di Giovanni Iozzoli
Scrivere della morte di don Ciriaco è difficile come scrivere della morte di Maradona – il rischio di scivolare nel folclore, nel banale, o nell’invettiva, è assolutamente inevitabile. Poche figure politiche sono state iconiche come la sua – nel senso di rappresentative di un contesto, di una suggestione, di un’epoca che trascende la figura stessa. Lui è stato la Prima Repubblica, la sua essenza pubblica, visibile, ma anche la “grana” di cui quell’esperienza storica era intessuta. La Prima Repubblica è figlia del conflitto sociale, figlia, a suo modo, della Resistenza; figlia delle stragi operaie e contadine degli anni ’40/’50; figlia della battaglia politica e dello scontro di classe. Questa è la sua cifra, la sua carta d’identità, la sua ricchezza plurale. I suoi uomini più rappresentativi introiettano la logica del conflitto, le sue strategie palesi o i suoi giochi sporchi – vivono e metabolizzano la vigenza del conflitto, traendone ognuno una lezione diversa.
De Mita fu tra coloro che vissero l’idea della lotta di classe senza drammatizzazione; bisognava fare i conti con il movimento operaio, con la questione sociale imposta dalla modernizzazione frenetica del neo-capitalismo, con il partito comunista più forte dell’occidente e l’oggettiva durezza della fase storica. I democristiani post-Scelba prendono tutto e lavorano con tutto: non c’è bisogno di scomunicare, alzare fortini, inseguire logiche da guerra fredda, competiamo e cooptiamo, piuttosto. Su che terreno? Non su quello becero dell’anticomunismo, ma su quello del consenso, dell’interesse popolare, della vantaggiosità della suggestione del cattolicesimo popolare e sociale rispetto a ogni altra teorizzazione o modello.
Ecco, tutta la retorica e la miseria del clientelismo, così tanto esecrata dall’Italia puritana, nascondeva in realtà un’idea potente – gramsciana e nazional-popolare, in questo assai materialista e moderna – di costruzione di un nuovo blocco sociale: questo facevano, i democristiani come De Mita, analizzavano la società, i rapporti di forza in campo, gli strumenti disponibili e poi, intorno alle leve straordinarie che l’epoca consentiva loro (industria di Stato, credito di Stato e spesa pubblica) modellavano la composizione sociale indirizzandola verso la costruzione di una rete dinamica di alleanze sociali maggioritarie. “Cetimedizzazione” delle classi popolari, tutela del coltivatore diretto, favorendo una uscita pilotata e indolore dalla piccola economia rurale in declino, scolarizzazione dei figli del sud per promuoverne l’ingresso nei ranghi della scuola e della PA, tutela delle grandi imprese familiari a patto che stiano dentro il disegno democristiano; svalutazione competitiva per le aziende del nord e intervento straordinario nel mezzogiorno. Un’idea di egemonia sociale basata su una prassi di irriducibile presenza reale.
Questa idea di manipolare e orientare la composizione sociale – le dinamiche di classe, la mobilità tra ceti, il rapporto forze produttive e comunità – è l’essenza del ‘900 e rimanda a non poche suggestioni “socialiste”; in questo ricorda (in piccolo e in modalità edulcorate) gli esperimenti di ingegneria sociale dello stalinismo e del denghismo – niente a che vedere con il tatcherismo e l’affidamento al mercato delle funzioni di stratificazione sociale.
Fu l’esistenza del demitismo a permettere a Scalfari e ad un pezzo di borghesia (sedicente illuminata) di andare oltre la vecchia idea del compromesso storico: verso un processo di divoramento e digestione del partito comunista e della Dc, entrambi rappresentanti di un Italia che stava scomparendo, in direzione del progetto di partito democratico che una ventina d’anni dopo sarebbe effettivamente sorto. Un progetto che avrebbe assimilato e sterilizzato per sempre la memoria e le ragioni dei comunisti italiani, piegando anche il cattolicesimo sociale alla tecnicalità “laica”, di modernizzazione capitalistica neo liberale, prima ulivista e poi piddina – da cui, per nemesi, lo stesso De Mita si staccò presto.
