di Dziga Cacace
Zitto! La smetta con quel mandolino altrimenti ci cacciano, sssh! (Filini a Fantozzi)
1936 – Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green, USA 2021
Filmone agiografico che racconta la storia del papà delle ubertenniste sorelle Williams, della sua caparbietà e infine del suo successo. Tutto sommato ben costruito e ritmato, è per forza di cose prevedibile, un po’ perché la realtà la conosciamo tutti, un po’ perché gli snodi sono quelli classici di ogni narrazione di questo tipo con i temi di caparbietà e successo che tanto piacciono agli americani: la determinazione e il rigare dritto portano indubitabilmente all’affermazione del talento. Venus e Serena Williams sono state produttrici esecutive e sebbene non si tratti di un documentario la sensazione talvolta è quella. Alla fin fine non mi pare un gran film ma il pubblico, più della critica, ha apprezzato (io ovviamente mi metto nella categoria dei guitti). Salto in avanti di due settimane dalla mia visione in sala e Will Smith vince il premio Oscar come migliore attore per questa sua prestazione edificante, condendola con un ceffone – un dritto in top spin, per rimanere in ambito tennistico – al comico Chris Rock in risposta primordiale a una battuta infelice su sua moglie Jada Pinkett. Che dire? Ma niente, dài. (Cinema Orizzonte, Milano, 12/3/22)
1938 – I fichissimi di Carlo Vanzina, Italia 1981
Mi tolgo uno sfizio. Ci son critici che non han mai visto un film di Murnau e c’è il Cacace che mai ha visto I fichissimi, lo ammetto dolorosamente. E com’è? Una bella cacatina che però ha un sapore casereccio, di tempi semplici e si fa vedere con sapore archeologico. La storia è poco più di un canovaccio basato su Romeo e Giulietta, con la rivalità metropolitana tra milanesi e immigrati e di mezzo una ragazza, Giulietta, appunto, che s’innamora di Romeo, Jerry Calà, ed è sorella di Felice, Diego Abatantuono. Definire la comicità di grana grossa è quasi riduttivo: Calà si affida a iperboli linguistiche che forse per l’epoca erano innovative ma che non stupiscono mai granché. Abatantuono invece dà il meglio con la sua parlata da terrunciello che qualche risata la strappa, un delirio linguistico dove si mescolano alto e basso, citazioni colte e strafalcioni inimmaginabili che avrebbero trovato la consacrazione definitiva col successivo (quello sì un masterpiece) Eccezzziunale… veramente. Milano era un’altra città e questo è forse uno dei motivi più interessanti del film, come la rappresentazione di un’Italia scalcagnata prima della sbornia degli anni Ottanta, ancora povera, divisa esplicitamente in classi. Non che oggi ci sia una stratificazione diversa, ma è dissimulata da tutti mentre allora era esplicita e condivisa, dal basso quasi con orgoglio. Nella vicenda ci sono naturalmente i froci (il fratello di Abatantuono, definito “ibrido”), l’avvocato paralitico e strabico e le donne sono intese come prede (“gallinelle”) ma processare tempi e linguaggi diversi mi sembra un esercizio un po’ carognesco e molto ipocrita. E vabbeh. In un finale caotico si riesce a far decidere a Calà di disonorare Giulietta pur di poterla sposare: d’accordo che siamo nella farsaccia, ma nel 1981 si faceva ancora ricorso a questi escamotage pensando che fossero credibili? Mah! I fichissimi fa quasi tenerezza, con protagonisti che non sono comunque ricchi, belli o eroici ma che lottano contro una società di gente attempata, rivendicando il loro diritto alla felicità. Detta così sembra che si stia parlando di un’opera con un senso altissimo, ma poi l’impressione è che il film sia stato scritto e girato in due settimane e che certo cinema d’epoca anticipasse quella che poi sarebbe diventata la tivù (solo 2 anni dopo, il Drive In). Una comicità veloce e ricca di tormentoni, in qualche maniera antagonista di quella dei padri, più pomposa e, seppure tecnicamente inappuntabile, antica. Spulciando su Internet scopro che il film costò una miseria per arrivare poi a incassare una decina di miliardi di lire, preceduto nella classifica dei film della stagione da titoli come Innamorato pazzo, Il marchese del Grillo, Il tempo delle mele, Culo e camicia, I predatori dell’Arca perduta, Nessuno è perfetto, Eccezzziunale… veramente, Excalibur, Fracchia la belva umana. (Dvd, 16/3/22)
1939 – Succession Season 2 & 3 di Jesse Armstrong, USA 2019
