di Sandro Moiso
Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio.
«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo il mondo libero a un prezzo molto alto». (capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov).
«Scappare è da codardi. Non possiamo fermarci e trattare, il nostro obiettivo è fermare la minaccia russa: stiamo lottando non solo per l’Ucraina ma per il mondo libero… La debole reazione del mondo è uno dei motivi per cui siamo ancora qui. L’Ucraina è lo scudo dell’Europa, lo è stata negli ultimi due secoli. Abbiamo lottato contro le invasioni nei tempi passati, adesso è un’altra storia. Lottiamo da soli da quasi due mesi e mezzo, abbiamo ancora acqua, munizioni e armi. I soldati mangiano una volta al giorno, ma continueremo a lottare». (Denis ‘Radis’ Prokopenko, comandante del battaglione Azov)
“I nostri militari in un certo senso stanno ripetendo quello che ha fatto Gesù Cristo, sacrificando la propria vita per il prossimo, per i figli, per la propria gente e difendendo la loro terra dall’aggressore. Per questo consacro le loro armi, perché le usino per riprendersi la nostra terra benedetta da Dio”. (Mykola Medynskyy, cappellano militare ucraino membro del partito Pravyj Sektor)
La saga di Azovstal è terminata ormai da tempo. Il sacrificio in stile Götterdämmerung (crepuscolo degli dei) auspicato in un primo tempo da Zelensky e dal suo governo non c’è stato (forse anche per le proteste dei famigliari dei combattenti là asserragliati) e i russi sono stati abbastanza saggi da non trucidarne i difensori sotto gli occhi di tutto il mondo. Eppure occorre ancora fare i conti con un tipo di comunicazione eroico/sacrificale che accompagna le guerre e la loro gestione propagandistica fin dalla notte dei tempi1.
Che si tratti di Enrico Toti, il soldato italiano della prima carneficina mondiale la cui immagine mentre, già colpito a morte, lanciava le stampelle verso il nemico dopo esser tornato a combattere pur con una sola gamba ha accompagnava i libri di testo scolastici fino gli anni Sessanta oppure dei trecento spartani caduti alle Termopili mentre impedivano il passaggio delle truppe persiane, tutto ha fatto sì che la logica del sacrificio supremo, variamente interpretato anche dalla Jihad islamica recente, abbia continuato ad accompagnare scelte politiche e militari destinate a dar vita ad autentici bagni di sangue, giustificandone le conseguenze proprio attraverso la “bella morte”.
“Bella morte” inevitabilmente destinata a costituire l’atto di nascita di nuovi eroi, di cui, troppo spesso come per i santi del cattolicesimo più impressionistico, il fatto ammirevole è quello di aver subito e sopportato il martirio. Eccoli lì, allora, i martiri/eroi/santi belli e pronti all’uso. In qualsiasi salsa: religiosa, conservatrice o, purtroppo, anche rivoluzionaria o pretesa tale. E non importa che, come nel caso del bersagliere con la stampella, si tratti quasi sempre di fake storiche, se non di bufale assolute.
Il sapore del sangue, l’attrazione fatale per l’abisso della morte, l’esaltazione del sacrificio della vita e del corpo in nome di una più “alta idealità” e di una volontà di autodistruzione catartico che non rivela altro che una autentica pulsione di morte che ben si adatta al fascismo più trucido e a tutto ciò che, nei fatti e non solo nelle parole, nega la vita nella sua essenza.
Un linguaggio funereo e un immaginario tetro, spesso sovranista, degno soltanto del peggior Romanticismo, che, però, affascina proprio coloro che tutto ciò dovrebbero combattere, in nome di una vita “altra” e non di una morte “eroica”.
Allora sarà bene dire che il martirologio di carattere religioso e conservatore, peggio ancora se “rivoluzionario”, non appartiene a chi scrive.
Questo perché al concetto di martirio è indissolubilmente legato quello di dolore e di sconfitta. E non può esserci dubbio che quello di sconfitta sia sempre rinviabile a quello di errore. Errore di calcolo, di prospettiva, di valutazione ma, comunque, errore. Motivo per cui non si può continuare a credere, fideisticamente e religiosamente, che la salvezza o la rivoluzione saranno il frutto di una serie di innumerevoli, dolorosi e ripetuti errori. Dagli incalcolabili danni collaterali e dalle conseguenze tutt’altro che necessarie.
Le rivoluzioni e le lotte vincenti non le realizzano gli “eroi” o i martiri idealizzati: le fanno gli uomini e le donne reali.
Fatti sì di carne e di sangue, ma che, alla fine, non possono soltanto accontentarsi di soffrire molto, di assaporare il dolore della sconfitta, delle ferite e della morte.
