di Valerio Evangelisti
[Ripubblichiamo un intervento uscito su Carmilla il 27.5.2008. Come si dice anche di seguito, Zardoz era uno dei due film preferiti dell’autore. In questa pellicola si parla di una comunità di privilegiati immortali che vivono separati dal resto del pianeta devastato grazie a un muro invisibile. Il nome di tale comunità è Vortex, lo stesso che Evangelisti, in Mater Terribilis (Mondadori, 2002), attribuirà a una stazione orbitante in grado di manipolare i sogni dell’umanità. In entrambe le narrazioni le élite usano l’immaginario come strumento di dominio e sfruttamento.]
Si era nel 1973, dunque dopo 2001 Odissea nello spazio e prima di Guerre stellari. La fantascienza era già diventata adulta: oltre al film di Kubrick c’erano stati Arancia meccanica, Solaris, la lunga epopea del pianeta delle scimmie. Nello stesso anno di Zardoz uscirono almeno altri due film interessanti: 2022: I sopravvissuti, di Richard Fleischer, e Il mondo dei robot, di Michael Chrichton. Tuttavia nessuno si sarebbe aspettato un prodotto come Zardoz. Non si apparentava né alle pellicole che lo avevano preceduto, né a quelle che lo avrebbe seguito.
Lo stile colpiva: ricco di finezze calligrafiche e di invenzioni visive (con toni di colore tendenti al verde e al diamantino), a tratti puramente delirante, a tratti favolistico, con innesti di sano realismo. Trionfo del kitsch ma anche ricco di innegabile afflato artistico, sempre stupefacente, dalla prima scena all’ultima.
Non a caso fu un disastro al botteghino e venne linciato dai critici di mezzo mondo (a parte i francesi). Per quanto mi riguarda, resta il mio film di fantascienza preferito in assoluto, a pari merito con Brazil di Terry Gilliam.
John Boorman, oltre a dirigere, scrive la storia senza riferimenti letterari apparenti, a parte un richiamo piuttosto evidente agli Eloi de La macchina del tempo di H.G. Wells. In un futuro remoto una ridotta casta di immortali vive entro barriere impenetrabili, che la separano dal mondo esteriore. Qui campano come possono folle di miserabili, tenute a bada da bande di Sterminatori a cavallo e, soprattutto, da un’immensa, minacciosa maschera di pietra, somigliante a un Giove furioso, che cala periodicamente dal cielo a inghiottire gli alimenti che le sono offerti per placarla.
Uno degli Sterminatori, Zed (Sean Connery più virile che mai, ed eternamente seminudo), si serve proprio della maschera volante per entrare nella città degli immortali. Vi è sottoposto a esperimenti vari, come Charlton Heston nel primo Pianeta delle scimmie; ma proprio la scienziata più dura con lui, una Charlotte Rampling letteralmente risplendente di bellezza, gli si farà amante e lo aiuterà a scoprire sia il segreto della parola “Zardoz” che il modo per riportare alla mortalità i privilegiati, del resto oppressi dal peso di una vita interminabile. Di più non posso dire, a beneficio di chi non ha ancora visto il film.
La prima lettura è chiaramente politica — cosa normale, visto l’anno in cui uscì la pellicola — e tuttavia non vi insisterei, tanto è evidente. Invece va sottolineata l’eleganza straordinaria di Boorman. I preziosismi stilistici, le ridondanze volute, la psichedelia contestuale non vanno mai a scapito della drammaticità della storia, assolutamente appassionante, carica di follia e di erotismo. Zardoz è un film che non potrà avere mai né seguiti né rifacimenti. E’ un’opera unica, irripetibile. Non è questa la caratteristica saliente dell’arte?
Vidi il film, un anno dopo l’uscita, in una delle mattinate del cinema Odeon di Bologna: un po’ l’equivalente, per studenti universitari cinefili e scansafatiche, di ciò che erano state, per gli studenti medi che marinavano la scuola, le mattinate al cinema Rialto. Ciò voleva dire, per tutto il tempo della proiezione, lazzi e battute irripetibili. Ebbene, durante Zardoz nessuno fiatò. Anche le peggiori canaglie sanno riconoscere un film ispirato e sincero.