A solo poco più di un mese dalla visione della prima stagione ci metto un po’ a ingranare perché c’è un intrico di nomi e mosse finanziarie e politiche che, in inglese stretto e stante il mio ottundimento, rende tutto difficoltoso. Ma Succession decolla ancora, talvolta sfiora il ridicolo quando scade nel grottesco, eppure regge e inanella scene eccezionali. Come quella del primogenito dei Roy, Connor, il megalomane che vuole diventare presidente degli Stati Uniti, che al funerale di uno zio molestatore legge un’eulologia imbarazzante scritta dalla fidanzata aspirante commediografa (ed ex escort). Poi c’è il più piccolo degli eredi, Roman, impotente, onanista e bipolare che rivela insospettabili capacità professionali dopo diversi disastri. E c’è anche la sorella Shiv, strategista politica rosa da gelosie e ambizioni, accompagnata al marito imbecille Tom, dall’eloquio ricercatissimo e succube di un rapporto insensato col cugino idiota Greg. Uno spasso dove emergono la figura gigantesca del capofamiglia Roy e del tormentatissimo figliol prodigo Kendall, schiavo di polveri e sensi di colpa. Insomma un bazar familiare impressionate e gustosissimo che prospera grazie ad attori eccezionali con in bocca dialoghi superbi, curati al dettaglio infinitesimale, tra interiezioni umorali e battute laceranti. Nell’ultima serie il gioco di alleanze e ricatti assume proporzioni inimmaginabili e si consuma l’ennesimo impensabile tradimento. Ma c’è ancora una quarta serie in arrivo e chissà chi la spunterà. (Sky, marzo 2022)
1940 – One Day One Day di Olmo Parenti & co., Italia 2021
Olmo Parenti e i suoi soci (Marco Zannoni, Matteo Keffer e Giacomo Ostini) non hanno neanche trent’anni e arrivano da studi diversi; hanno l’energia dell’età e le idee chiare su cosa raccontare e seguono uno dei principi cardine di Werner Herzog: prendi e vai, un film non è questione di tecnica o di attrezzature, ma di idee e volontà. E così, vivendo per un anno fianco a fianco dei braccianti extracomunitari di Borgo Mezzanone vicino a Foggia ci viene raccontata l’esistenza coraggiosa di chi ci porta in tavola la frutta e la verdura lavorando a salari da schiavitù. Una vita lontana dalla famiglia, col conforto delle telefonate a casa, della musica, della cura personale, ma dimenticati dallo Stato, senza documenti e diritti, abbandonati in una shanty town che fa notizia solo se scoppia un incendio o ci scappa il morto. Detta così – da me, male – potrebbe essere il consueto atto d’accusa, un film frignone e in qualche maniera deresponsabilizzante. Ma invece si vola alto perché il ritratto intimo dei protagonisti e la cinematografia, che sa essere lirica senza indugiare in un’estetica del disagio, rendono One Day One Day un documentario unico, entusiasmante, senza alcuna menata ideologica o dito puntato, senza strillate o piagnistei: vedi la vita di questa gente così com’è e ti rendi conto anche di tanta ipocrisia cinematografica che trasforma le disgrazie altrui in una sorta di giustificazione propria, come se potesse bastare la denuncia bella infiocchettata. Olmo & company – dopo essersi prodotti il film con pochissimi soldi e tanto lavoro – hanno cercato invano una distribuzione ma in questo paese a nessuno piace non lasciare il proprio timbro e con poco da guadagnarci: un film così è la dimostrazione plastica di come ci sia un blocco culturale e produttivo nei confronti di giovani pieni di energia che vogliono uscire dai percorsi soliti, dalle terrazze degli aperitivi, dalle cordate amicali che escludono tutti gli altri. E ci sono riusciti: visto che non si trovavano sbocchi hanno portato il film nelle scuole conoscendo un successo immediato (e non è un film facile all’inizio, per quanto alla fine immensamente soddisfacente) tanto che poi un distributore coraggioso s’è trovato e presto – si spera – One Day One Day lo vedrete su qualche piattaforma. Ma questi ragazzi hanno fatto tutto senza rivendicazioni, rimpianti o accuse: hanno semplicemente usato i social come sa fare chi ha la loro età e annunciato che il documentario era vietato ai maggiori di 18 anni, visto che i “grandi” non gli permettevano di avere una vita distributiva propria regolare. E io sono felice e son sicuro che arriveranno altri film perché qui, in One Day One Day, c’è la vita, magari misera ma dignitosa, e di opere così ne abbiamo tutti un gran bisogno. (Marzo 2022)
P.s.: Not everything is Black, primo documentario di Parenti, è su Amazon Prime: date un senso a quell’abbonamento e vedete come dalle semplici idee possano scaturire grandi film.
