di Paolo Lago
L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento delle onde fra correnti e risacche. Successivamente, il personaggio (che si scoprirà in seguito essere un galeotto fuggito da un carcere) viene inglobato dalle concrezioni petrose dell’isola. Dopo aver abbandonato la barca, si insinua fra le gole di pietra, fra caverne e anfratti che lambiscono la costa rocciosa del luogo in cui si trova, ancora una volta prigioniero. L’inquietante suono del vento che incessantemente spira sull’isola è la manifestazione corporea di un tormento mentale che proviene da altre spazialità sconosciute, perdute negli anfratti di un’angoscia che sembra essersi trasformata in pietra, quella stessa pietra di cui è composta l’isola.
Vediamo infatti il primo piano del personaggio sferzato dal vento, abbandonato a una posa di lento e rassegnato dolore mentre, quasi stancamente, si incammina attraverso le lande desertiche dell’isola. Appare allora inglobato nello spazio desertico che racchiude e serra la sua figura, vestita di un povero abito dai colori chiari che sembrano quasi confondersi con i colori della terra e della sabbia pietrosa che egli solca con un’andatura incerta e innaturale. Sembra quasi un esploratore spaziale giunto su un pianeta sconosciuto, del quale percorre le lande desolate con angoscia e circospezione. E, come un esploratore straniero, improvvisamente si trova di fronte una strana costruzione dalla forma geometrica, una sorta di arcano e abnorme tempio, sul cui sfondo adesso si staglia la sua figura. Si può perciò così riassumere l’alternanza di spazi nei quali, in modo inquietante, è stato inglobato il personaggio: dapprima il magma del mare, poi le concrezioni cavernose e petrose dell’isola, successivamente le lande desertiche che sembrano quasi annullare e annichilire la figura umana e, infine, le costruzioni geometriche che, nuovo, angosciante sfondo, sembrano attirarlo verso di sé e nuovamente annichilirlo.
Di fronte a tali costruzioni, egli, mentre il vento continua incessantemente a soffiare e sibilare intorno al suo corpo, si muove lentamente, a scatti, come un automa, quasi divenuto, appunto, un “automa del pensiero” e una “mummia spirituale”, per utilizzare due espressioni di Gilles Deleuze. Avvolto dalla temporalità annullata dell’isola, il naufrago riesce soltanto a muoversi a scatti, mimando l’incedere di un tempo rarefatto su sé stesso, increspato di concrezioni mentali e angoscianti. Il vento che soffia ogni dove è il segno tangibile del deserto, dello spazio annichilente, lo stesso che incontriamo in molto cinema di quegli anni, dal Fellini-Satyricon (1969) di Federico Fellini fino a Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini e a Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani. In questi film, il vento è un corpo desertico che annichilisce i corpi stessi dei personaggi fino a trasformali in puri oggetti mentali, automi meccanizzati da inenarrabili spazialità abnormi. Anche in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, i due personaggi appaiono totalmente avvolti dallo spazio desertico e barbarico, uno spazio “liscio”, per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari, che si contrappone alla rigidità geometrica e irreggimentata dell’elegante villa satura di oggetti di consumo che nel finale esploderà come se fosse pervasa fino al limite di quel vento nomadico e annichilente.
Ne L’invenzione di Morel, nel momento in cui il personaggio si avvicina agli edifici geometrici, la macchina da presa si esibisce in una carrellata su di essi per poi entrare insieme a lui nello spazio interno, non meno inquietante di quello esterno. Mentre sentiamo l’incessante sibilo del vento, che continua in una dimensione sonora più allontanata, vediamo oggetti incastonati in rigidi contorni: un tavolo, una scrivania, delle lampade e dei libri posati sul tavolo. Tutto appare come cristallizzato in un passato ormai bloccato e segnato dall’angoscia mentre come cupi rintocchi risuonano i passi dell’uomo-mummia che si avventura all’interno di quegli edifici erosi dal tempo. I passi sono lentissimi e cadenzati, abnormi espressioni sonore di un tempo che sta per fermarsi, un tempo volto solo al passato, lontano dalle complicate plaghe di qualsiasi presente. Gli oggetti sono ricoperti di una polvere che proviene forse da altre ere, da altri lontani crepuscoli. Aggirandosi nelle stanze, il personaggio apre dei vecchi armadi e il suono ligneo delle porte stride con sonorità perdute in un passato dalle parvenze spettrali. In queste stanze, la macchina da presa, ad un certo momento, effettua una carrellata sul corpo del naufrago e quest’ultimo appare bloccato in una posa mummificata, abbandonata al proprio destino, figura umana completamente annichilita dalle spazialità degli esterni e degli interni dell’isola.
Successivamente, egli si reca in una stanza dove, al pari degli altri oggetti, si trovano bloccati dal tempo dei vecchi motori ed emerge perciò un altro spazio inquietante, quello ove macchinari imbambolati riposano senza requie in uno stupefatto, macchinico passato. E se appaiono estremamente diversi dalle spazialità ferine e ‘corporee’ dell’isola, dalle pietre e dalla terra, dal ribollire del magma marino, quelle macchine non sono altro che l’inquietante rovescio della medaglia. E, successivamente, dopo che è riuscito ad avviare il macchinario che permette la fuoriuscita dell’acqua corrente, il naufrago si siede sull’orlo di una piscina in un paesaggio segnato da linee geometriche mentre sullo sfondo riluce un angolo di mare che adesso pare inglobato esso stesso nella spazialità geometrica delle costruzioni. Del suo magmatico ribollire, ora rimane solo un lembo lontano e tremante.
