sia quelli fantastici. È questo il cuore massimalista della fantascienza del ciclo: la possibilità di uscire dal realismo capitalista.10
Ma c’è un punto che vale la pena sottolineare. In questo scontro titanico Eymerich è dalla parte della razionalità. Certmente è la razionalità spietata del potere, ma in fin dei conti è anche la nostra razionalità perché i suoi nemici sfidano la logica del nostro mondo e per di più lo fanno in modo oscuro e inquietante. Mathilde, sacerdotessa del culto luciferano in Mater Terribilis, così si rivolge all’inquisitore spiegando la natura dell’Archetipus Mundi:
“Nicolas Eymerich, qui non potete pretendere risposte ispirate a ciò che chiamate ragione. In questo mondo il tempo non scorre: convive in maniera simultanea … Spiegazioni basate su causa ed effetto, su un prima e su un dopo, sono funzioni anch’esse simboliche. Puri espedienti per darsi un orientamento in una landa dai confini indefiniti”.
L’altro mondo possibile, sempre represso ma continuamente risorgente, quello che nasce delle eresie provenienti da antichi culti spesso legati a divinità femminili, è popolato da innumerevoli creature inquietanti. Un aspetto tutt’altro che rassicurante che si proietta anche sull’avvenire. Mettendo in rapporto i differenti strati temporali della narrazione, infatti, Evangelisti evoca una sottile ma significativa relazione tra alcune delle pratiche magiche esercitate ai tempi di Eymerich e le vicende che, in un lontanissimo futuro, porteranno alla creazione dei mostruosi soldati utilizzati nello nello scontro bellico senza fine tra Euroforce e RACHE, le potenze dominanti nel continente euroasiatico: si tratta dei mosaici, una sorta di morti viventi nati dall’assemblaggio di parti di corpi senza vita, e dei poliploidi, esseri umani con un corredo genetico modificato che ne moltiplica gli organi.
Forse ancora più inquietante di questi guerrieri del futuro è la figura evocata dagli eretici luciferani: lato oscuro presente presente in ogni madre amorevole (in ogni “Mater Bona”), la “Mater terribilis” dell’omonimo romanzo è la genitrice che divora, castra e uccide la sua prole. Il suo nemico per eccellenza, ci viene spiegato con una citazione in esergo presente in uno dei capitoli del romanzo, è l’eroe, colui che viene raffigurato come il cavaliere valoroso che doma e imbriglia il lato istintuale e inconscio.
Di fronte a una natura così selvaggia ed oscura non siamo forse tentati di schierarci con dell’eroico cavaliere? Non siamo spinti a stare dalla parte di Eymerich? Se così non fosse, se una parte di ciascun lettore non si identificasse con l’inquisitore, tutto il fascino del meccanismo narrativo costruito da Evangelisti verrebbe meno. Ma è chiaro che Eymerich suscita in noi anche un sentimento di repulsione, di rifiuto. Ed è questo l’effetto finale che Evangelisti vuole ottenere. E se l’autore vuole che il suo lettore si ribelli al suo eroe non stiamo assistendo a un’originale autocritica della figura stessa dell’eroe?
(1 – continua)
V. Evangelisti, “Elogio della paraletteratura” in Id., Le strade di Alphaville, Odoya, Bologna 2022, p. 69. ↩
Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015 e Umberto Eco, “Il mito di superman” in Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1999. ↩
V. Evangelisti, “Una narrativa adeguata ai tempi”, in Id, cit, p. 78. ↩
V. Evangelisti, “In difesa della fantascienza”, in Id,. cit., p. 79. ↩
V. Evangelisti, “American psycosis”, in Id, cit., p. 209. ↩
V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 33. ↩
V. Evangelisti, “Apologia della sottoletteratura”, in Id, cit., p. 69. ↩
V. Evangelisti, “Periferia di Alphaville.23:15, ora oceanica”, in Id, cit. p. 53. ↩
V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 31. ↩
Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Bologna 2018. ↩