1941 – La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, Norvegia 2021
A me per godere di un film certe volte basta un sorriso, un tocco delicato, una canzone che irrompe dalla colonna sonora. Questo film ha tante qualità, forse anche dei difetti, ma mi ha talmente conquistato il ritratto di Julie che non starò a sindacare. Julie (Renata Reinsve) è una magnifica ragazza irrisolta che – divisa tra due uomini – prova a capire cosa le riserverà la vita. Quale lavoro? Quale ruolo? Madre, compagna, amica? Una boccata d’aria per uscire dagli schemi americani o italiani: bello, coi tempi giusti, vitale, con idee di montaggio ed evasione fantastica inaspettate. E poi una buona fattura generale, con attori azzeccati e partecipi. Candidato agli Oscar stranieri 2022 (premio poi vinto da Drive My Car), mi è piaciuto, mi ha intenerito. (Sky, 2/4/22)
1942 – Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, Usa 2022
Dopo la pandemia e il blackout seguente non era ancora capitata l’occasione. Colgo la palla al balzo e costringo la famiglia tutta a un film assieme, finalmente in sala, senza considerare che le figlie sono cresciute, hanno sviluppato un gusto loro e andare al cinema col papà è un supplizio e non più il piacere d’una volta. Infatti si annoiano, abituati ad altri tempi e ritmi. Io invece il film l’ho trovato bello, affettuoso e positivo ma ammetto che avrei apprezzato ancora di più se Anderson avesse lavorato di forbici e sintesi, perché anche a me, alla fin fine, l’accumulo ha un po’ stancato. Ma detto questo ci sta pure che questo ritratto dell’adolescenza (o perlomeno della gioventù) sia così: una vita esagerata, senza rete, senza particolare razionalità ma anzi con un po’ di stupidera collettiva, però con entusiasmo, generosità e ingenuità e soprattutto senza paura, con nulla che possa fermare la corsa dei protagonisti, una corsa che alla fine, finalmente, li porterà a collidere. Negli USA di inizio anni Settanta, tra nuove mode e crisi del petrolio, il liceale Gary si innamora della venticinquenne Alana, senza preoccuparsi della differenza d’età. Gli attori sono bravi e con facce interessanti e tutta la ricostruzione d’epoca, la musica e la fotografia sono eccellenti e alcune scene rimangono impresse, magari quelle minimali dove c’è un’intuizione che – sbam! – ti restituisce quelle emozioni perse crescendo. Come quando Gary e Alana si sfiorano le dita distesi su un materasso ad acqua, galleggiando in una sorta di liquido amniotico. Nel film c’è un mondo di giovani, praticamente una banda, che è in perenne movimento, lavorativo, affettivo, economico, senza freni e senza paure. Ogni occasione va presa, divincolandosi e oltrepassando le convenzioni della generazione dei vecchi, con ritmi antichi, grotteschi o semplicemente passati. C’è qualcosa che ricorda il free cinema o Hal Ashby, quella magnifica onestà dell’essere ragazzi e di vivere in libertà e di questi tempi non è assolutamente poco. Sofia ed Elena sono uscite dal cinema abbastanza incazzate perché si fermano su particolari inessenziali ma mancano la big picture. Vabbeh, cresceranno. (Cinema Ducale, Milano, 3/4/22)
1945 – Anna di Niccolò Ammaniti, Italia 2021
Dopo un’epidemia globale che ha colpito solo gli adulti è rimasto un mondo di bambini abbandonati a loro stessi: Ammaniti coglie nel segno di nuovo, dopo Il miracolo, e costruisce un universo folle credibile, crudele, spietato, disturbante, coloratissimo e spesso poetico, convincente fin dai titoli di testa. E tutto in anticipo sulla pandemia reale scoppiata mentre si girava la serie. Riaffiorano certi temi e manie dello scrittore: gli animali, i rapporti di forza, il cibo confezionato, ma ha tutto un lirismo coerente e un impatto visivo clamoroso. Location siciliana inedita, lontana dal cartolinismo televisivo delle fiction italiane abituali, e cast azzeccato con bambini e adolescenti diretti benissimo. Che bello. (Sky, aprile 2022)
1946 – Jimmy Savile: A British Horror Story di Rowan Deacon, Gran Bretagna 2022