Dopo essere penetrato in una stanza dove rintoccano ossessivamente grevi suoni metallici, il personaggio fugge verso la spazialità aperta dell’isola, come richiamato dalla ferinità del vento, della roccia, della pietra e del mare, degli sfondi azzurri del cielo. L’essere umano sembra non aver quindi del tutto rinunciato alla propria natura: rifugge gli ambienti geometrici e metallici, robotici e segnati da cupi rimbombi per tornare correndo verso spazialità ferine e corporee. Ed è dagli estremi lembi di queste ultime che il protagonista si accorge di alcune figure che danzano sinuosamente, al ritmo di un’elegante musica. Mentre il personaggio del galeotto sembra appartenere in tutto e per tutto agli spazi ferini e terrei dell’isola, le nuove figure che cominciano ad apparire sono immerse in cerei limbi, in falde di passato rapprese in colori pastello, come se fossero soltanto delle sovrapposizioni eteree e spettrali inserite nell’ambientazione dell’isola. Nello spazio inquietante di quest’ultima, infatti, c’è posto anche per le figure spettrali che sembrano adesso perseguitare il personaggio: è soprattutto una figura femminile, intrappolata nel suo limbo di un’era annegata in un passato lontano, a esercitare un fascino ambiguo e fantasmatico sul galeotto. Se quest’ultimo, poi, appartiene ormai all’universo afasico e barbarico dell’isola, le figure umane che lo circondano sono gli alfieri di una parola ripetuta in serie come in una catena di montaggio, essendo destinate a ripetere per sempre gli stessi gesti e a pronunciare le stesse frasi e gli stessi dialoghi. Muovendosi, i loro passi sono irrigiditi e meccanici, come nella sequenza che vede Morel camminare assieme al capitano della nave. Sono gli automi di un passato scardinato dallo stesso scorrere del tempo, un passato che non è tempo ma rigida ripetizione di uno spettrale spettacolo.
Il protagonista, infatti, si renderà conto che le figure umane improvvisamente apparse sull’isola sono solo delle proiezioni del passato, emerse dalla macchina di Morel, il quale ha intrappolato la sua immagine e quella di alcuni amici nel circuito senza requie del tempo. Morel e gli altri personaggi sono i fantasmi della ripetizione, sono gli ologrammi di un passato che non cesserà mai di ripetersi e il protagonista interagisce con essi come all’interno di un universo digitale. Se all’inizio crede che le figure siano reali, e si nasconde da esse, nel corso del film si rende conto che, invece, sono solo delle immagini proiettate dal macchinario creato dal genio mefistofelico di Morel. Il protagonista appare quindi circondato da immagini irreali che all’inizio egli scambia per vere: la sua vicenda non appare poi tanto diversa da quella degli individui contemporanei che, interagendo nel mondo digitale della rete, scambiano il falso per il vero e il vero per il falso. La confusione si è ormai generata e non ci sarà mai una interrelazione, mai una mescolanza autentica fra la corporeità ferina del protagonista e l’eleganza astratta e spettrale degli altri personaggi. Nello stesso modo, l’individuo contemporaneo, irretito dall’universo digitale, perde coscienza di sé e dei confini del proprio corpo e della propria coscienza.
Anche i personaggi intrappolati nel meccanismo della ripetizione sono vittima di una ‘decorporeizzazione’ che conduce all’annichilimento e alla morte. Infatti, chi viene sottoposto ai raggi della macchina di Morel, che hanno il potere di registrare le immagini dei corpi e di rendere pressoché immortale la loro immagine, è destinato a morire ricoperto di piaghe purulente. Quello sottoposto al processo di digitalizzazione, inserito nei meccanismi mostruosi di una macchina che condanna all’infinita ripetizione, è ormai un corpo putrefatto, inesorabilmente toccato dall’annientamento, destinato a trasformarsi in ombra inconsistente. Anche i personaggi del passato, intrappolati nel macchinario di Morel, in una illusione infinita come quella dei terribili marchingegni che David Cronenberg ci mostra in Videodrome (1983), sono gli inconsapevoli protagonisti di uno spettacolo che ha divorato il loro corpo e la loro anima, come gli utenti dell’universo digitale contemporaneo.
Lo stesso protagonista si renderà conto di essere fuggito da un carcere per capitare in un carcere ancora peggiore, in uno spazio inquietante e annichilente. Ormai trasformatosi definitivamente in automa e innamoratosi di una donna-immagine, simulacro spettrale di tutte le donne reali (come la bambola meccanica di cui si innamora il Casanova ne Il Casanova di Federico Fellini, che uscirà due anni dopo L’invenzione di Morel), sceglie di sacrificare il proprio corpo e la propria vita per consegnarsi volontariamente alla finzione, alla ripetizione, all’annichilimento del corpo e della coscienza per divenire ombra, spettro, immagine riproducibile all’infinito rischiando di restare imprigionato nella stanza dei macchinari, nella quale il sibilo barbarico del vento è sostituito da un cupo e insistente ronzio meccanico. E se alla fine il protagonista distruggerà, in un estremo impeto di ribellione, quelle crudeli macchine, lo spazio inquietante ha avuto ormai il sopravvento, uno spazio che avanza inesorabile e che renderà inquietante ogni lembo di qualsiasi presunta, sopravvissuta realtà.