di Francesco Festa
James C. Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera, Milano, 2022, pp. 208, € 16,00
Fra i tanti pregi della casa editrice Elèuthera ve n’è uno davvero singolare se non indispensabile per allenare lo sguardo critico. Un pregio prensile della realtà, in grado di coglierne aspetti insondabili. Ossia la pubblicazione di opere che detengono la virtù di ritagliarsi un punto di vista di parte, osservando la realtà e le cose sub specie aeternitatis, come relazioni sociali stratificate nella storia e nelle condotte comuni e non sottoposte alla caducità delle relazioni prosaicamente economiche, assoggettate alla razionalità capitalistica.
Parrebbe un ossimoro parlare di eternità rispetto a Elèuthera, casa editrice di matrice libertaria. Eppure quell’eternità, con Spinoza, è inscritta immanentemente nella molteplicità delle relazioni sociali. E quel pregio è concreto, vero. Se ne percepisce l’intensità quando fra le mani sfogli pagine dense di osservazioni radicali, singolari, di punti di vista alternativi, cui non si è mai pensato. Quel pregio è, infatti, quello di restituire dei libri capaci di utilizzare lo “sguardo obliquo”, come una sorta di diffrazione interpretative, che si smarcano dalle determinazioni più riposte e consolidate del senso comune, per verificarne l’effettiva consistenza nelle relazioni sociali. Libri che adoperano un punto di vista come, ad esempio, esercizio di verifica se un’identità sia davvero tale, e non solo una costruzione ideologica, ma anche se non vi siano modi di vita alternativi, in contrapposizione a quanto si dà per assodato.
All’interno di questa continua ricerca, l’editore offre ai lettori un’opera indubbiamente originale dell’antropologo James C. Scott, Elogio dell’anarchismo (Elèuthera, 2022), in cui l’autore raccoglie – e mette alla prova della contemporaneità – gli attrezzi di anni di studi condotti fra i contadini di diversi sud del Mondo a partire dagli anni Sessanta, analizzandone le strategie di resistenza alle varie forme di dominazione, tramite l’osservazione partecipata dei rapporti sociali, delle relazioni interpersonali, in un metodo di comparazione con quelle che sono le organizzazioni sociali contemporanee, e al contempo mettendo in discussione soprattutto le basi dello Stato moderno e del capitalismo.
Scorrendo le pagine, appare chiaro un rapporto di forza: da una parte, il Leviatano di Hobbes, e le teorie della modernità politica dell’Europa, per cui gli uomini non sono in grado di auto-governarsi; dall’altra parte, le teorie prodotte dall’osservazione diretta di Scott, in contrasto con le idee gramsciane sull’egemonia, come la resistenza quotidiana dei subalterni dimostra l’incompatibilità degli stessi al dominio.
D’altro canto, quanto esposto dall’autore ci sembra un perno anche dell’analisi del collettivo indiano dei subaltern studies, in particolare dell’analisi di Ranajit Guha, circa la condizione di “dominio senza egemonia” dei contadini indiani, o di Dipesh Chakrabarty in Provincializing Europe. E in effetti, gli studi dei subaltern studies hanno in comune con quelli dell’antropologo statunitense l’analisi di classe della composizione sociale: da una parte, i contadini e i subalterni, ossia una formazione socio-politica composta da “sudditi”, mai integratisi nella egemonia della “borghesia indiana”; dall’altra, una formazione indiana popolata da “cittadini”, che hanno ritenuto caratterizzare la “normale” condizione della modernità politica indiana sotto la costituzione egemonica dell’Europa occidentale.
Elogio dell’anarchismo è dunque una sorta di breviario delle riflessioni e degli studi di Scott, esercitando quello “sguardo obliquo” affianco ai “reietti della terra” e osservandone i conflitti di classe, le resistenze e i progetti di sviluppo. Interessato fortemente alla critica anarchica dello Stato e della modernità occidentale, tramite l’indagine storica, ha constato come “ogni rivoluzione trionfante” sia finita nel ricreare uno Stato più potente di quello rovesciato: uno Stato esercitante un controllo più forte sulle popolazioni che ha dichiarato di servire.
