di Gioacchino Toni
Videodrome (1983) di David Cronenberg e Blade Runner (1982) di Ridley Scott sono due film distopici che, oltre a risultare esemplificativi della diffusa presenza dell’immaginario religioso, soprattutto cristiano, nelle produzioni audiovisive, evidenziano chiaramente il legame sempre più profondo tra religione e mondo dei mass media e della tecnologia agli albori dell’era informatica. Insomma, tratteggiano, sin dai primi anni Ottanta, l’avvio di un’epoca in cui anche “l’oppio dei popoli” avrebbe finito per farsi digitale.
Nel film di Cronenberg, gli indigenti che si recano presso la Cathode Ray Mission, al posto di un pasto caldo, ricevono la loro dose quotidiana di immagini televisive. In Videodrome, inoltre, si propone un confronto tra il cattolicesimo e i timori nei confronti delle tecnologie di McLuhan e la Missione catodica di O’Blivion che, anziché nutrite gli esseri umani della Parola di Dio, offrendo loro il corpo del Cristo attraverso la liturgia eucaristica, dispensa loro “l’elettrone-Parola” tramite un cermoniale ormai sedimentato in un mondo in cui le realtà dentro e fuori lo schermo si intrecciano in maniera sempre più inestricabile.
Nel film di Ridley Scott, il replicante Roy assume caratteristiche cristiche riprendendo la tradizione gnostica del Figlio costretto a eliminare il Padre sostituendosi ad esso per redimere l’umanità dalla malvagità. Il ruolo cristico del replicante è inoltre individuabile nel rimando allo Spirito Santo della Colomba imbracciata e liberata nel momento del sacrificio e, soprattutto, in tutta la seconda parte del film in cui il suo percorso assume le sembianze di una Via Crucis che lo condurrà alla redenzione e alla morte.
Nella comunicazione contemporanea, l’iconografia religiosa, soprattutto cristiana, è più diffusa di quel che si è portati a pensare; oltre che per testimonianze di ordine devozionale o teologico, si ricorre ad essa anche per trasmettere messaggi del tutto indipendenti dal suo significato originario. Si possono individuare numerosi esempi di volgarizzazione delle fonti religiose già in epoca tardo-medievale, quando le scene bibliche non mancano di assumere connotati fiabeschi e, non di rado, le figure dei santi si prestano a vestire panni e interpretare ruoli che non sono propriamente i loro.
L’iconografia sacra è stata utilizzata anche con finalità ironiche e persino irrisorie nei confronti di alcuni aspetti – o figure – della religione stessa, come avvenuto agli albori del protestantesimo o, con connotati antireligiosi, durante la Rivoluzione francese. A proposito di quest’ultima, tuttavia, vale la pena ricordare come lo stesso pittore Jacques-Louis David, tra i maggiori “costruttori di immagine” della Rivoluzione, non manchi di attingere esplicitamente dal repertorio iconografico cristiano per celebrare un martire della “Nuova Francia”, Jean-Paul Marat, ritraendolo esanime dopo la morte inflittagli a tradimento. Insomma, anche in un ambito esplicitamente ostile all’universo clericale e religioso, all’iconografia cristiana non si rinuncia in quanto inevitabilmente radicata nell’immaginario popolare.
Il corposo volume di Vittorio Montieri (a cura di), La manipolazione del sacro. L’immagine religiosa nel mondo della comunicazione (Mimesis, 2021), raccoglie contributi che, ricorrendo a diverse discipline, approfondiscono le forme di manipolazione del materiale religioso nei principali linguaggi visivi contemporanei: Carlo Nardella evidenzia le modalità altre rispetto a quelle previste dal sistema religioso che le ha generate; Milena Cordioli indaga la reinterpretazione iconologica del sacro nel linguaggio artistico contemporaneo che si manifesta nella sua profanazione; Federico Ruozzi analizza alcune produzioni audiovisive accusate di blasfemia ma anche elogiate per la loro, per quanto particolare, natura profondamente religiosa; Vittorio Montieri propone una classificazione tipologica delle intenzionalità e delle modalità retoriche rintracciabili nelle pubblicità che ricorrono a figure della cristianità come testimonial; Gabriele Marino si sofferma sul rapporto tra religione e Internet indagando nello specifico i meme agiografici realizzati tanto per usi religiosi che di altra natura; Sara Hejazi si occupa della presenza di simboli religiosi nei prodotti videoludici; Marcello Toscano passa in rassegna i profili giuridici che disciplinano il fattore religioso nella comunicazione commerciale.
