di Giovanni Iozzoli
Sara Manzoli, Morti in una città silente, Sensibili alle foglie, 2022, pp. 120, € 15,00
Se qualcuno, solo 3 anni fa, avesse previsto un ciclo di rivolte nelle carceri italiane, sezioni distrutte o incendiate, 13 morti, decine di agenti sotto processo per tortura e centinaia di detenuti per “devastazione”, ebbene quel qualcuno sarebbe passato per visionario o allarmista paranoico. Questo, non perché il sistema dell’esecuzione penale in Italia fosse stato negli anni umanizzato, bonificato o riformato: ma solo perché il carcere era stato espunto dall’agenda politica, dal dibattito pubblico e dall’attenzione mediatica, diventando uno di quei rimossi ingombranti e pericolosi attraverso cui le società liberali costruiscono la narrazione di se stesse. Del resto, chi si occupa normalmente di discariche? Solo quando si intasano o vanno a fuoco, mettendo in discussione il ciclo della raccolta e smaltimento, qualcuno si pone il problema della gestione del rifiuto: finché la discarica funziona, lontano da occhi indiscreti, nessuno se ne preoccupa più di tanto. La discariche nascondono al nostro sguardo lo scarto della vita sociale: dei loro siti maleodoranti, meno si vede meglio è.
Sara Manzoli, dopo aver scritto di sfruttamento del lavoro domestico e della crisi del sistema socio-psichiatrico, affronta il tema di un altro “inferno di prossimità” insospettabilmente vicino eppure pervicacemente rimosso: il sistema carcerario italiano e soprattutto l’esplosione che lo ha coinvolto, in quella primavera del 2020, che ha segnato un punto di non ritorno nella storia della governance delle emergenze in Italia e in Europa. L’autrice si concentra sulla vicenda della Casa Circondariale di Modena, quella che ha fatto registrare gli esiti più pesanti e tragici. Sant’Anna, anche prima del Covid, era una fedele rappresentazione del malessere strutturale del carcere italiano: a un passo dal centro cittadino, eppure totalmente sradicato dal suo contesto sociale; ordinariamente sovraffollato da una popolazione prevalentemente straniera e tossicodipendente; una piccola polveriera di provincia di cui tutti fingevano di ignorare la inumana pericolosità – tranne gli ineffabili sindacati della destra secondina, che chiedevano, ottenendola, nel tempo, una avocazione del potere di gestione interna, sempre più sbilanciato verso la componente in divisa.
Manzoli ricostruisce i giorni folli del primo lockdown, quando il panico e le misure di emergenza che stanno impattando sulla società, si rovesciano sul malandato circuito penitenziario, trasformando gli istituti italiani in altrettanti campi minati. Se fuori dal carcere l’ansia e le restrizioni crescono progressivamente – in carcere il clima ansiogeno travolge immediatamente ogni precarissimo equilibrio. I contatti con l’esterno, le visite dei congiunti, l’arrivo dei pacchi, la socialità interna: tutto viene sospeso per via amministrativa. Centinaia di detenuti afflitti da dipendenze mal gestite, da problemi psichiatrici irrisolti, dalla voglia di ribellarsi ad un sistema oppressivo e irrazionale, dalla paura del contagio per chi condivide cameroni sovraffollati (mentre si invoca a reti unificate il distanziamento sociale), esplodono in mille atti di insubordinazione. La febbre si trasmette da un istituto all’altro, da Sud a Nord, in alcuni casi rientra rapidamente senza danni, in altri lasciando dietro di sé una scia di cadaveri e incendi.
In quei giorni tanti amanti della dietrologia che affollavano talk show e rilasciavano interviste circa l’origine e le finalità delle rivolte: dalla regia ’ndranghetistica ai sodalizi anarco-mafiosi, con l’intento in ogni caso di “fare uscire i boss”. Questi teoremi verranno poi smontati. Le rivolte dei detenuti sono state spontanee, dettate dalla rabbia e dalla paura. Rabbia per essere stati esclusi dalle precauzioni che il governo stava predisponendo per la società libera; paura per questo nemico invisibile che stava terrorizzando il mondo intero. (…) . Le narrazioni arrivate in quei giorni da centinaia di familiari, e successivamente dai detenuti, alcune delle quali confluite in diversi esposti (su Milano Opera, Pavia, Voghera, Foggia, Melfi, Rieti, Bologna, Alessandria,…), parlavano di un medesimo modus operandi da parte delle forze dell’ordine intervenute nelle diverse carceri. E testimoniano di reparti speciali intervenuti non solo per sedare le rivolte ma anche per dare una “lezione” ai rivoltosi (pag. 9).
