di Fabio Ciabatti
Ogni guerra si combatte anche sul fronte interno. Occorre mettere a tacere il nemico che può indebolire la compattezza delle nostre fila. In effetti anche la Russia di Putin aveva le sue “quinte colonne” in Occidente, l’arcipelago di formazioni reazionarie sovraniste. Un universo che potremmo utilmente definire post-fascista (includendo anche formazioni come la Lega che storicamente non provengono dal mondo fascista). Il presidente russo aveva creduto di poter utilizzare queste formazioni per indebolire e disarticolare il fronte opposto, pensando che si trattasse di possibili nemici interni dell’occidente liberale e democratico. Molti estimatori occidentali di Putin, però, nel momento dello scontro militare si sono affrettati a prendere le distanze dal loro vecchio idolo o hanno mantenuto un profilo basso, tale da non disturbare troppo le manovre belliche dei loro rispettivi Paesi, anche se, aggravandosi le conseguenze socioeconomiche della guerra, le voci critiche nei confronti dell’atlantismo prenderanno fiato, comprese quelle filoputiniane. Voltafaccia e opportunismi non devono sorprendere perché i presunti nemici interni dell’Occidente, che si rispecchiavano nella cosiddetta democratura putiniana, hanno in realtà un legame profondo anche se occulto con il mondo liberale e democratico. Per capire questo punto facciamo un rapido riferimento alla guerra fredda.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la minaccia rappresentata dall’alterità esterna, l’Unione Sovietica, convergeva oggettivamente con quella proveniente dall’interno, la classe operaia, anche se soggettivamente i loro obiettivi potevano essere ben differenti. Almeno a livello dell’immaginario, il comunismo rappresentava effettivamente, come si direbbe oggi, un altro mondo possibile, a dispetto della natura autoritaria del socialismo reale. Nemico esterno e nemico interno costituivano un pericolo reale per l’Occidente capitalistico che non poteva combattere sul fronte esterno senza proporre una tregua su quello interno (e viceversa). Una tregua, non una pace, che comportava la possibilità di significative concessioni, compatibili con l’ordine capitalistico, tali da raffreddare lo scontro di classe. Non sempre il gioco è riuscito. Il conflitto sul fronte interno si è talvolta spinto oltre i confini ritenuti compatibili con il sistema capitalistico e anche al di là dei limiti posti dall’ordine di Yalta e dai suoi custodi: l’insorgenza operaia degli anni ’60 e ’70 in Italia, per esempio, si scontrò non solo contro la feroce repressione statale e “parastatale”, ma anche con il Partito Comunista Italiano.
Sta di fatto che la pressione proveniente dal nemico interno e da quello esterno ha costretto il mondo occidentale ad una parziale ridefinizione. Sul piano politico, il pensiero liberal-democratico nasce dal confronto/scontro con il comunismo. Liberalismo e democrazia nascono esplicitamente come due termini oppositivi, diventano un connubio inscindibile durante la guerra fredda, tornano implicitamente a separarsi durante l’epoca neoliberale. Sul piano economico, il pensiero liberale nasce all’insegna del laissez faire demonizzando l’intervento statale, ma finisce per accettarlo come strumento subordinato all’accumulazione capitalistica perché considerato capace di salvare il mercato stesso dai suoi fallimenti e dai suoi eccessi. Dopo il crollo del muro di Berlino l’ideologia neoliberale pretende nuovamente di sciogliere le “magnifiche sorti e progressive” del libero mercato dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento statale. In altri termini il confronto con l’Unione Sovietica, in un contesto di accumulazione capitalistica sostenuta, ha portato dei benefici alle classi popolari dei paesi capitalisticamente più sviluppati che, attraverso un aspro conflitto, sono riuscite ad ampliare i diritti democratici e sociali. Per civettare con un linguaggio dialettico, la presenza di un’antitesi reale richiedeva la parziale assimilazione delle sue istanze nella riproposizione modificata della tesi. Scomparsa l’antitesi, con la dissoluzione dell’URSS e l’indebolimento della classe operaia, abbiamo assistito alla pretesa fine della storia. Non c’era più necessità di cambiamento qualitativo. Si poteva dare un solo tipo di movimento: la riproduzione allargata del medesimo. O almeno così ce l’hanno raccontata.