Va da sé, quella francese e quella russa sono le rivoluzioni cui egli fa riferimento. Ma, i due eventi, capisaldi degli studi sull’azione collettiva, sono citati solamente nelle prime pagine, invece, Scott dedica la maggior parte del libro allo studio delle manifestazioni quotidiane, delle condotte introiettate come “normali” e normate da pratiche assuefatte dai singoli e/o dai cittadini. Il suo intento è quello di smascherare l’irrazionalità di leggi o norme che, di contro, sono considerate razionali; altrimenti verrebbe meno proprio la funzione della legge e degli organi legiferanti ed esecutivi, e complessivamente dell’ordine costituito.
Fra le tante osservazioni proposte da Scott, in cui mostra come le leggi e lo Stato moderno siano artifici senza egemonia, ve n’è uno dai tratti eufemistici, ma molto efficace: l’esempio dell’incrocio e del semaforo, dove il traffico di pedoni, automobili e camion viene regolato da semafori, anche in orari in cui non ve n’è affatto bisogno. “Mi ha sorpreso notare quanto abbia dovuto darmi animo – scrive Scott – solo per attraversare una strada sfidando la disapprovazione generale e quanto poco pesassero le mie convinzioni razionali rispetto ai loro rimbrotti. Attraversare l’incrocio a passi lungi, in maniera baldanzosa, con l’aria di chi ha ragione, avrebbe sicuramente fatto più impressione ma richiedeva una dose di coraggio di cui non disponevo” (pp. 38-39).
A giustificazione di questa sua condotta, aggiunge:
“Sapete, in voi e ancor più nei vostri nonni albergava un tempo uno spirito capace di trasgredire le leggi. Un giorno potreste essere di nuovo chiamati a trasgredire la legge nel nome della giustizia e della razionalità. Dipenderà tutto da voi. Dovreste essere pronti a darlo. Vi state preparando per quel giorno? Vi state tenendo ‘in forma’ per essere pronti quando il Gran giorno arriverà? Quel che vi serve è la ‘calistenia anarchica’: ogni giorno dovete commettere una piccola infrazione violando qualche legge banale, fosse anche solo attraversare la strada senza osservare le prescrizioni del caso. Usate la vostra testa per giudicare se una legge è giusta o ragionevole. Così rimarrete ‘in forma’ e quando arriverà il Grand Giorno sarete pronti.
Una curiosità, con rimandi nient’affatto remoti, a metà degli anni Novanta, il partito anti-gentista, col motto coniato da Roberto “Freak” Antoni: “Mangiate merda, un milione di miliardi di mosche non possono aver torto”, propose 18 referendum, promossi anche dall’organo ufficiale dell’anti-gentismo, Cuore. Fra essi vi era l’abolizione del semaforo rosso, così come dei francobolli, del reato di furto, dell’ora di matematica, dei pedaggi autostradali, dei salari operai, ecc. Non era sarcasmo, i referendum arrivarono realmente sulla Gazzetta ufficiale, presentati in Cassazione per la raccolta firme col notaio. In realtà, raccordavano temi il cui bersaglio erano le politiche neoliberiste ante litteram, il perbenismo borghese, il moralismo dei teorici del decoro, e tutto ciò che, oggi, sarebbe annoverabile alla categoria di populismo.
“Calistenia anarchica”, esercizi di disobbedienza e di insubordinazione per mantenere aperta la via di fuga dal pensiero unico. Ve ne sono tanti di esempi riportati da Scott. “Frammenti” li intitola, a mo’ di paragrafi; ricomposti questi ci consegnano una cartografia dell’agire emancipato dalle distorsioni dello Stato e del capitale. Nel “Frammento sedici” si chiede con l’eufemistico “semaforo”: “che accadrebbe se non ci fosse alcun ordine elettronico agli incroci e pedoni e guidatori dovessero esercitare il loro giudizio indipendente? Dal 1999, a partire dalla città di Drachten, in Olanda questa ipotesi è stata messa alla prova, con risultati sbalorditivi che hanno portato a programmi di “rimozione del semaforo” in Europa e negli Stati Uniti. Le premesse e i risultati di questa piccola iniziativa civica sono significativi per quei tentativi lungimiranti che si propongono di modellare le istituzioni in modo da espandere il giudizio indipendente e le capacità dei cittadini. Hand Monderman, l’anti-conformista tecnico del traffico […] ha successivamente elaborato un concetto di ‘spazio condiviso” (pp. 128-129).