Qualcuno mette in discussione l’uso della categoria della “rivolta” – per descrivere gli episodi di quella primavera tragica: troppa la sproporzione nel rapporto di forza tra “rivoltosi” e apparati. Per capirci: nel 1974 si contarono circa un centinaio di sommosse nei penitenziari italiani, con morti, sparatorie e prese di ostaggi; ma si trattava di azioni spesso coordinate da organizzazioni che agivano “dentro e fuori le mura”, all’interno di strategie, metodi e dentro un certo clima della società italiana di quegli anni. Niente di paragonabile all’oggi. Nel marzo del 2020 queste jaquerie carcerarie, più che il segno della “rivolta”, assumono quello della disperazione; sono più urla di dolore, che di resistenza; puntano agli armadietti dei medicinali non al controllo delle carceri; i detenuti non prendono ostaggi, non fanno male a nessuno se non a se stessi e ai pollai in cui sono stivati. Protagonisti sono ragazzi giovani, in qualche caso alla prima condanna, quasi tutti molto vicini al fine pena. Solo l’insopportabilità quotidiana della propria condizione, può spiegare la loro scelta.
La deflagrazione di Modena lascia sul terreno 9 morti, una parte importante dell’Istituto incendiata, centinaia di detenuti trasferiti in condizioni inumane e molte testimonianze circa la consueta rappresaglia indiscriminata operata dalla Polizia penitenziaria, su cui la Procura ha aperto una inchiesta. L’autrice racconta delle ore concitate, dopo le prime notizie che cominciavano a trapelare; racconta del filo di fumo nero ben visibile da tutta la città; del pellegrinaggio dei parenti allibiti davanti ai cancelli di Sant’Anna, ignari della sorte dei propri cari; di mogli e genitori di alcuni dei morti che saranno avvisati dagli avvocati, giorni dopo il decesso. Racconta di istituzioni pronte cinicamente a tacitare lo scandalo di una strage senza precedenti. Racconta di una versione – suicidio per overdose di metadone – che è già pronta e confezionata mentre la rivolta è ancora in corso e non si sa neanche quante siano le vittime. Uno scenario sudamericano calato nella placida cittadina padana, resa ancora più silente dalle regole del lockdown. A Sant’Anna per almeno 48 ore saltano tutte le leggi della Repubblica: l’Istituto vive uno stato di guerra non dichiarata e si sottrae ad ogni regola di garanzia a tutela della vita, della salute e dei diritti delle persone detenute.
Dodici delle tredici vittime (in tutta Italia) erano migranti, e anche questo lo avevamo presagito da subito di fronte al silenzio “istituzionale” sull’identità dei detenuti morti. Casualità? No! Sistema. E non si può continuare a ignorare la componente strutturale del razzismo in buona parte delle forze dell’ordine. Come non si può continuare a ignorare il carattere razzista e classista del carcere e del sistema penale in sé. Come non si può credere alle mele marce né, tanto meno, alle “morti per metadone”. Il medico che constatò il decesso dei detenuti di Modena notò che uno dei morti era in mutande mentre all’esame autoptico venne presentato rivestito e con le tasche piene di farmaci (pag. 12).
A Modena, l’8 marzo del 2020, cade la maschera del carcere “casa di vetro”, con le sue retoriche piene di buone intenzioni e pessime pratiche. Anche San Vittore o Poggioreale, faranno registrare insubordinazioni e proteste, ma è nel “piccolo” istituto di provincia che succedono le cose più gravi. Così come nel micro contesto modenese, risulterà da subito difficile fare chiarezza sulla ricostruzione di cause e condizioni degli eventi. Il ” sistema Modena” , un misto di repressione, omertà e conformismo istituzionale e mediatico, si chiude a riccio, a garanzia del suo ordine istituzionale e simbolico.