Cosa che non porterà mai da nessuna parte, perché si può morire, si può combattere, si può soffrire per una causa; si può essere costretti ad esercitare la violenza ancora per la stessa causa, ma non celebriamolo inopinatamente.
La promessa, insita nella stessa, non consiste in tutto ciò.
La ragione ci impone, da Epicuro a Marx passando per il materialismo illuministico, di perseguire la felicità e la liberazione della specie umana, mentre le sofferenze e le violenze non possono costituire altro che incidenti di percorso determinati dalle casualità storiche in cui ci si ritrova a dover lottare. Incidenti che l’umanità futura non celebrerà, ma rimuoverà, insieme al ricordo della preistoria in cui è ancora attualmente immersa; esattamente come la psiche tende a rimuovere i traumi dell’infanzia.
A meno che non si voglia a tutti i costi accettare il filisteismo borghese. O, peggio, la logica del sacrificio tout court. Che è anche quella che più si adatta alle memorie e alle necessità del nazionalismo e dei costruttori di nazioni. O, ancora, a quelle dei fanatismi politici e religiosi di ogni epoca.
Dalla jihad, ai “martiri” di Piazza Indipendenza a Kiev, fino agli “eroi” del battaglione Azov esaltati da Zelensky e dai media occidentali. Zelensky che fin dai primi giorni di guerra gridò al mondo, in uno dei suoi innumerevoli interventi video: «Onore ai martiri della Patria, morte ai traditori!». Traditori che, inutile dirlo, risultano essere soprattutto coloro che rifiutano di farsi macellare in nome dello Stato borghese. Sia che si tratti di civile che di militari.
Perché il filisteismo é sempre uguale a sé stesso.
Piange sul latte versato, si cosparge il capo di cenere; grida all’offesa, contro l’inciviltà, contro la mancanza di regole, contro il tradimento. E, intanto, li coltiva. Coscientemente. Spudoratamente. Vilmente. Opportunisticamente.
Così a volte, anche negli ambienti antagonisti, si “ammirano” le sofferenze altrui o le lotte disperate, frutto di ricette “antiche” ma sbagliate, sperando che quegli esempi o quelle stesse parole usate in altri contesti possano essere di supporto alla propria causa. Ma è un’idea sbagliata: restano soltanto sofferenze e lotte disperate. Quasi sempre inutili.
Lenin, piaccia o meno, su una cosa aveva mille volte ragione: l’insurrezione è un’arte.
La lotta vincente è un’arte. La Rivoluzione è un’arte.
E non si inventa né, tanto meno, si improvvisa.
Si improvvisa, coscientemente, su uno spartito conosciuto o del quale, almeno, si sanno leggere le note. E sul quale occorre aver a lungo studiato.
Tutto il resto è illusione, dolore, sofferenza e perdita di tempo e di speranza. Che, in seguito, portano, invariabilmente, gli sconfitti a sostenere che la rivoluzione è un’illusione, un errore, un’utopia (magari soltanto giovanile).
Un altro leader, anch’egli preteso “rivoluzionario”, affermò invece che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala“. E così facendo fece accomodare centinaia di milioni di cinesi ad un ben misero banchetto. Gli mancava, per così dire, l’idea della Festa.
Che non avrebbe mai permesso alla Cina “popolare” di diventare la prima potenza economica mondiale.
Mentre invece la Rivoluzione, per essere tale, dovrebbe essere anche una festa.
Non condivide la povertà, ma la ricchezza. Non solo materiale.
Non solo il lavoro, ma anche il riposo. Il sacrosanto diritto all’ozio del “nostro” Paul Lafargue.
La Festa ha poco a che spartire con il martirio, il sacrificio e gli eroi, ma il martirio e il sacrificio hanno molto a che spartire con i regimi, le religioni, i nazionalismi e la loro supina accettazione.
Sacrificatevi per la Patria, per l’Onore, per la Vera Fede, per la Causa oppure per il Grande Partito. L’hanno fatto i vostri Padri. L’hanno fatto i Martiri. L’hanno fatto gli eroi. Lo farete anche voi.
Si fanno i sacrifici oggi come sono stati fatti ieri. La vita e la lotta sono fatte di sacrifici.
E’ sempre lo stesso refrain.
Il trionfo della morale cristiana. Anzi delle religioni rivelate. Dall’Antico Testamento al Corano.
Ma così si perde il senso della Festa rivoluzionaria e delle lotte sociali. Che, alla faccia di De Coubertin, devono essere vincenti. Perché, davvero, non basta solo e sempre partecipare.
Si partecipa per vincere e non solo per far presenza o farsi un selfie vicino a una lapide che commemora un morto, un eccidio, un bagno di sangue e di dolore.
