di Gioacchino Toni

Provocazione, trasgressione sessuale e spontaneismo sembrano ormai elementi irrinunciabili dell’immaginario veicolato dalle produzioni mainstream – dal cinema ai programmi televisivi, dall’infotainment allo sport-spettacolo, dalle pubblicità ai nuovi protagonisti della scena (video)musicale, dai contest ai festival nazional ed euro-popolari… – così come in quello dispensato sul Web dai professionisti della vetrinizzazione. Non c’è ormai programma televisivo di studio o di fiction narrativa, pubblicità o videoclip in cui manchi qualche parola o atteggiamento sopra le righe, qualche riferimento ad una sessualità altra rispetto a quella tollerata da Santa Romana Chiesa e qualche dress code di derivazione street style.

Di come si sia trasformato quest’ultimo, anche nel suo eccedere l’universo strettamente vestimentario, tratta il volume di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022).

La carica contestataria dello street style sembra ormai essere stata assorbita dalle logiche della moda contemporanea che, anziché sentirsi oltraggiata, irrisa o respinta da questo, ha finito per trasformarlo nel suo contenuto più rilevante. Perso il suo contenuto originario, nella sua forma sempre più globalizzata lo street style contemporaneo sembra sempre più proporsi come logica ed estetica dominante nelle mani dei grandi brand.

Nonostante l’immaginario contemporaneo sia costantemente bombardato da messaggi volti a convincere dell’avvenuta scomparsa delle classi sociali, risulta evidente la polarizzazione crescente tra una ristretta élite che nell’ambito della moda è dedita un consumo di iperlusso e una, per quanto eterogenea, moltitudine che è costretta al low-cost. Nel frattempo è venuto ad affievolirsi quel ruolo ponte tra i due poli storicamente proprio della classe media che ha a lungo svolto un ruolo fondamentale all’interno del sistema della moda moderna. Insomma, gli eccessi e l’andamento caotico della moda contemporanea parrebbero avere molto a che fare con l’acuirsi della polarizzazione sociale e la crisi della classe media.

Il rapporto intercorso tra street style ed universo della moda a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si è evoluto notevolmente. Se diverse storie sociali della moda hanno insistito sul processo di “democratizzazione” che vi sarebbe stato, altri studi hanno preferito concentrarsi sul fatto che mentre storicamente lo street style avrebbe connotati di autenticità, la moda si sarebbe limitata ad un’opera di campionamento e reinterpretazione delle sue idee.

Focalizzarsi sulla moda come artificio e sullo stile come autenticità rischia di far perdere di vista le zone liminali tra i due mondi ed è per questo motivo che Barile prende in esame proprio tale ambito di interscambio intensificatosi soprattutto negli ultimi anni contraddistinti da manifestazioni schizofreniche di coesistenza e giustapposizione tra opposti, fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda di certo soltanto il dress code. A proposito dell’intreccio contemporaneo dei due ambiti, Barile sottolinea che «nell’epoca della globalizzazione il concetto di stile ha contagiato quello di moda mentre la forma pura della fashion è penetrata nell’universo dello stile alterandone la struttura. Si tratta di una collusione universale che non culmina in sintesi pacifiche, ma che alimenta conflitti semiotici su ambedue i livelli e che rappresenta il motore della creatività contemporanea» (p. 11).

Se alcuni studiosi individuano nella moda una costante antropologica propria dell’intera storia delle civiltà, altri vedono in essa un’esperienza esclusiva e costitutiva dell’epoca moderna. Facendo riferimento a quest’ultima prospettiva, diviene possibile definire la moda come «una uniformità socioculturale che scaturisce dall’innovazione ciclica e sistematica» (p. 15).

A differenza del costume tradizionale, tendenzialmente stabile, l’abbigliamento alla moda rappresenta invece qualcosa di dinamico che non vuol dire per forza di cose successione di novità assolute ma, soprattutto in epoca recente, di riproposta ciclica attualizzata. Nel momento in cui la moda si è trasformata in sistema, le innovazioni e l’obsolescenza sono state tendenzialmente regolarizzate e programmate in determinati momenti dell’anno. La ferrea stagionalità delle collezioni ha subito un primo contraccolpo nel momento in cui il fenomeno prêt-à-porter ha moltiplicato i centri creativi e produttivi – decisamente polarizzati nel panorama della Haute Couture – e ampliato a dismisura la clientela.

Le categorie della moda e dello stile possono essere limitate ai soli aspetti vestimentari o allargarsi fino a comprendere una vasta gamma di linguaggi e di comportamenti propri dei diversi periodi storici. L’antropologo statunitense Stuart Ewen, ad esempio, ricorre ai termini attitude e latitude per indicare i due atteggiamenti limite entro cui collocare le politiche stilistiche contemporanee: il primo, più vicino alla moda, indicherebbe un modello aristocratico, una trasmissione piramidale delle tendenze, mentre il secondo incarnerebbe la tendenza a ricorrere ai codici visivi e vestimentari per costruire/affermare l’identità, avrebbe dunque più a che fare con lo stile.