Come dimostrano i diversi interventi, nella contemporaneità, l’iconografia cristiana può dirsi contesa tra l’istituzione religiosa che l’ha prodotta ed a lungo gestita in esclusiva, e l’universo laico dell’industria culturale, del mondo dello spettacolo, dei social, che ha guardato ad essa come a un immenso serbatoio di narrazioni e immagini da cui attingere liberamente con la consapevolezza che, in un modo o nell’altro, l’immaginario iconografico religioso, sedimentatosi nei secoli, resta ancora largamente conosciuto e condiviso dalla collettività.
Ad essere prese in esame dal volume sono pertanto le “varianti secolari e pop” della simbologia religiosa, che riconvertono l’iconografia cristiana in una miriade di forme disimpegnate, strumentali e profanatorie. Attraverso un approccio interdisciplinare ai principali linguaggi dell’immagine, il volume offre un quadro aggiornato dell’immaginario cristiano nelle produzioni culturali, comunicative e ludiche contemporanee indagandone le dinamiche, gli interessi in gioco e le aree di conflittualità. Ci si soffermerà di seguito esclusivamente su alcune questioni trattate da Gabriele Marino circa il rapporto tra religione e internet.
Nell’ambito del rapporto tra l’universo religioso e quello digitale si possono distinguere due ambiti principali facenti riferimento uno alle “religioni su Internet” (religion online) ed un secondo alle “religioni di Internet” (online religion). Marino concentra la sua analisi sulle molteplici forme di meme costruiti sulle figure dei santi che consentono personalizzazioni da parte degli utenti della Rete utili a veicolare, in forma allegorica, prese di posizione critiche, soprattutto ironiche, circa personalità ed eventi dell’attualità, oltre che dar luogo a forme espressive “rimediate” della fede o trasmettere messaggi volutamente ambivalenti.
A proposito delle religioni online, è divenuto d’uso riferirsi ad esse utilizzando etichette, non di rado valutative, come: cybersects, con rifermento ad esperienze che ricorrono quasi esclusivamente alla comunicazione digitale pur ambendo ad agire anche sul tessuto sociale offline; hyper-real religions, cyber religions, e-religions, per indicare fenomeni che vivono esclusivamente sul Web; technopaganism, per riferirsi a forme di religiosità – spesso marcatamente antagoniste al modello monoteistico soprattutto cristiano – connotate da tratti sincretici in cui compaiono riferimenti che vanno dal razionalismo scientifico, alla fantascienza o al fantasy, definite a volte anche technotopie; fake-religions, invented religions, parody religions, religions without religion, per riferisi ad ambiti contraddistinti da connotati spiccatamente satirici nei confronti dei culti monoteisti, soprattutto cristiani. Si tratta di costruzioni culturali contraddistinte «da uno spiccato accento sulla dimensione immanente (this-worldliness), da una spiritualità auto-riferita (self-spirituality), da de-gerarchizzazione e de-dualizzazione (con riferimento all’opposizione umano/divino), da parascientificità, pluralismo e relativismo, e in buona sostanza non formalizzate da un punto di vista organizzativo» (p. 293).