Lo “spirito olimpico” non appartiene ai rivoluzionari, così come non dovrebbero appartenere loro i pellegrinaggi del rimorso e dei reliquiari. Magari ai masochisti della politica, ma non a chi aspira ad una nuova vita e a un diverso futuro.
Soltanto ai primi potrà apparire “bello” il sangue versato; belle le vite perdute; bella anche la sconfitta!
Dai moti mazziniani a Shangai nel 1927 si potrebbe elencare una serie infinita di insurrezioni e tentativi rivoluzionari falliti.
Falliti perché fuori tempo rispetto allo spartito del loro momento storico e destinati alla sconfitta fin dal momento della loro ideazione. Autentici tritacarne in cui hanno perso la vita migliaia di giovani rivoluzionari e di lavoratori, da Pisacane a Sapri fino al Che nelle foreste boliviane.
Così invece di apprendere una qualche lezione da quelle sconfitte, in caso di vittoria, si preferirà esercitare la vendetta, dello Stato o del Partito, come moneta di scambio per ripagare il dolore subito in precedenza e la felicità non ancora mai raggiunta.
Sui nemici oppure anche anche su rivoluzionari colpevoli di aver espresso qualche dubbio sull’efficacia delle decisioni prese dai grandi timonieri della storia.
In questa concezione, tutto entrerà, o dovrebbe entrare, nel medagliere futuro.
Della Rivoluzione fallita (comunque), della Nazione rafforzata o del Gulag travestito da Società migliore.
Ma non chiamatela “memoria” perché, in realtà si tratta di rappresentazioni molto prossime alle idee fasciste sulla società, la nazione, il sacrificio e il lavoro che, in apparenza si vorrebbero combattere.
Tutte idee che, in fin dei conti, permettono ai principali contendenti del disgraziato conflitto in corso di rinfacciarsi a vicenda le stesse colpe.
Tutti fascisti e tutti anti-fascisti.
Tutti nazisti e tutti anti-nazisti.
Pur che il sangue scorra…che bello spettacolo da teatro del grand guignol, mentre il capitale ancora una volta sogghigna.
Meglio, allora, non solo i giovani che disertano su entrambi i fronti della guerra in corso, ma anche quelli che cercano di sfuggire alla stessa abbandonandosi all’eros e all’alcol nei locali di Kiev, dove la polizia irrompe distribuendo cartoline per l’arruolamento forzato. In maniera paritaria, sia ai ragazzi che alle ragazze, mentre c’è chi vende per 1600 euro falsi documenti di un’ università polacca per restare alla larga dalle trincee.
«Attenti agli uomini in nero, scrivono indulgenze al capolinea di Rogaskaya». «Al campo sportivo di fronte al Gorky Park i moschettieri invitano al gran ballo», avvertono i messaggi su Telegram in una chat di Kharkiv. All’inizio, per il fronte sono partiti i volontari; ma ora le croci in battaglia sono tante, la musica è cambiata e gli uomini in divisa vanno in giro a reclutare passanti troppo impegnati a spassarsela per vantare un buon motivo per non combattere. Ogni città ha la sua chat, in rete fioriscono gli avvistamenti, ora e luogo per non essere acchiappati. Non c’è regola, non c’è obbligo di arruolarsi; ma se ricevi la “cartolina” devi partire per il fronte. Li braccano alle fermate della metro, in palestra, nei club. Passi la notte a divertirti? Beccato, vai in guerra! Fai scandalo facendo sesso in pubblico? Via, al fronte2.
Chi ama la vita, auspica la sopravvivenza della specie, pur con tutti i suoi enormi difetti, e detesta la guerra non avrà dubbi sulla sostanza, per quanto pre-politica, di questa forma di rifiuto collettivo del culto della Patria, del Dovere e della Morte.
Sarebbero dunque questi i “traditori” filo-russi e filo-putiniani che Zelensky si vanta di perseguitare, reprimere ed eliminare nelle sue quotidiane cronache propagandistiche cui viene dato tanto risalto dai media occidentali? Sono forse loro i sabotatori della guerra di “liberazione”?
N. B.
Il titolo del presente articolo è preso a prestito da quello del romanzo memorialistico di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, pubblicato da Marsilio Editore, Venezia 1995.
Compresa l’infinita serie di reportage che la “democratica” Repubblica, orfana di Scalfari, dedica ancora ai combattenti del battaglione Azov, con titoli roboanti e “accattivanti”: Carlo Bonini, Daniele Raineri, Laura Pertici, La guerra di Azov. Sulla linea del fronte con il reggimento nazionalista ucraino diventato simbolo del conflitto e di cui l’Occidente ha paura (qui) ↩
Paolo Brera, Le notti proibite dei giovani di Kiev. “Con musica ed eros scordiamo la guerra”, «La Repubblica», 25 luglio 2022 ↩