Sono cresciuto in quella che fu la capitale del “clan degli avellinesi” che, secondo Pannella, si era impadronito del potere politico in Italia negli anni ’80. E mentre gli sceneggiatori americani dei Soprano collocavano, chissà perché, ad Avellino l’origine della celebre famiglia mafiosa, la cittadella d’Irpinia, povera e disastrata, invece di generare boss da fiction, forniva un pezzo importante e decisivo di classe dirigente alla prima repubblica nel suo momento più fulgido, prima del crollo. I democristiani sui territori erano ovunque, in cordate organizzate con una capillarità che ricordava il radicamento comunista nell’Italia centrale: nei quartieri – soprattutto nelle coree, nei rioni di brutte case popolari, nei campi terremotati e nelle nuove periferie disagiate -; e dentro al sindacato, nei cantieri e nelle fabbriche, dentro le organizzazioni di categoria di commercio e agricoltura, nella pletora degli enti assistenziali, nelle associazioni disabili, dentro gli ineluttabili oratori di parrocchia. Partito Stato ma anche Partito Società.
Nel 1985 si sviluppò in Italia un robusto movimento studentesco, che non ha lasciato grandi tracce, ma rappresentò uno dei primi elementi di ripresa di piazza, dopo la sconfitta degli anni ’70. Anche ad Avellino, quei giovanissimi studenti provarono a organizzarsi, collocandosi in modo naturale su un terreno antigovernativo e antidemocristiano. Ebbene, alle riunioni del movimento (che si tenevano in CGIL) si presentava regolarmente anche un nipote di Ciriaco De Mita; tutti noi sapevamo chi fosse e, pur avendo solo 17 anni, anche somaticamente era riconducibile alla stirpe politica e alla prestigiosa schiatta familiare di provenienza; veniva dal liceo classico del centro, e si infilava senza pudori in un contesto nel quale eravamo quasi tutti figli degli istituti tecnici e professionali.
All’inizio facemmo finta di niente, non puoi buttare fuori la gente in quella situazione, tra ragazzini senza esperienza. Lui era imperturbabile, arrivava e diceva la sua, come se essere lì fosse la cosa più normale del mondo. Un giorno, alla fine della riunione, lo fermai e gli dissi senza mezzi termini che la sua presenza era inopportuna: quel contesto lì era chiaramente antigovernativo, che diavolo ci faceva il nipote del capo, dentro una sede di movimento? E lui, allora, con disinvoltura, mi rifilò una lezione politica: io sono qui, perché noi siamo dappertutto, e nessuno può buttarci fuori. Stava esprimendo un’idea di egemonia che probabilmente nessuno gli aveva inculcato, era il prodotto di una prassi storica, generazionale. Stava dicendo: noi siamo qui, questa è casa nostra, il nostro territorio, il nostro mondo, e anche nelle vostre enclave di sinistra non siete al riparo, perché in realtà la vera sinistra siamo noi che possiamo dare lavoro a migliaia di giovani destinati all’emigrazione, non le vostre chiacchiere ideologiche; noi possiamo prendere i figli dei sottoproletari e trasformarli in bidelli e comunali; noi possiamo prendere i figli dei bidelli e farli diventare dottori; noi questo siamo in grado di mettere sul piatto: voi con le vostre bandiere rosse cosa offrite a questi ragazzi? Le impotenze picciste, le chiacchiere dei filosofi in via di pentimento, le galere (che all’epoca erano ancora discretamente affollate di comunisti)?
Ecco, quando penso a De Mita, penso a quella stagione, che fu anche folclore e brutture – il Bagaglino, il tressette, la dizione terribile, le citazioni in latino, e i patti non scritti con i clan, le produzioni nocive, i baraccati di lunghissimo corso -, iperprovincia depressa, insomma: ma anche la capacità di discutere da pari a pari con Gorbaciov, Reagan e Fidel, alla luce di una storia, di un retroterra, di un lignaggio. Odiavamo De Mita, potendo gli avremmo mosso guerra. Non sapevamo che dietro l’angolo della storia, incombevano altri pericoli e altre beffe: il crollo di quel mondo e la fine dei partiti repubblicani, l’avvento dell’imprenditore-politico e della formattazione di massa della telecrazia, l’arrivo sconclusionato nelle stanze del potere dell’Uomo Qualunque (Gigino Di Maio è nato ad Avellino, a chiudere un cerchio di decadenza). Una traiettoria in cui non ci sarebbe stato posto per le nostre bandiere, che provavamo senza grandi successi ad alzare sui barracani e i container dell’Irpinia terremotata. Sic transit gloria mundi – vale per lui e vale per noi, che di gloria ne abbiamo vista poca.