Nella tempistica tritatutto del giornalismo mainstream, come sempre, le notizie finiscono per dominare le prime pagine per pochi giorni, massimo una settimana, salvo poi sparire nel flusso indistinto delle news. Gli eventi, si sa, appaiono così auto generati ed indipendenti, perdendo completamente il loro significato complessivo.
Ritorniamo quindi in controtendenza, a distanza di un mese, a un episodio che ha dominato i telegiornali nostrani per una settimana con consueti toni isterici apocalittici. E che ha calamitato su di sé l’evergreen dell’emergenza.
Peschiera del Garda, località balneare per lo struscio del fine settimana in quel del motore d’Italia.
Il 2 giugno un raduno di ragazzini, dalle proporzioni certamente notevoli, ha finito per diventare agli occhi del paese poco meno che un invasione barbarica.
La dinamica è semplice: una chiamata su Tik Tok aperta alla community per un raduno spontaneo aggrega, come d’altronde successo da altre parti e in altri momenti, centinaia se non migliaia di ragazzini.
Quasi fosse una sorta di innovazione di quei modelli di riappropriazione dello spazio che un tempo avremmo chiamati rave o taz; e già qui potremmo rilevare un primo elemento di interesse ma procediamo oltre.
Il raduno prende corpo e libera energie compresse, quelle energie potenti e frustrate che può provare un adolescente che per due anni non ha potuto sperimentare una socialità degna di tale nome e che spingono per essere tirate fuori. La situazione degenera velocemente e dai tuffi di gruppo, dai balli per strada, si passa senza soluzione di continuità all’assalto dei baretti, ai furti di telefoni e al vandalismo negli stabilimenti.
A sistemare le cose interviene la celere, che distribuisce manganellate e porta le cariche sulle spiagge e sul lungolago, senza che ciò sembri dare particolarmente fastidio né ai ragazzi che la fronteggiano, né al resto di un paese che ormai non trova nulla di strano perfino a vedere la polizia antisommossa che fronteggia quattordicenni in ciabatte e costume in riva a un lago.
A fine giornata, binari del treno invasi, vagoni presi d’assalto e molestie a delle ragazzine. Il solito carosello di dichiarazioni nevrasteniche, di programmi di sicurezza per blindare spiagge e stazioni dal giorno dopo, di cordoglio per la festa della repubblica rovinata ai bagnanti.
Ma non è stato banalmente tutto questo pasticcio a destare apprensione. A confluire su Peschiera sono stati soprattutto ragazzini di seconda generazione, italiani dal sangue magrebino o africano. Sono i figli delle ondate migratorie degli ultimi due o tre decenni, i figli quindi di quello strato di popolazione su cui grava un reticolo di ostacoli e ricatti che tiene in ostaggio il diritto di vita entro questi confini, relegato perlopiù ai gradini bassi del proletariato, tra lavoro sottopagato, autosfrtuttamento, precarizzazione totale della vita e attività illegale. Sono la gioventù dei palazzoni delle periferie e delle province grigie.
In questo senso incarnano un prototipo quasi perfetto delle umanità generate dal capitale: lungi dal rappresentare una marginalità mossa ontologicamente da istinti vandalici o criminali, rappresentano in primis il frutto stabile del tardocapitalismo.
Sradicati e lacerati da una doppia identità: nè arabi/africani, perché il loro paese non lo hanno forse nemmeno mai visto, se non dentro la comunità familiare, ma nemmeno italiani poiché abitanti di un paese che li rifiuta con il suo tradizionale razzismo e che non perde occasione di sottolineare loro il ruolo di subalternità che gli spetta.
Da questa gioventù ci si aspetta che segua le orme dei propri genitori e che scelga il proprio percorso al bivio tra lavoro duro e carcere, che resti quindi ferma in questo asfittico parcheggio per forza lavoro a basso costo che ci si ostina a chiamare integrazione.
È una storia che ricorda quella delle torme di giovani meridionali andati a fare da benzina per le fabbriche del nord, prima che a quel destino si ribellassero e che quelle fabbriche venissero smantellate.
Ed in fondo anche su quegli operai, per quanto italiani, si riversava un discorso razzializzante che gli cuciva addosso il vestito della bestia da soma, buona per la fatica o per la cella. È quel dispositivo della colonia attivo nel cuore della democrazia occidentale: il continuo produrre una classificazione degli umani, una divisione gerarchica, che determina il ruolo di territori e soggetti collettivi all’interno del modo di produzione, cucendogli addosso un’identità; e poco importa che essa sia definita da reazionari nazionalisti o da progressisti umanitari, ciò che è essenziale è che che costruisca i bacini di forza lavoro da riversare nei diversi campi dello sfruttamento.
Tornando ai giovani di Peschiera; ad una vita inabitabile e a delle prospettive che sarebbero desiderabili in fondo solo a un masochista, il teppismo non può che rispondere come una pratica, sicuramente fallace, ma assolutamente liberatoria. Distruggi ciò che ti distrugge, era il brillante slogan di una formazione politica ormai quasi dimenticata; potrebbe essere il credo senza tempo di ogni giovane senza speranza.
E d’altronde, come potrebbero degli squattrinati ragazzini viversi le location dell’estate senza la possibilità di pagare per questo diritto allo svago? Semplicemente assaltandolo.