Dall’incrocio tra cyber-religione, sincretismo postmoderno, neo e technopaganesimo, transumanesimo, invented e parody religion, si sono sviluppati fenomeni stupefacenti come:
la Chiesa del Virus (Chruch of Virus; che si autodefinisce una “sintesi tra religione ed evoluzione, non-teistica e memeticamente ingegnerizzata”), il Digitalismo (Digitalism), la Tecnosofia (Technosophia), la Cosmosofia (Cosmosophia), la Chiesa della Realtà (Church of Reality), il MOOismo (MOOism), il Cyber-Voodoo, Deify Yourself!, l’Ortodossia Kemetica (Kemetic Orthodoxy), Reconnecting. CALM, il Jedismo (Jediism; da Guerre Stellari), La Nuova Casa (The New House), il culto dell’Invisibile Unicorno Rosa (Invisible Pink Unicorn), la Kibologia (Kibology), il Kopimismo (Kopimism), il Matrixismo (Matrixism; dal film Matrix), il Pastafarianesimo o la Chiesa del Prodigioso Spaghetto Volante (Pastafarianism o Church of the Flying Spaghetti Monster), il culto del Misterioso Pulsante di Reddit (Reddit’s Mysterious Button; una sorta di esperimento sociale “tribale” che ha rappresentato, nel 2015, un interessante caso di “religione con data di scadenza”) (p. 294).
Essendo che sin dalle sue origini l’universo Internet si contraddistingue per la possibilità di creare spazi di alterità rispetto al mondo offline, non è difficile comprendere come la Rete si sia rilevata particolarmente adatta alla proliferazione di ambiti che, attraverso pratiche rituali e/o religiose, si sono posti come il rovescio di pratiche religiose tradizionali.
La natura ludica che permea Internet, anche senza per forza di cose giungere alla satira esplicita, si palesa in molti casi anche nella spiritualità digitale. Si viene facilmente a creare un intreccio tra rito e gioco in cui quest’ultimo «può presentarsi come una sovraestensione della pratica rituale, e quest’ultima una forma peculiare di pratica ludica » (p. 295). Non è un caso, sottolinea Marino,
che le diverse forme della religiosità digitale e su Internet facciano ampio ricorso alla gamification, ossia l’applicazione di strategie ludiche in un contesto non ludico, tematizzando queste affinità di fondo tra le due dimensioni. Se, prima della svolta digitale, la religione tendeva a informare di sé ogni momento della vita della persona, nella contemporaneità che si è spesso definita post-secolarizzata, invece, è possibile compartimentarne il raggio di azione, portando in qualche modo a compimento il processo di individualizzazione e interiorizzazione delle pratiche che, in occidente, si è sviluppato soprattutto a partire dalla Riforma protestante (pp. 295-296).
L’impossibilità, nella contemporaneità, di distinguere nettamente online e offline impone di non guardare ad Internet esclusivamente per il suo prestarsi alla funzione documentaria o vicaria di testimonianze di fenomeni religiosi in praesentia; nuove pratiche e nuovi significati possono invece derivare dalla loro fruizione.
Venendo alle popolarità delle figure dei santi, Marino ricorda come questa derivi tanto dalla loro capacità di mediazione e modellizzazione, quanto dalla concretezza – determinata dalla loro consistenza corporea calata nel tempo della storia – che conferiscono al concetto di imitatio Christi.
Non stupisce allora che i santi siano oggetto di una vera e propria economia politica dei testi e delle immagini, che li vuole al centro di continue codifiche e ratifiche, ricodifiche e disconoscimenti, il cui scopo ultimo è il consolidamento di una data ideologia e l’ipoteca sul consenso diffuso dei fedeli. E non stupisce che chi abbia il modello cristiano tra i propri totem polemici costruisca un suo anticanone di santi antagonisti […] In quanto medium strategico per la Chiesa cattolica, i santi subiscono diverse rimediazioni. All’ora della svolta digitale, hanno cominciato a proliferare i repertori agiografici ipertestuali: siti Web di varia natura capaci di offrire ai fedeli una quantità sconfinata di pertinenze attraverso cui costruire un legame con le singole figure dei santi: elenchi e calendari, agiografie, cataloghi iconografici ecc (pp. 299-300).
L’universo dei social media sembra proprio avere nella viralità la sua forma comunicativa per eccellenza. A partire dalla metà degli anni Novanta si è iniziato a parlare di meme per riferirsi ad argomenti, slogan, immagini, video virali capaci di diffondersi come un virus sul Web. In altre parole i meme di Internet, sostiene Marino, «sono un esempio di quelli che la semiotica chiama ipertesti: testi – verbali, visivi o audiovisivi – basati sulla manipolazione di testi pre-esistenti» (p. 301). La loro efficacia consiste nel riuscire a rappresentare sinteticamente un fatto o un personaggio attraverso qualcosa – in genere si tratta di un elemento stravagante – che sappia attrarre l’attenzione dello spettatore. L’efficacia deriva solitamente dal suo essere composto tanto da alcuni elementi fissi quanto da altri modificabili secondo necessità comunicativa.