Vale la pena di rilevare l’analisi di Scott circa la funzione sociale della piccola borghesia. Analisi davvero singolare, in particolare rispetto agli studi marxiani, il cui astio “verso la piccola borghesia” era “secondo solo a quello verso il lumpenproletariat”, in quanto “si basava sul fatto che questa era composta da piccoli proprietari, ovvero da piccoli capitalisti”. Mentre Scott, sulla scia di Edward Thompson, mostra la miopia di Marx: “la base sociale più importante è rappresentata dai contadini e dai piccoli artigiani”, ossia classi che nel ricercare la libertà aspirano a impadronirsi del potere. È una vera riabilitazione, quella proposta dall’antropologo americano. Una riabilitazione della funzione economico-sociale e prim’ancora storica, della piccola borghesia, a partire dalle ambizioni e dalle rivendicazioni della stessa alla base della propria radicalità: la rivendicazione della terra e l’organizzazione del piccolo commercio. Circa la prima istanza, Scott mostra l’esempio dei movimenti anti-coloniali in Brasile o i contadini messicani, il cui successo è stato radicale grazie all’appello rivolto ai piccoli borghesi per il possesso della terra. Circa la seconda, l’esempio è quello dei piccoli negozi versus i megastore: “la piccola borghesia – scrive Scott analizzando le trasformazioni etnografiche causate dall’arrivo del mass market – svolge una sorta di servizio sociale quotidiano, affidabile e gratuito, che sarebbe difficile replicare in un ente pubblico. Si tratta di un insieme di piccoli servizi che i negozianti forniscono nel corso della loro attività […] come il sorriso del negoziante […] lo stesso al quale i residenti lasciano le chiavi di casa per quei parenti o amici che arrivano da fuori città e che staranno nel loro appartamento mentre loro sono via. Ovviamente il commerciante fornisce questo servizio come una forma di gentilezza verso il cliente ed è impossibile immaginare un servizio analogo svolto da un qualsiasi ente pubblico” (pp. 148-149). È una sorta di indagine di quale possa essere la classe in grado di avvicinarsi maggiormente all’idea di eguaglianza e di proprietà popolare dei mezzi di produzione. E Scott non ha dubbi: la piccola borghesia è la classe da cui potrà emergere un altro sistema economico-sociale nelle società a capitalismo avanzato.
Questa lettura ci pare, tuttavia, trascuri la funzione assolta dalla piccola borghesia in determinati frangenti storici. E trascuri anche la sua composizione di classe, ossia i rapporti di forza messi in campo e le alleanze costituite in base ai rapporti di produzione finalizzati a difendere i propri interessi. Una classe, in realtà, dai tratti e dai valori storicamente conservatori – come conservazione dello status quo. Tralasciando l’analisi storica, Scott ne rilegge la funzione sociale solamente in contrasto alle caratteristiche contemporanee del neoliberismo: fra le altre, la finanziarizzazione dei rapporti sociali, l’auto-imprenditorialità e la costituzione di cartelli proprietari. Si pensi invece, ad esempio, al “biennio rosso” in Italia, 1919-20, e alle posizioni reazionarie e contro-rivoluzionarie scelte dalla piccola borghesia, composta da artigiani, commercianti, piccoli professionisti. Oppure, mutatis mutandis, alla Germania degli anni Trenta, ridotta sul lastrico dalle riparazioni post-guerra, e il settore di classe più vessato, quello summenzionato, andava rafforzando le fila del Partito Nazionalsocialista; oppure agli anni Settanta, in Italia, alle posizioni a favore delle politiche consociative, tanto democristiane quanto del Pci, contro i movimenti della sinistra rivoluzionaria; o ancora, agli anni Ottanta, e al sostegno alla controrivoluzione neoliberista. Insomma, quella composizione di classe, cui guarda Scott per porre guado all’avanzata dell’alienazione neoliberista, sembra anche la forza elettorale che negli ultimi anni ha dato fiato ai partiti – “né di destra né di sinistra” – , a suon di meritocrazia stucchevole, subcultura del decoro, civismo di facciata, mentre andavano danneggiando il potere salariale dei lavoratori, la cultura politica e gli assetti sostanziali della Repubblica italiana. Gli effetti saranno disastrosi, sine die, per le classi lavoratrici.