Oltre allo scarto tra coercizione-eleganza e autonomia-libertà, la distinzione semantica tra moda e stile è profondamente legata alla variabile temporale, o meglio all’esperienza che si fa del tempo attraverso l’abbigliamento. Nella catalogazione operata dall’antropologo americano sull’epoca storica dei cosiddetti street style emerge il principio discriminante di una diversa temporalità che sfida quella universale e astratta della moda. Già nell’etimo anglosassone il termine stile rimanda a un certo tipo di stagnazione temporale. Nello stile, suggerisce Barile, si potrebbe ravvisare l’incarnazione dell’idea bergsoniana di “durata” nell’ambito dell’estetica dell’individuo.

Se la moda segue il senso di una successione cronologica astratta, di una temporalità uniforme e progressiva, scandita da eventi ciclici, lo stile resiste a tutto ciò, rivendicando una chiusura centripeta verso la profondità del vissuto quotidiano. Si tratta dunque di un concetto complementare a quello di moda, che palesa la medesima esigenza espressiva e comunicativa, ma che definisce l’identità seguendo vettori affatto opposti. Rispetto alla forma di esclusione verticale, tipica del fashion, lo stile promuove un’esclusione orizzontale che non si fonda sulla possibilità economica di dotarsi di un patrimonio di segni, ma sull’adeguatezza esistenziale ad assumere una certa immagine. Se la moda cambia incessantemente e trasferisce delle identità prefabbricate al suo pubblico, lo stile si genera intimamente negli appartenenti a un gruppo ed esprime il grado di immersione in un dato tempo e in una data realtà sociale che, in questo caso, potremmo definire come “la strada” (p. 20).

Secondo Sarah Thornton il limite di approcci come quello di Dick Hebdige consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre a suo avviso queste sono in qualche modo influenzate dall’ambito mainstream.

Le due esigenze fondanti la storia degli street style, l’autenticità e la spettacolarità, sono in netta contrapposizione e mettono in evidenza una sensibilità schizoide che si è accentuata con l’avvicinarsi della fine del millennio. Solo tenendo ben presente tale scissione può essere spiegato il rapporto controverso di amore/odio nutrito dalle varie generazioni di giovani nei confronti dei beni di consumo e del sistema dei media. Una sindrome che dagli anni Sessanta ha coinvolto anche lo stesso sistema della moda ufficiale, costretto a rinnegare i suoi antichi presupposti, tra cui l’esclusività e il lusso, per sposare la causa democratica di una moda che si diffonde negando se stessa. […] Da quando il sistema-moda ha interpolato la curva evolutiva degli street style, la logica onnivora del lusso ha assorbito molteplici contenuti provenienti dalle subculture giovanili tra cui: la provocazione politica, la trasgressione sessuale, lo spontaneismo. In altri termini il lusso è evoluto alla volta di un contenuto di unicità che spesso confligge con la sua anima industriale e commerciale (pp. 21-22).

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, di pari passo con l’esaurirsi della spinta propulsiva della moda moderna, secondo Barile si è assistito anche al concludersi della fase storica degli street syle che hanno man mano perso la loro connotazione antagonista dando vita a un rapporto sempre più colluso con il sistema della moda. La capacità degli street style di recuperare e decontestualizzare capi propri della moda per ricontestualizzarli cambiando loro di segno fino ad assorbirli in pratiche antagoniste ha finito per essere fatta propria dal fashion system che ha operato allo stesso modo nei confronti delle sottoculture: decontestualizzando e ricontestualizzando le loro estetiche.

Quella pratica sottoculturale di agire sullo stile in cui Dick Hebdige aveva scorto un tentativo di resistenza tanto alla cultura tradizione, quanto agli imperativi manistream dell’obsolescenza programmata dal consumismo, non solo è finita per divenire territorio di saccheggio da parte della macchina della moda, ma, secondo Barile, ne è divenuta complice, come dimostra l’esplicita “alleanza” tra cultura hip hop degli anni Ottanta e i grandi brand dello sportswear.

Grazie a questa nuova “alleanza” tra mercato e cultura giovanile, supportata dalla progressiva dilatazione della categoria di gioventù, lo sportswear divenne un segmento strategico per un elevato numero di aziende. La collusione con il brand system può spiegare la longevità di questa sottocultura, che ancora oggi si presenta come il fenomeno stilistico e musicale di maggiore rilevanza mondiale. […] Con il nuovo millennio si compie il processo di sublimazione e di universalizzazione dello street style. Un fenomeno paradossale perché la negazione del lusso, che un tempo era il tratto distintivo delle sottoculture giovanili, ora trasforma lo street style nel nuovo lusso. Ciò vuol dire che, da un lato, tale categoria si svuota di una serie di riferimenti culturali e contestuali che in passato lo caratterizzavano (la strada), dall’altro, tende a marcare il suo legame con un contesto storico, mimando le sue radici, la sua origine, la sua autenticità sopratutto per una questione di coerenza comunicativa del brand (pp. 45-46).