All’immaginario religioso si può attingere per il suo valore estetico, desemantizzandolo, evidenziando il gap storico, sociale e culturale che intercorre tra la realizzazione originaria dell’immagine artistica o devozionale, e la percezione contemporanea in un contesto totalmente cambiato. Si ottiene così, facilmente, un effetto straniante e divertente. Se è facilmente comprensibile come per finalità non devozionali o teologiche si ricorra, attingendo dall’immaginario religioso, ad una forma di comunicazione come il meme, qualche riflessione in più occorre fare sul ricorso ad esso da parte, ad esempio, di chi intende restare nell’ambito della fede professata.
Marino nota come in alcuni casi i meme possano risultare efficaci strumenti di propaganda, affermare valori, rinforzare il senso di identità, di appartenenza a una comunità. Possono cioè rappresentare un prontuario da cui il singolo fedele può attingere risposte ready-made per affrontare questioni con cui si trova a confrontarsi quotidianamente. I meme possono anche essere impiegati come una forma di evangelizzazione meno diretta e intrusiva attraverso un linguaggio già conosciuto ed utilizzato dagli interlocutori. Vi sono poi casi in cui il ricorso ai meme è finalizzato a presentare una religione tradizionale come del tutto compatibile con la contemporaneità. «Conciliando l’astrattezza dei principi religiosi con la concretezza della vita di tutti i giorni, i meme sembrano funzionare come “parabole dei nostri giorni”» (p. 306). In questo caso i meme rappresenterebbero una sorta di equivalente contemporaneo al registro popolare introdotto da un filone dell’arte figurativa a tematica religiosa all’epoca della Controriforma cattolica.
Si tenga presente che i testi che circolano in Rete giungono agli utenti spesso privi di contestualizzazione circa la destinazione originaria, di istruzioni o indizi di lettura, di riferimenti agli autori originari e alle loro intenzioni. Ciò rende diversi testi ambigui al punto da rendere a volte indecidibile lo spirito con cui leggerli e interpretarli. In tutti i modi, anche quelli religiosi e agiografici, sottolinea lo studioso, «sembrano confermare la tendenza generalizzata dei meme a valorizzare, nel processo comunicativo, non tanto la componente che […] chiamiamo referenziale (informazioni fattuali sul mondo, contenute nel messaggio), quanto piuttosto quella fàtica, relativa al contatto tra i soggetti coinvolti e che avviene per mezzo di un dato canale comunicativo » (p. 313).
In chiusura del suo scritto, Marino accenna anche ad una ulteriore chiave interpretativa relativa al rapporto tra religione e meme, attinente alla genealogia profonda di questa forma testuale.
Proprio come tanti testi fondativi delle nostre culture i meme, come detto, sono spesso anonimi, senza autore, danno voce alla Rete oltre l’individualità del singolo, grazie all’autorità dell’impersonale, del “si dice” e del “si parla”, incarnando una sorta di nuova forma di tradizione o di mitologia diffusa. Nella preistoria e nella storia parallela delle pratiche da cui nascono questi remix testuali che sono i meme – strumenti della partecipazione idiosincratica, del dire “io ci sono”, ma “a modo mio” – possiamo trovare: l’arte collaborativa (il cadavere squisito surrealista), anonima (il graffitismo) o anonimizzante (la pop art, Banksy), lo sloganismo della politica (dal […] Keep Calm and Carry On agli #hashtag dei politici iperattivi sui social), le mille forme della parodia (da Aristofane al culture jamming, fino al contro-marketing del subvertising). E le mille forme dell’iconografia religiosa popolare: per esempio quelle delle Andachtsbilder, “immagini devozionali” pensate come ausilio per la preghiera e la contemplazione. Quante versioni diverse conosciamo, per esempio, del Sacro Cuore di Gesù, appropriato e personalizzato, nel rispetto di una griglia iconografica comune, da ciascuna comunità locale? (p. 315)