Se non posso affittare il lettino sulla battigia, possiamo invadere insieme l’intera spiaggia. Se devo essere guardato male mentre cammino sul corso, per il doppio taglio o per il colore della pelle, allora ti devasto la strada e lo faccio con le bandiere della mia terra. Se una pattuglia di poliziotti si fermerebbe a controllarmi solo per la mia immagine, tanto vale offrire un motivo camminando sulle macchine e saltando su quei ridicoli trenini per turisti. Se di norma devo scegliere tra pagarmi il biglietto del treno o poter fare un aperitivo al chiosco, per una volta mi prendo entrambi occupando in massa il treno e non pagando quello che consumo. Prendersi la merce, prendersi la città. Farlo platealmente e rivendicarlo quando la dimensione collettiva ne garantisce la possibilità. Semplice, limpido.
Attenzione, non vogliamo qui fare una mitologia del teppismo o qualche pantomima sui giovani immigrati stile bon sauvage. Ci limitiamo a registrare un fatto e a coglierne le possibili implicazioni: a Peschiera una soggettività finora ignorata ha finalmente imposto la sua presenza all’intero paese. E ne ha mandato in corto circuito le capacità di risposta.
Per i sovranisti è venuto meno lo spauracchio dell’extracomunitario violento: è vero che sono figli di immigrati, ma sono nati qui, hanno fatto le scuole qui, e a fare i teppisti con loro ci sono anche giovani bianchi e puramente italici, come facciamo a rimandarli al paese loro se ci sono già? Colti da isteria, non possono fare altro che dichiarare, come nel celebre film, con enfasi e aria grave che la repressione è l’unica cura, l’unica risposta civile a questa barbarie.
Dal canto loro, per i filantropi dell’umanitarismo progressista, è difficile “guardare alla complessità” della situazione o invocare comprensione per questi giovani, vittime del disagio e del razzismo, quando questi stessi ragazzi si rivendicano fieramente che per un giorno “Peschiera è Africa” e molestano delle ragazzine palpeggiandole e intimandogli che quello su cui viaggiano “non è un treno per bianche”; balbettano i democratici, e poi scuotono tristemente il capo constatando il fallimento della loro cultura dell’integrazione.
Non è un caso che alla fine si sia concentrata quasi tutta l’attenzione mediatica, politica e giudiziaria sulle molestie sessuali a bordo del treno; l’unico tema su cui si poteva convergere nella condanna unanime e si poteva archiviare il tutto facendo rientrare l’accaduto dentro il perimetro di una atavica e violenta pulsione sessuale da trogloditi che i suddetti giovani, ancora a metà del loro apprendistato al vivere civile, si portano appresso, peccato originale, dalle loro origini tribali e retrograde. Come quelli che al capodanno milanese non hanno semplicemente, in quanto maschi, molestato delle ragazze, ma hanno praticato un Taharrush Jama’i, un rituale pagano, terribile e lontano da noi. Come se l’Italia non fosse un baluardo della violenza patriarcale, come se questa gioventù, immigrata e non, non crescesse con dei modelli di mascolinità pateticamente artefatta e rozza.
Qui è possibile cogliere probabilmente anche il senso dell’imbarazzato silenzio della cosiddetta sinistra antagonista, il cui riflesso pavloviano, in assenza di schemi di lettura, si limita ad anatemi o esaltazioni sul fenomeno del momento. Ma non si possono condannare i giovani razzializzati e delle classi popolari, nè si possono assumere degli stupratori potenziali, per di più, anche un po’ razzisti. La stessa cultura di appartenenza delle bande di Peschiera è una cultura troppo lontana e spigolosa per essere assunta tal quale. È la sottocultura della Trap, con le sue mitologie gangsta, che parla di spaccio e di pistole, di contanti sporchi e macchine rubate, dove gli altri sono fratelli o prede e le donne pezzi di carne (si, lo sappiamo che c’è anche altro, ma qui non stiamo facendo né sociologia né critica musicale).
Certo, quanto di più liberista possibile, ma non sembra esserci all’orizzonte una dimensione alternativa in grado di influenzare immaginari altri. E in questa pesante assenza, questo genere di sottocultura è quanto più si avvicini ad una idea di liberazione dal lavoro, di autoemancipazione. E questa gioventù lo sa bene, nessuno vuole crepare in cantiere o sulla bici di Glovo, tutti vogliono i soldi per fare una vita piena.
D’altronde non serve il poster di Lenin in cameretta per sapere che si vivrebbe molto meglio senza sgobbare sotto padrone. Viene in mente il discorso famoso di un mitologico teppista milanese degli anni ‘70. “Noi volevamo stare meglio, vivere meglio: mangiare, bere, scopare, essere liberi più di prima. Non volevamo andare a morire all’Innocenti”. A quei giovani proletari di ieri era il movimento rivoluzionario a dare questa prospettiva, ai ragazzi del 2 giugno, sono Baby Gang e Massimo Pericolo. Distanze siderali che convergono su di una semplicissima istanza, comune e primitiva, vecchia come il mondo.
A Peschiera è emersa, almeno per un momento, una soggettività selvaggia che è irriducibile tanto ai vittimismi quanto alle criminalizzazioni stereotipate e alle apologie utopiche. È emersa la banlieue che conoscevamo solo oltralpe, quella dei figli bastardi della metropoli; è il battesimo all’italiana di una figura che è venuta a galla per restare è che impone ci si rapporti a lei, alle sue contraddizioni e potenzialità.
A Peschiera di politico non c’era nulla. Di pre-politico, tutto o, perlomeno, l’essenziale.