Oggi la minaccia esterna, la Russia, non solo appare più debole rispetto a quella rappresentata dallo stato sovietico, ma rimanda anche a un nemico interno fantoccio, quel populismo nel cui versante di destra, come si diceva, si trovavano i principali estimatori di Putin. Autoritarismo, gerarchia, ordine, xenofobia, identitarismo, nazionalismo, sessismo, plebiscitarismo, tradizionalismo di stampo religioso, potere carismatico sono senz’altro elementi che il postfascismo populista eredita dai suoi progenitori novecenteschi e condivide con il revanchismo russo. Da un punto di vista politico, però, il postfascismo non contesta la democrazia parlamentare, anche perché, nella sua forma tendenzialmente dominante, la post-democrazia, assume tratti sempre più autoritari, tali da non essere troppo sgraditi neanche all’amico russo. Anche il modello antropologico neoliberale, quello che mette il libero individuo al centro soltanto per imporgli di organizzare la vita come un’attività imprenditoriale, non è messo seriamente in discussione. Difficilmente il postfascismo, al pari del putinismo, può proporre una critica frontale all’ideologia del mercato di stampo neoliberista, anche se si oppone alla globalizzazione, alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea, all’euro. Ciò, infatti, non avviene in nome di una richiesta di maggior intervento pubblico nell’economia, ma al massimo di un ritorno ai mercati e alle monete nazionali, confidando nel fatto che questo ritorno, insieme al blocco dei flussi migratori, consenta una maggiore protezione sociale e una maggiore distribuzione della ricchezza a favore degli autoctoni.1
Tutto ciò non presagisce alcun ritorno di forme comunitarie, per quanto reazionarie. A ben vedere quando si parla di cultura autoctona messa in pericolo dall’invasione degli immigrati quello che si ha in mente sono modelli di consumo, al massimo rituali di consumo, cioè riti collettivi contraddistinti da una “relazione senza desiderio” tra i suoi partecipanti perché il desiderio è rivolto completamente verso lo sfavillante mondo delle merci. Anche quando si evocano le radici cristiane, il primo rituale collettivo che viene in mente è probabilmente lo shopping natalizio, non la messa di mezzanotte. Più Babbo Natale che Gesù bambino, insomma. La “fantasia di separazione” nei confronti dell’alterità rappresentata dagli immigrati è l’altra faccia dall’isolamento già esistente nei confronti di coloro che sono percepiti come i propri simili, i propri connazionali.2
Ciò non toglie che proprio la mancanza di un senso comune d’identità, di un sentimento condiviso di appartenenza possa rappresentare il brodo di cultura per l’emersione di pulsioni compensatorie di stampo autoritario e xenofobo.
Si tratta però, di attitudine sostanzialmente reattiva, non diversamente da quella che ha ispirato il conservatorismo russo dell’epoca putiniana, priva di quell’impeto modernista e a suo modo utopico proprio dei fascismi storici. Il “pessimismo nostalgico” ha sostituito quel misto di slancio vitalistico e pulsioni di morte che implicava anche il sacrificio estremo dell’individuo nel nome della patria perché l’unica libertà concepibile era la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Oggi è la libertà di consumo ad essere riconosciuta l’unica cosa seria, imprescindibile, anche dai nostalgici dei bei tempi andati. Oggi al massimo possiamo fare il tifo, a distanza, per gli ucraini che si sacrificano per la loro indipendenza. Abbiamo esternalizzato anche “la bella morte”.
Insomma, i movimenti populisti e postfascisti contemporanei non costituiscono una reale minaccia per il mondo occidentale, almeno non nel senso che ne mettano a rischio i fondamenti ultimi. Essi rappresentano piuttosto l’altra faccia di questo mondo. Sono quelli che dicono e fanno ciò che l’élite liberale non può esprimere esplicitamente, almeno al momento. Salvo poi recuperare in modo politically correct le stesse oscure pulsioni: non siamo razzisti ma … non possiamo accoglierli tutti e perciò, nostro malgrado, adottiamo politiche razziste con un tocco di umanitarismo. Aiutiamoli a casa loro con un po’ di cooperazione internazionale non governativa, ma intanto blocchiamoli alle frontiere.
Con il suo solito gusto per il colpo ad effetto, Zizek in uno scritto di qualche anno fa paragonava l’atteggiamento dei nostri governanti di fronte alla “minaccia immigrazione” all’“antisemitismo ragionevole” che Robert Brasillachs nel 1935 riteneva necessario per arginare le azioni sempre imprevedibili dell’antisemitismo istintivo.