Jimmy Savile, personaggio onnipresente per oltre 40 anni sulla televisione britannica, era una star incontrastata e grottesca dedita alla beneficenza e anche a diversi vizi innominabili. Molti sospettavano, molti sapevano, moltissimi vivevano in trance seguendo le gesta di questo pagliaccio orrendo, pedofilo e stupratore e impunito fino alla morte. Confezione documentaria ricchissima e impeccabile, costruzione intrigante, forse finale un po’ troppo veloce, come se si avesse ancora pudore a far vedere l’inganno in cui è cascata una nazione intera che fa ancora fatica a riconoscere l’errore. Comunque bello e terrificante, montato bene e narrato con onestà, sbattendoci in faccia l’equivoco televisivo tra persona e personaggio. (Netflix, aprile 2022)
1397 – Ozark Season 4, part 2 di Bill Dubuque e Mark Williams, USA 2022
Poco da aggiungere rispetto a quanto scritto in precedenza (qui). Ozark è (stata) una serie con tutti i difetti e pregi (effimeri) della nuova serialità. L’ho subita e ora, all’ultima stagione, la vivo con sentimenti altalenanti. Se penso a Breaking Bad, là c’era una coralità coerente, un universo risolto, dove tutto quello che veniva toccato narrativamente aveva un suo senso nell’affresco generale. Sapevamo perché era lì, da dove arrivava, come sarebbe finita (c’era una finalità). Qui in Ozark invece sembra tutto casuale e in molti casi lo è: entrano ed escono personaggi secondo convenienza effettistica. Tutte le attività della famiglia Byrde (economiche, politiche, diplomatiche, affettive etc.) durano lo spazio di una breve costruzione fino al colpo di scena e al prossimo giro, dimenticando conseguenze e destini. Ogni serie insomma pare ripartire da capo, senza uno svolgimento complessivo coerente. Poi ovviamente lo svolgimento è divertente (diverte proprio, nel senso che ti fa spostare lo sguardo, ti inganna facendoti distrarre), gli attori sono molto bravi, la fotografia è interessante (luci fredde fino all’acidità, senza colori caldi). Ma io rimpiango – per dire – tutto l’affresco delle prime due stagioni del mondo southern, pian piano perso per quanto il sud sia ancora il luogo dove tutto si svolge. Quei riti, quella signorilità antica mescolata a una certa rozzezza, la fede, il white thrash, l’etica redneck… tutto smarrito nella virata verso Narcos. Tant’è la serie ha tenuto comunque bene ma, ripeto, l’impressione è che si sia alzata l’asticella sempre, sfiorando il ridicolo e giocando apertamente con l’implausibile, purché lo spettacolo reggesse. Così si fanno gli ascolti, certo, ma non la storia, eh no. Il rush finale è abbastanza emblematico e tutto sommato ben concertato seppure nella consueta economia che quando conviene fa saltare passaggi e sviluppi, rendendo all’improvviso semplice e immediato quello che pareva insormontabile (del resto basta dire: “risolto!” e nella finzione è… risolto!). Rimane aperta una possibilità di riapertura delle vicende future dei Byrde e in qualche maniera si chiude esplicitando quello che era intuibile sottotraccia fin dall’inizio ma si faceva fatica a dire: tutti i personaggi con una coscienza e una dirittura morale vengono fatti secchi e trionfano il male, il familismo amorale e le connivenze. Un sussulto finale che che non illumina retrospettivamente quanto visto finora ma dà un minimo di nobiltà a una serie che del cinismo era interprete in tutti i sensi. (Netflix, maggio 2022)
1398 – Tromperie – Inganno di Arnaud Desplechin, Francia 2021
Il film ce lo hanno caldamente consigliato i miei genitori e io mi fido di una presentazione di MyMovies che parla di “film che dovremmo pregare di vedere. Luminoso e galvanizzante”. E non mi sfiora l’idea di dare un’occhiatina, chessò, a Rotten Tomatoes dove un 40% di consenso avrebbe dovuto farmi venire qualche dubbio (non che il sito sia le Tavole della Legge, però un’ideuzza te la fai). Vedendo il film ho poi pensato a quando si diceva “tua suora” o “tua Prinz verde”, passandosi la sfiga. Chi vede ‘sto film si fa passare la scalogna consigliandolo a qualcuno, se no non si spiega, perché Tromperie è una fetecchia delle peggiori, le fetecchie presuntuose, supponenti, compiaciute, che puntano altissimo e crollano miseramente. E che ovviamente convogliano l’apprezzamento di tutto il carrozzone critico che – non bastassero i cineasti cani – sfoga la propria frustrazione sugli spettatori mettendoli in soggezione e mandandoli poi a vedere film come questi, supposte pellicole d’autore, in realtà solo dolorosissime supposte. Tromperie o Inganno tiene fede al suo titolo e trascina lo spettatore in un tour de force dialogico sfiancante e poco riuscito, senza fascino, senza