Un incubo che solo a Modena spezzerà la vita di nove persone: Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Rouan Abdellah, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti e Salvatore Cuono Piscitelli, le quali, a posteriori, non meriteranno nemmeno la fatica di vedere aperto un processo sulla loro morte. Come insegna la storia di questo Paese, lo Stato si autoassolve. Sempre. Il loro status di detenuti che si sono ribellati non merita troppi approfondimenti investigativi e pochi spazi devono essere lasciati ai dubbi. In fin dei conti, a distanza di poco più di un anno dall’8 marzo la conclusione alla quale era giunta la Procura di Modena nella sua richiesta d’archiviazione coincideva pressoché esattamente con le ipotesi fatte circolare fin dalle prime ore di quella tragica giornata e cioè che i detenuti morti durante la rivolta fossero morti, tutti, per overdose di metadone. Morti che andavano cancellate in fretta e furia nel tentativo di purificare l’immagine di una città e di istituzioni ormai molto lontane dall’orizzonte democratico professato (pag. 16).
Sara Manzoli ricostruisce bene il clima che si respira in città nei giorni successivi a quella carneficina. Lo conosce perchè lo ha attraversato da attivista, dentro il Comitato Verità e Giustizia per la Strage di Sant’Anna: organismo che fin dalla denominazione rivendica con forza lo stragismo di Stato come cifra di quelle morti, al di là delle autopsie e delle versioni ufficiali. Il clima, dicevamo, della “piccola città” è solo apparentemente condizionato dai lockdown. Entra all’opera piuttosto un riflesso condizionato di rimozione dei traumi, delle brutture, delle zone d’ombra, che le piccole comunità sanno mettere in atto con efficace discrezione, compattandosi e allontanando da sé l’ombra del “male”. Il carcere di Sant’Anna viene semplicemente considerato un corpo estraneo, alieno, una escrescenza artificiale in una città sana; tutto quello che accade dietro quelle mura non riguarda i cittadini, non riguarda la società civile – le istituzioni, i partiti, i sindacati, gli ordini professionali, l’associazionismo. gli intellettuali e il mondo accademico, con i suoi patetici festival filosofici. La strage viene derubricata a incidente, una parentesi sfortunata da rimuovere dal calendario civico. Bene ha fatto l’autrice a rimarcare, fin dal titolo, lo scandalo della “città silente”: perchè la discarica sociale di Sant’Anna è sempre stata parte integrante del sistema di governo della polis, dei suoi codici di comando, dei suoi strumenti di disciplinamento sociale. E’ ipocrita e rassicurante, la narrazione di chi sostiene il contrario.
Il libro è denso e si legge d’un fiato. Nelle sue pagine troviamo la Spoon River dei morti di Sant’Anna, sottratti all’anonimato da tastiera e restituiti alle loro biografie spezzate; si rende conto del materiale di controinchiesta che organismi, avvocati e giornalisti coraggiosi, hanno saputo accumulare segnalando le criticità della versione ufficiale. Un campionario di fatti e circostanze di cui sulla stampa mainstream si è potuto leggere solo frammenti o stralci. Raccogliere tutto e operare una sintesi coerente e fruibile da chiunque, è il merito principale di questo sforzo editoriale.
Il volume di Sara Manzoli è un contributo importante per provare a tenere alta la bandiera della verità: non quella giudiziaria – che probabilmente è già chiusa (ma quando mai in Italia la giustizia arriva dalle aule dei Tribunali?); quanto piuttosto il perseguimento di un’ altra verità possibile, di una partita ancora più cruciale, quella della memoria. Questo libro vuole spingere la comunità dei “silenti” ad assumersi le proprie responsabilità storiche, a togliere dall’oblio quelle nove vittime, a onorarne il ricordo e assumerlo come elemento della vita cittadina in uno dei suoi snodi più drammatici.
Sensibili alle foglie – la casa editrice che più di ogni altro in questi anni ha posto il carcere al centro della sua produzione saggistica e letteraria -, continua a raccontare il perturbante, “gli indicibili sociali” (che è anche il titolo della collana che ospita questo volume): nella speranza che la storia rimossa, sepolta, imprigionata, diventi finalmente storia e memoria collettiva, sapere alternativo e condiviso. Non sarebbe male, come esercizio di educazione civica, se qualche insegnante coraggioso proponesse la lettura di questo libro ai suoi studenti: studiare la Costituzione repubblicana a partire dalle galere, il luogo di massima violazione del suo spirito e della sua lettera.