Dopo aver virtuosamente respinto il razzismo populista come “irragionevole” e inaccettabile, considerati i nostri standard democratici, essi assumono delle misure protettive razziste “ragionevolmente … Come dei Brasillachs di nostri giorni alcuni di loro, persino i socialdemocratici, ci dicono “… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per impedire le azioni sempre imprevedibili di violente proteste contro gli immigrati è organizzare una protezione contro gli immigrati”.3
Con la guerra in Ucraina abbiamo aggiunto una nuova figura alla galleria della barbarie dal volto umano, quella del nazismo ragionevole. Il nazismo che dobbiamo aiutare in Ucraina per proteggerci dal nazismo folle e imprevedibile di Putin. Sia ben chiaro, la denazificazione dell’Ucraina come obiettivo proclamato dal presidente russo assomiglia ad una battuta di pessimo gusto, considerati il suo profilo ideologico e i suoi legami con la peggiore feccia di estrema destra in giro per il mondo. Ciò detto, la questione dei nazisti dell’Ucraina va presa seriamente. Tra le varie baggianate della propaganda di guerra occidentale c’è la barzelletta che la Russia non poteva tollerare l’esempio di un paese democratico che si stava sviluppando ai suoi confini.
In realtà la differenza tra il capitalismo oligarchico-burocratico russo e quello ucraino prima della seconda Maidan consisteva solo nel fatto che nel primo c’era un maggior grado di centralizzazione economico e politica mentre nel secondo c’era un vero e proprio campo di battaglia tra gruppi di oligarchi che si battevano per il potere. Dopo il 2014, in Ucraina ha preso definitivamente il sopravvento la cordata filoccidentale. Ciò, però, non ha significato l’approfondimento di una reale dinamica democratica, ma il venir meno di un confine politico e ideologico istituzionalizzato tra l’ala liberale della società civile e l’estrema destra, come ha sostenuto il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko. La piattaforma politica delle formazioni di ispirazione nazista è stata integrata nel programma di governo. Rivendicazioni che prima di Maidan erano considerate estremamente radicali sono entrate nel dibattito pubblico come perfettamente accettabili, a dispetto dei risultati elettorali risibili delle formazioni di estrema destra. Allo stesso tempo un’ampia gamma di posizioni politiche sostenute da molti ucraini, etichettate come “narrazioni filo-russe”, è stata sottratta la possibilità di essere pubblicamente rappresentata attraverso aggressive campagne di opinione, violenze vere e proprie, messa fuori legge di partiti e media di opposizione.4 Quella che in Occidente è una segreta convergenza tra estrema destra e liberali, in Ucraina è diventata manifesta solidarietà, con tanto di benedizione da parte delle democrazie atlantiste.
In conclusione, di questa seconda parte, torniamo in Italia per notare che oggi assistiamo a una divaricazione, mai stata così forte, tra sistema politico mediatico, completamente schierato su posizioni filo-atlantiste e belliciste, e opinione pubblica orientata largamente su posizioni quantomeno scettiche riguardo al nostro coinvolgimento nella guerra. L’assenza di un’alterità reale, esterna e interna, che poteva apparire una situazione ideale per la nostra classe dominante, ha in realtà portato alla sclerotizzazione di un sistema che ha prodotto una situazione davvero paradossale. Oggi, infatti, abbiamo un sistema che esercita un’egemonia pervasiva sull’immaginario collettivo ma al tempo stesso risulta incapace di metterla a profitto per creare un consenso diffuso in un tornante storico decisivo. Il paradosso si potrebbe spiegare con il carattere essenzialmente negativo di questa egemonia. “There is no alternative” è la sua cifra dominante. Non ci sono possibilità diverse da un mondo in cui la società cessa di essere qualcosa di reale perché esistono sono gli individui (e le loro famiglie) in competizione fra di loro. Ci dovremmo dunque sorprendere se, quando si presenta la necessità, si fa sempre più fatica a orientare questi stessi individui verso un progetto collettivo, fosse anche quello di affrontare un presunto nemico?
Per molto tempo l’Occidente si è illuso che non sarebbe più esistito un nemico alla sua altezza. Il terrorismo internazionale è apparso come un fantasma evocato a bella posta che andava soltanto esorcizzato. Per affrontare un nemico che rappresenta una minaccia reale, invece, bisogna per prima cosa capirlo e questo significa distruggere i cliché che lo riguardano senza cancellarne l’alterità. Un sistema che è in grado di fare ciò ha al suo interno risorse materiali e ideali che gli consentono di modificarsi e di evolversi nel corso del conflitto. Nulla di tutto questo sembra prospettarsi all’orizzonte. Se l’opposizione che oggi si manifesta solo nei sondaggi di opinione divenisse movimento reale potrebbero venire alla luce i demoni più oscuri di un sistema. In questo caso è così peregrino ipotizzare che la nostra classe dominante finirebbe per prendere sempre di più a modello la tanto esecrata Russia di Putin?
(2 – continua – la precedente puntata qui)
Su questi temi cfr. Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00 e la nostra recensione qui. ↩
Per i concetti di relazione senza desiderio e fantasia di separazione cfr. Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Bari 2019. ↩
Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, Milano 2010, p. 65. ↩
Volodymyr Ishchenko, “Towards the abyss”, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022. ↩