Sicuramente la progressiva dilatazione della categoria di gioventù contribuisce a spiegare il successo dello sportswear. Affacciatasi sulla scena nel corso degli anni Cinquanta palesando specificità proprie, la categoria dei giovani, oltre a conquistare un ruolo inedito all’interno del mondo politico e culturale, non ha tardato ad attrarre l’interesse delle industrie dell’intrattenimento e dell’abbigliamento capaci di intuirne velocemente il potenziale in termini di propensione al consumo e di facile adesione alle mode in linea con un desiderio di continuo cambiamento. Non è pertanto un caso che siano proprio i settori dell’intrattenimento e dell’abbigliamento a spingere maggiormente sull’immaginario degli adulti affinché si sentano “giovani” il più a lungo possibile; una tale dilatazione della giovinezza rappresenta un allargamento della propensione al consumo a frequente obsolescenza. Inoltre, a differenza dei “giovani veri”, che possono più facilmente dar vita a qualche fiammata contestataria, questa platea allargata di “giovani attempati” risulta solitamente meno incline alla messa in discussione dell’esistente, dunque decisamente più rassicurante.

Il concetto di street style è inevitabilmente mutato anche alla luce dell’avvento dei social media che da un certo punto di vista hanno esasperato la propensione alla “vetrinizzaizone”, all’esigenza di vedere ed essere visti. Molti look che un tempo erano considerati alternativi, sono oggi esibiti nei programmi televisivi e nei locali mainstream anche perché i brand della fast fashion, con la loro ossessione di accelerare sempre più il succedersi di nuove collezioni, oltre che alle proposte delle passatelle non mancano di trarre ispirazione dalla strada. «L’esigenza da parte della moda di mettere in discussione la contrapposizione tra classi sociali incentiva la congiunzione tra lusso e sportswear o tra lusso e fast fashion. Tale operazione parte spesso dal mash up del logo, un tempo considerato come l’inviolabile tratto identitario del brand, ma che diventa oggi il punto di fusione tra know how diversi che hanno storie e brand image diametralmente opposte» (p. 48).

In diversi casi la fusione riguarda non solo il logo ma anche l’identità stilistica e la comunicazione del progetto che non manca di porre particolare enfasi a questioni che toccano, sebbene assai superficialmente, il multiculturalismo e, sempre più spesso, la fluidità di genere, tematiche che sembrano offrire nuovi ambiti di interesse merceologico.

Un curioso fenomeno che segnala il processo di trasformazione dell’idea di street style in ambito consumistico non proprio low cost riguarda la scena hipster. Se le radici di tale fenomeno posso essere individuate nella Beat generation degli anni Cinquanta, in realtà i nuovi hipster

sono totalmente collusi col sistema dei consumi e con brand tendenzialmente di nicchia che caratterizzano il loro stile. In secondo luogo sono newstalgici, ovvero provano una nostalgia vicaria per consumi e tendenze dei propri genitori, che dunque non hanno mai esperito. Tale aspetto li pone in netto contrasto con i giovani ribelli di un tempo che fondavano la propria identità sul conflitto generazionale con le generazioni più anziane. Forse, proprio perché vivono la fase avanzata della cultura postmoderna, caratterizzata da saturazione dei media e dei consumi e dunque da fluidità e crisi delle identità sociali […], prediligono rifugiarsi in un mondo rassicurante e stabilizzate, fatto di mode e consumi passati (p. 49).

In un momento storico di forte polarizzazione socioeconomica, diverse collaborazione tra stilisti e marchi sportswear si sono date all’insegna della ripresa di capi e particolari propri degli street style trasformando l’originaria creatività di questi ultimi in prodotti di lusso non accessibile ai più. Vi sono poi importanti brand storici che, dovendo riposizionarsi sul mercato, «mirano a incorporare il vissuto dei nuovi consumatori […] rinnegando la stressa idea di lusso che hanno incarnato per anni» (p. 52) proponendo così un nuovo modello di lusso applicato agli street style.

Il dato sociologico più rilevante è che, in una società sempre più polarizzata come quella occidentale, dove i ceti medi tendono a sgretolarsi mentre l’élite e i ceti subalterni divergono, la cultura del consumo tende a far convergere le classi sociali all’insegna di uno stile popolare ma esclusivo. Se gli street style classici soffrivano di una certa scissione, ambivalenza o schizofrenia nell’opporsi frontalmente al sistema, cercando di affrontarlo tatticamente, per poi esserne sfruttati in maniera inesorabile […], i nuovi street style usano la trasgressione, anche la più estrema, per affermare globalmente il proprio potere simbolico e la propria coolness. Quanto più radicale è la negazione, tanto più accresce il loro valore e la venerazione da parte del pubblico. Il meccanismo tipico della logica neoliberista, capace di estrarre valore da differenza, difformità, radicalismo ecc., trova la sua ampia applicazione, come nel mondo dell’arte con cui, non a caso, la moda intrattiene una relazione sempre più intima (p. 54).

Circa i rapporti tra social media, nuove tecnologie, moda e street style, indagati da Barile nella seconda parte del volume, varrà la pena tornare successivamente.


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