particolari intuizioni. Inganna perché è come una raffica di sberle e tu rimani frastornato. La base drammaturgica è fornita da Philip Roth, dal suo romanzo Deception (che mi mancava e che da adesso mi mancherà per sempre), di cui l’autore è anche protagonista. Si racconta del suo rapporto con una amante inglese, relazione alla base a sua volta per il romanzo nel romanzo (o nel film), in una masturbazione intellettualoide esasperante, di quelle che ti esulcerano e ti spossano. Io ho capito che avevamo preso il pacco dopo neanche 30 secondi. E pacco di quelli super. Per cominciare Roth ha la faccia di Denis Podalydès, già protagonista del funesto Imprevisti digitali. Veste i panni di Roth (vero o finto non mi importa, diciamo i panni di uno scrittore intelligente e affascinante) ed è credibile nella parte quanto un Lino Banfi. Inoltre ha le mani più brutte del creato, con le dita tozze e le unghie da bambino, e visto in questi due ultimi film francesi per me adesso ha il rating più scarso di sempre. La donna inglese con cui si trastulla con arzigogoli mentali è Léa Seydoux, pure lei credibile come inglese quanto una ugandese a interpretare una lappone. E non aiutano a dar retta al rapporto tra i due i dialoghi spezzettati, con ciance che si vogliono filosofiche e cazzeggi con pretese di poesia e profondità, sicuramente sensati su carta ma qui disidratati e coreografati in una messa in scena che vorrebbe essere ardita ma risulta solo vuota, neanche fotografata particolarmente bene, e piagata o da montaggi in asse che fanno moderno o, quando si vuole andare sul classico, da campi e controcampi con spesso palesi deficit di continuità. Ora: il regista, con una decina di film all’attivo, sarà mica un cretino, no? Boh: io volevo scappare e in quasi 50 anni di cinema m’è successo forse due tre volte. Perché era evidente subito che non si sarebbe andato a parare da nessuna parte (e sì che la confusione tra autore e protagonista era un bel tema – e lo si affronta veramente negli ultimi 10 minuti – così come il tema dell’ebraismo, sfiorato neanche male, ma solo sfiorato. Come in generale tutto il dualismo pubblico/privato, reale/romanzesco). Per il resto si cincischia, invece, si fa della poesia da strapazzo, si giochicchia con i temi cari a Roth (ma Roth lo può fare, non tu che adatti Roth!) e il risultato è una ciofeca sciagurata anche perché pretenziosa oltre ogni dire, col regista che ti dà di gomito facendo dire alla Seydoux che anni prima aveva i capelli blu. Capito? Ti faccio l’occhiolino, ti compiaccio dicendoti che era lei ne La vie d’Adele. Unico sussulto quando sullo schermo irrompe Rebecca Marder che è Valentina Cervi 20 anni fa, incredibile, veramente identica. Però, ecco: è il sussulto che può avere un rimbambito come me ed evidentemente mio padre che sarà stato conquistato anche dalla generosa e inutile capezzolata della Seydoux a inizio film. Quanto sarà costato un film così? Qualche milioncino di sicuro e io mi chiedo: ma chi sgancia i soldi – produttori, consorzi, commissioni etc. – quando vede poi questa roba, rimane allo stesso posto? Non viene giubilato con peci e piume e magari anche nerbate con bambù fresco? Io mi chiedo come si faccia, veramente. Son troppo vecchio per tollerare ancora il cinema cagone da festival, compiaciuto e compiacente con i criticonzi che poi scrivono recensioni imbellettate. E mio padre me la pagherà cara. (Cinema Ariosto, Milano, 8/5/22)
1400 – La svolta di Riccardo Antonaroli, Italia 2002
Veloce, pulito, ben fotografato, ben recitato, con diverse ideuzze e una trama ben gestita. Un piccolo film con pochi difetti (il sonoro, forse… tra romanesco rubato e raccolta bassissima dopo un po’ abbiamo messo i sottotitoli) che ci ha fatto subito simpatia. Ludovico è un ragazzo irrisolto, solitario, inconcludente. Nella sua routine irrompe il criminale Jack, pieno di forza di vivere e in fuga: l’incontro porterà conseguenze imprevedibili (belle queste note di trama da quotidiano pigro). Thriller meticciato con la commedia all’italiana, ha un finale non consolatorio e tanti rimandi al cinema nostrano che fu (anche la commedia sexy!) ma in modo funzionale e ammiccante, senza compiacimenti e citazionismo autoreferenziale. Carino e riuscito. (Netflix, 21/5/22)
(Continua – 84)
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